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  • Immagine del redattoreMartina Toppi

«C’è un cane che abbaglia»: recensione a “Voce del verbo mare” di Simone Consorti

A teatro prima di tutto c’è il buio. Un po’ come è successo qualche miliardo di anni fa, prima del mondo. E nel magma dell’oscurità ogni cosa si muove: palpebre, dita, scialli e polsini di camicie. In quel frangente dopo che le luci si sono abbassate e prima che il sipario si apra come attratto all’indietro da una forza misteriosa, c’è spazio perché qualcosa serpeggi tra le poltrone e i palchetti. Una voce, forse una poesia.

Voce del verbo mare di Simone Consorti (Arcipelago Itaca, 2022) inizia da qui, da questo denso buco nero che accompagna per mano lo spettatore alla creazione della finzione teatrale, dove tanto è possibile e quasi nulla è fuor di portata. Sul palcoscenico di Consorti molte cose sono concesse e raccontate: presentarsi a un appuntamento sapendo che l’interessata/o non si presenterà («perché so che non verrai / ma non so quando») oppure nascondere poesie dietro altre e no, non dall’altro lato del foglio («Dietro questa poesia c’è una sorpresa / una corda impiccata / alla sua attesa»), narrando ogni cosa con scanzonata voglia di scherzare a un pubblico fin troppo serio.

A recitare ci sono le maschere e sembra davvero che dietro di loro non si nasconda nulla: vuoti occhi e bocche robotiche che parlano di sé in terza persona con la voce del poeta. Rafael Nadal, il tennista spagnolo, mentre racconta i suoi tic nervosi, con sorriso agghiacciante svela ai presenti una verità ultima dell’universo: «Ogni gesto / a forza di ripeterlo / può abitare o spopolare un universo / Fino a dopo l’ultimo granello / ogni spiaggia è soltanto un deserto». Paul von Hindenburg ha i baffi frementi di una generazione ricordata più per quello che ha lasciato fare alla successiva che per sé stessa e accanto a lui c’è un collega del burattinaio, Lorca, che dà di gomito al maresciallo tedesco e gli racconta di quella volta in cui venne fucilato dalle forze nazionaliste spagnole. C’è anche un Fellini confuso e rosso in viso dopo la fuga dalla sua orchestra, ancora impegnata a prenderlo in giro per aver perso quella dannata bacchetta: «Il direttore d’orchestra / ha perso la bacchetta / e senza di quella / nessuno gli dà retta / Prova con un dito / ma tutti i musicisti lo deridono / “Microdotato” gli dicono». Su quel palco enorme che Consorti ha messo in piedi c’è spazio per tutti: i 909 suicidi di Jonestown così come quell’unico abitante della fortezza di Masada cui toccò togliersi la vita da solo dopo aver aiutato i suoi concittadini a farlo: « “So bene che non è un duello / So pure che il tempo è bello / Ma ti prego / adesso che sto sfoderando / il coltello contro me stesso / colpiscimi tu con un fulmine / in mezzo al petto / o spiegami almeno perché / il tuo verdetto”». E ancora Gagarin, direttamente dalla Luna, Thomas Bernhard, Robinson, un’Oona O’Neill appena diciottenne, Aldo Moro che stringe al petto il suo ultimo sogno, Amleto sempre indeciso e Ofelia pronta ad affogare in un bicchier d’acqua.

C’è spazio per tutti loro e molti altri in questo teatro prima buio e ora affollato, perché nel frattempo il proprietario è impegnato in ben altro e questa folla («Più son solo più fa folla la mia ombra / la mia la tua la nostra / Sono una statua di vetro / Più son solo più fa ombra la mia folla») solo apparentemente disgregata prende a muoversi come un unico organismo, seppure un po’ ridicolo, grottesco, a tratti tragicomico, che porta proprio dinnanzi al lettore/spettatore uno squisito punto di domanda: cos’hanno in comune le nostre vite? Trovare una risposta è stata per me la sfida interpretativa di questa raccolta che solo per volere del suo autore si presenta come erroneamente casuale, costruita a casaccio con scarti di componimenti scritti in un momento non meglio identificato della vita. “Voce del verbo mare” è in effetti assolutamente casuale, ma lo è a pieno titolo, su volontà di questo commediografo plautino che sa quale caos sta costruendo proprio mentre lo costruisce. E infatti una giuntura c’è: il motivo per cui Pessoa, Kolbe e Maradona si guardano sperduti intorno prendendosi a braccetto e facendo capolino tra questi versi può essere afferrato tra le dita. E prende il nome di attesa: «D’altronde non c’è fila per sedere / perché nessuno vuole mettersi vicino / - a chi sta aspettando qualcun altro».

Sono due le tipologie di attesa che accomunano i personaggi in scena nella poesia di Consorti e il poeta stesso, distinti in altrettante sezioni della raccolta.

In Ti ho dato appuntamento senza dirtelo l’attesa è quella della morte. L’attesa della morte è un viaggio che va attraversato senza andare verso qualcosa di ben definito, ma ricordando di avere sempre l’amica fatale a braccetto, invisibile, un po’ come la descriveva in uno dei suoi mondi fantastici Philip Pullman, un po’ come appare ne La città incantata di Miyazaki, un’ombra amica, che ci accompagna per tutta la vita: «È sempre più composto questo morto / che ha occupato il mio posto / Ci hanno venduto lo stesso biglietto / un’unica poltrona / per il medesimo viaggio / ma se lui sta fermo e immobile / io mi agito».

Il tema della morte attraversa questa raccolta mettendo in scena una verità, ovvero che la morte non è qualcosa che si possa attendere, ma essenza stessa dell’attesa che riempie la vita e le dà un senso, ovvero una direzione. Eppure, nelle parole di Consorti c’è ben poca filosofia e molta più abile ironia nel fotografare una realtà sì minimizzata e proprio per questo più seria e reale che mai: «In ogni bara lasciateci un buco / per farci entrare il mondo / oppure un bruco». Nell’attesa, Consorti e le sue maschere si muovono sminuiti e sminuenti, scrollandosi di dosso la serietà e le responsabilità, consci che è molto più realistica l’attesa del futuro che il godimento del presente, che spesso ci scivola addosso senza che noi possiamo afferrarlo, salvo però trasformarlo col senno di poi in un’elegante battuta o ancora meglio in una poesia.

E poi c’è un altro tipo di attesa, raccontata nella seconda sezione della raccolta: Mentre Dio faceva il suo dovere. È qui che le maschere di Consorti prendono vita nella stagione che più loro si confà. Un autunno dove la vita, in attesa di rinascere, procede a pieno ritmo, anche se in silenzio, sbeffeggiando sotto i baffi chi ha paura della morte perché dimentica cosa sia l’inverno. C’è un’ironia calviniana che il poeta riserva a questi personaggi a metà, questi Amleti dimezzati e queste Ofelie affogate in un bicchier d’acqua. E di Calvino in Consorti c’è anche altro: la ricerca della radice comune che tiene insieme ragione e invenzione (e forse, se vogliamo, fede e realismo), una ricerca della contraddizione come puntello da cui sollevare il mondo e rivoltarlo, scoprendo che sotto ogni scherzo c’è un fondo di serietà e che non c’è niente di più serio di uno scherzo. Il tempo migliore per farlo è la pausa, lo stallo apparente in cui si lascia fare alla vita che scorre, a un Dio il cui agire resta imperscrutabile, eppure c’è: nell’apparente nullafacenza del cosmo, la vita continua inconsapevole come una bambina che continua a saltare la corda, anche sotto la pioggia di un temporale, il mare che attende sempre il ritorno di ogni onda. Come quel buio nel teatro quando nulla è ancora iniziato eppure questo niente è tutto uno scherzo: dietro il sipario ogni cosa è già successa migliaia e migliaia di volte, prima di essere nuova per noi.

Ecco allora il perché dell’amore di Consorti per l’assonanza, per certe rime giocose, per queste poesie cantilenanti tanto più riuscite quanto meno dicono, quanto più il poeta le pota di netto, come rami secchi in attesa di rifiorire a primavera. In questa esistenza a metà tra il serio e il faceto, tra l’estate e l’inverno, Consorti sguazza felice con la sua carovana di personaggi a metà che come lui dell’attesa hanno capito qualcosa di essenziale. «Invece io son convinto che l’autunno / sia quel momento dell’anno / immobile sospeso / incastrato proprio in mezzo / fra ciò che è finito / e ciò che è iniziato da un pezzo / Mi piace zoppicare per le strade / in cerca della foglia che non cade».

Ma per dirlo non serve a nulla essere seri e scrivere recensioni. Per dirlo basta leggere la poesia: «Dietro questa poesia c’è una cosa / che non è nemmeno poesia / Spiegarlo a parole è impossibile / Mi servirebbe un Dio / capace di mostrare alla marmaglia / che perfino nella notte più buia / c’è un cane che abbaglia».


Simone Consorti è nato nel 1973 a Roma, dove insegna in un liceo. Ha esordito con “L’uomo che scrive sull’acqua ‘aiuto’”(Baldini e Castoldi 1999, Euroclub 2000, Premio Linus). Ha pubblicato i romanzi “Sterile come il tuo amore”(Besa, 2008), “In fuga dalla scuola e verso il mondo”(Hacca, 2009), “A tempo di sesso”(Besa, 2012),“Da questa parte della morte”(Besa, 2015), “Otello ti presento Ofelia” (L’erudita, 2018), “La pioggia a Cracovia”(Ensemble, 2019), oltre che diverse raccolte di poesia, tra cui “Nell’antro del misantropo”(L’arcolaio, 2014) e “Le ore del terrore”(L’arcolaio). “ La sua piéce “Berlino kaputt mundi” è andata in scena al Teatro Agorà di Roma nel 2018, mentre più recentemente è uscita la sua ultima raccolta di racconti, intitolata “Vi dichiaro marito e morte”(Ensemble, 2020). Si occupa di street photography; ha tenuto mostre personali in Italia e partecipato a collettive in Russia. Il suo sito è: sconsorti1.wixsite.com/simoneconsorti


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