«È il nulla che avanza?»: recensione a "La materia non esiste" di Marco Colletti
La materia non esiste (La vita felice, 2024) è il libro d’esordio poetico di Marco Colletti, eppure è un libro già maturo, in cui sensibilmente affiora un dettato e un portato poetico che chi legge sente essersi sedimentato a lungo, attinto da una profonda indagine sul reale, talmente profonda che permette a Colletti di stare con i suoi versi al contempo dentro e fuori dalla realtà e dal reale e spinto da una spiccata capacità di inoltrarsi in maniera del tutto autentica e particulare tra le piaghe dell’io, scoprendone i lati nascosti e segreti, mettendo in luce le ombre, provando ad attribuire significato a ciò che è per sua natura indicibile, insignificabile, irrappresentabile. Eppure Colletti riesce, forse anche per via della sua professione e della sua formazione come illustratore, art director e artista digitale di poesie visive e poesie visioni, a rendere rappresentabile, a rendere visibile ciò che rappresentabile e visibile non è: «Ho costruito questa gabbia dorata / di parole perché tutti possiate / vederle, prima di ascoltarle» scrive il poeta, aiutandoci a riconoscere nella forza della parola-immagine, che regge con determinazione l’architettura dei suoi versi, una cifra essenziale del suo dettato. La poesia di Colletti è una poesia di immagine, immagine su cui pesano una serie di incarichi importantissimi che coinvolgono significato, significante e significabile. Sì, perché le immagini che Colletti ci propone nei suoi versi diventano sorta di idola nel senso in cui Francis Bacon le indicava, ovvero quali fantasmi, illusioni o pregiudizi della nostra mente che tendono a falsificare e talvolta a rendere non facilmente intellegibili l’esperienza e la realtà. E in questi idola, in questi fantasmi infiltranti stanno al tempo verità e menzogne della mente, della vita di dentro, della vita di fuori, dei sensi. Anche la divisione della raccolta in tre sezioni dai titoli particolarmente significativi «Mens», «Cor» e «Sensus», mi sembrano in qualche modo rimandare a questa necessità, a questo strenuo tentativo di cantare e di dare forma poetica a ciò che invece parrebbe indicibile, impronunciabile: «Oggi, nella siepe dei pensieri / ho trovato una scaglia di vetro / e le ho dato nome realtà». La prima sezione «Mens» allude, va da sé, all’intelletto, al pensiero. Intelletto e pensiero che arrivano a intuire che la materia è menzognera e mendace, che tutto ciò che è materico e materiale rischia di ingannarci: ciò che tuttavia il pensiero smaterializza non è meno reale di ciò che è impastato a partire dagli atomi. Anzi, tutto si ferma in una pasta indistinguibile di materia e non materia, di reale e non reale, di percezione e riflessione, di pienezza e di vuotezza. In tutta la raccolta la presenza più ingombrante è quella del vuoto, del nulla, del niente: «È il nulla che avanza?». Sì, è il nulla che avanza onnipresente, che investe ogni cosa del sentimento dell’inutilità del tutto, che scopre e mette in mostra un male drastico, congenito, energico quasi definitivo. E questo vuoto si fa presenza soprattutto nell’assenza di chi è caro, di chi è vicino al “cor”, o si “materializza” nella morte e negli indizi di lei. La morte che attraversa tutte le sezioni della raccolta, dalla perdita della madre alla morte percepita anche mentre si sta vivendo poiché il poeta spesso attesta, rintraccia nel corpo i segni inconfondibili di un inevitabile disfacimento, di una consunzione, consumazione che irrimediabilmente scopre il tempo che passa. Consapevolezza del vuoto e vuotezza del reale che modulano un certo sbigottimento ma che tuttavia non spengono una spinta vitale e non colmano le piaghe del mal d’amore, anzi semmai lo accendono, lo “impaludano” (nella seconda sezione «Cor», l’amore e il rapporto con la figura femminile è posto al centro). E se «la carne boschiva» della donna «si fa muschio» sui pensieri del poeta, lo aiutano a scavallare oltre le percezioni, le emozioni sensoriali, il “sensus” che trasforma il pensiero in ritmo e canto. L’aspetto ritmico è un altro degli elementi forti della raccolta, del diario poetico di Colletti: l’uso ponderato ed esperto della metrica, l’attenta cesellatura sulla parola, il ricco vocabolario contribuiscono a far pulsare un ritmo intonato e finemente modulato sul procedere del pensiero poetico. «Vi chiedo perdono di scrivere il buio. / Ma perché, voi avete la luce?» chiede il poeta a noi che leggiamo, eppure accende in noi lettori la necessità di trovare una ratio vivendi, una ratio “amandi”, una volontà di trovare anche nel buio un senso a «quel / tradimento da pagare / per sopravvivere».

La madre
per Roberto Deidier
Quando lei si tace sotto i pruni
imbiancati dall’ormai inesistenza,
resta sotto al cuore l’assordante
silenzio del corpo, nella minuscola
agitazione della tanta vita perduta,
nelle graniglie del mio pavimento,
un deserto di granelli di pietra che,
ti giuro, sempre la conterranno.
*
Mentre attendo che la vita arrivi,
mi libro in visioni dal folgorante
conforto: le calde nuvole che
avvolgono epifanie di santi
immacolati, il rubino dei manti
che schioccano al vento
le speranze degli umili,
inginocchiati negli interstizi
del reale. Sole e colombe,
i raggi disegnati dalle loro ali,
il rapido flutto del pulviscolo
che gioca con l’ombra e tutto sfoca,
mi appaiono come giganti
di salvezza al grido muto,
alla sofferenza che non ha
più parola, se non questa
quieta indomabile poesia.
*
Negli anni, di un canto mi prese
l’abbandono e, rapito, a sfioro
volavo sulle più belle parole.
Il gioco all’incanto dei sentimenti
andati, tornado lontano
e crocericordo. Ballare
trasognando mi fu quella vita,
dell’angelo dell’amore il bacio
mai spento, l’orlato delle labbra
e il fuoco di un orecchino.
Ero corallo, oro e profumo
di capelli, nel bosco degli occhi
la rincorsa di due menti.
Tutto svanì ed io soffuso,
nella vita che diventò esistenza
e poi nulla e il vuoto. Ora c’è
cenere intorno ai miei occhi
e lacrime antiche, solcando ferite.
Il grigio che mi resta eppure
ha un caldo sapore, delle cose amate
oltre l’Amore, dell’ultimo appiglio
a chi sono stato. Ed ecco che
cieco rivedo un bagliore.
*
La voce del silenzio
Morbidi incanti mi cucivano nella gola
le parole del silenzio. Il mio tacere
si faceva suono attraverso i miei occhi
e gocciolava nella campagna, raccogliendo
dentro di sé il rauco brusio degli stormi.
Non bastavano più i corvi a filtrare
la mia voce del silenzio e mi spezzavo
le ciglia ad una ad una per poter vedere
meglio, per far parlare i miei occhi
dappertutto. Se le mie dita si fossero
allungate, avrei toccato l’orizzonte
e non sarei più tornato. Ora non sarei qui,
ma a parlare chissà dove, senza
la mia voce, rimasta dentro il tempo.

Marco Colletti vive e lavora a Roma. Laureatosi in Lettere all’Università degli Studi di Roma La Sapienza con la tesi ‘L’immaginario affettivo nelle Familiares del Petrarca’, Relatore Prof. A. Asor Rosa, si occupa da sempre di poesia, critica letteraria con approccio ermeneutico-antropologico e arte contemporanea in qualità di curatore e artista digitale: le sue opere digitali sono poesie visive e le sue poesie visioni. Organizza eventi e convegni letterari ed è redattore della rivista letteraria Formafluens International Literary Magazine. Suoi contributi critici sono presenti anche nelle riviste Laboratori Poesia e Il Mangiaparole. Nel 2024 è uscita la sua raccolta di poesie La Materia non esiste, ed. La Vita Felice. È art director e illustratore per aziende e case editrici internazionali nel settore dell’illustrazione per l’infanzia.
Comentarios