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Immagine del redattoreEmanuele Andrea Spano

«Una breccia ferita sempre aperta nella voce»: recensione a "L'età dell'uva" di Mattia Tarantino

La vocazione orfica di questo libro di Mattia Tarantino, uscito per la Perrone editore sul finire del 2021, è già in qualche modo implicita nel titolo L’età dell’uva. Un titolo che svela il retroterra mitico che sta dietro la sua scrittura e che richiama il rito della vendemmia, la concitazione orgiastica, il tripudio dionisiaco, che pone al centro il dualismo e la dialettica tra la vigna, con la sua ciclicità che si fa metafora esatta della Natura, e il vino che matura nelle botti, che nutre e ubriaca al tempo stesso. Un titolo che però certo, al di là del fitto sottobosco di letture che può alimentare, ci richiama anzitutto all’idea della vita, e pure alla sua dimensione bacchica, svelando così uno iato, almeno apparente, con la tessitura di questa raccolta che è intrisa, quasi ossessivamente, di morti. Di morti, appunto, e non di morte in senso stretto, di morti come presenze, relegate ai margini del mondo dei vivi, che stanno a guardare, che cercano una strada per ritornare ad abitare questa terra o che attendono che si infoltisca la loro schiera, morti senza voce e senza lingua che lasciano tracce tra i vivi, che seminano trabocchetti (che «giocano a nascondere /ossicine nei bocconi delle vecchie») e aspettano che la ruota giri e la morte torni vita o la vita diventi, tutta, definitivamente morte.

Uno iato appunto che però trova risoluzione e scioglimento proprio nei versi di Tarantino se è vero che «all’uva basta un soffio per marcire / in fretta», se quell’uva strappata alla vite langue sulla nostra tavola, se è vero che i morti bevono «per varcare ubriachi la soglia» e quell’ebbrezza diviene strumento o antidoto per il trapasso, soglia indistinta tra la condizione dei vivi e quella dei morti, e ribalta l’accezione di quell’estasi dionisiaca.

Lungo questo confine si muove la poesia di Tarantino che si agita in un microcosmo in cui quelli ossi, quelle vene, quel sangue paiono pezzi o formule di un rito iniziatico che tenta di sovvertire l’ordine delle cose, di raddrizzare l’equilibrio perverso che vuole i morti trincerati oltre quella cortina di nebbia che ci separa dal nulla. E la parola stessa assume, fin dalle prime battute, un ruolo quasi oracolare, mostrando al tempo stesso la sua inadeguatezza, la sua “inaffidabilità”, la sua scivolosità tutta umana, che sia preghiera da barattare con l’abisso della morte o poesia che riscatta, consola, include nel suo gesto tutti, senza distinzione, abolendo il confine tra il qui e il là, cementando il taglio tra i due mondi.

Se questa insistenza sulla parola assume i tratti di una riflessione autentica sul senso stesso della scrittura ed esplora, senza mai scadere in apologia spicciola o in mistificazione, il potere intrinseco della lingua che nomina e definisce al tempo stesso, che costruisce e inventa, pur accarezzando solamente il senso ultimo delle cose, tutto in fine si risolve ancora una volta nel rito, nel fuoco che brucia gli alfabeti, in quel fuoco che è sacralizzazione e purificazione, distruzione e rinascita.

La ciclicità è un elemento che sotterraneamente percorre questo libro e lo determina, al netto di qualsiasi sviluppo lineare intuibile nella progressione dei movimenti, dalla prima parte attraverso l’intermezzo fino alle variazioni finali. Lo si ritrova nella dialettica tra i bambini e i morti, che abitano le “placente” per «tornare tra di noi» («nelle vene dei bambini il loro sangue»), in quel dualismo tra sangue e latte, nell’essenza stessa dell’estate – «stagione di favole, dei morti e delle birre» secondo una formula che salda vita, morte ed ebbrezza – che proprio nella vigna e nella vendemmia celebra la sua fine, e in qualche modo la rinascita che verrà.

E la lingua, che pure non salva e non redime, non resuscita e non porta indietro, lascia qualcosa, «una breccia / ferita / sempre aperta nella voce», un vulnus, uno spacco da percorrere per risalire e tornare sangue che pulsa nelle vene.


Mattia Tarantino (Napoli, 2001) codirige Inverso – Giornale di poesia e fa parte della redazione di Atelier. Collabora con numerose riviste, in Italia e all’estero, tra cui Buenos Aires Poetry. I suoi versi sono stati tradotti in più di dieci lingue. Ha pubblicato L’età dell’uva (2021), Fiori estinti (2019) e Tra l’angelo e la sillaba (2017).

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