«Quello che dici sulla primavera è una cazzata»: recensione a "Quando tornerai sulla terra" di Silvia Atzori
- Martina Toppi
- 31 mar
- Tempo di lettura: 7 min
L’Averno è un lago situato all’interno di un cratere vulcanico tramite cui, secondo le credenze degli antichi romani, era possibile accedere a un altro mondo, precluso ai vivi. Quando tornerai sulla terra (Arcipelago Itaca Edizioni, 2024) di Silvia Atzori è un accesso alternativo all’ultraterreno, a ciò che sta sotto di noi. Non le rocce laviche di un vulcano, ma le porte rapide a chiudersi e ad aprirsi di un treno. Le sliding doors di un’intera esistenza. Essere su un letto d’ospedale e al contempo già non esserlo più o non esserlo ancora: la notitia criminis, il fatto alla radice di tutti i versi, è giornalisticamente collocato in principio, prima di qualsiasi spiegazione. Così dev’essere se, come intende fare l’autrice, il lettore necessita di essere informato. Poi, fatto questo, si può tornare indietro. E Atzori lo fa, con una prima sezione della sua opera, “Descensus” in cui accompagna il lettore nella discesa nella vita quotidiana. La sveglia, il «sette e sedici» (persino i treni, nel tran tran quotidiano del pendolare, risultano spersonalizzati, meri momenti passeggeri in cui prendere o perdere il convoglio), «i pensieri a briglia sciolta», la stazione di arrivo, un’altra discesa, più giù, verso il basso e il cuore della terra, dove una metro arriva senza annunci e senza annunci se ne va.
«Proserpina qui non la puoi trovare. Ad aprile / qualcuno l’ha vista indossare un prendisole / sotto l’impermeabile crudele. / La vita è altrove sulla terra e qui / apertura porte a destra / qui ormai non è rimasto nessuno». Scrive Atzori, prima di scendere dalla metro e mescolarsi alla folla di persone con una direzione chiara, ma non significativa: l’università, il lavoro, la scuola dove accompagnare il figlio. Luoghi di vita quotidiana, ma non luoghi vitali, per l’autrice. La raccolta se ne nutre: via Larga, a Milano, con i cieli grigi su cui si stagliano i fili del tram, Milano Cadorna, i gradini che dalla metro sputano i passeggeri verso l’aria aperta, dove si torna a essere persone e non viaggiatori. Ma è solo nel non luogo treno e che Atzori si permette di fermare il pensiero e appuntarlo su un volto, un orecchio «trafitto dai cerchi». Come fa Paolo Bombonato, l’artista e architetto, a sua volta pendolare della linea Seveso-Affori, che da anni ritrae i volti di chi viaggia avanti e indietro lungo le stesse rotaie, ogni giorno, così anche Atzori imprigiona nel verso dettagli ed essenze selezionati come fiori da conservare in vista dell’inverno.

«Ti difendono gli auricolari. L’occhio / ha uno spasmo sottile, quello / dei sogni in evaporazione, dell’aria / finissima che invetra le foglie. / Anche la mia ansia è sottile, ma come / una lingua sottopelle». Atzori cerca nel volto dell’altro, accomodato sul sedile di fronte al suo, un riflesso di sé stessa prima della discesa involontaria nel mondo di sotto. Proserpina trascinata nell’Ade è il modello dichiarato del viaggio autoriale descritto dai versi (e per chi avesse dubbi, c’è una citazione evidente delle Metamorfosi di Ovidio a fare chiarezza: Haud procul Hennaeis lacus est a moenibus altae,nomine Pergus, aquae; non illo plura Caystroscarmina cygnorum labentibus audit in undis). Atzori sceglie il mito come pietra d’angolo della propria costruzione poetica, seguendo l’esempio di Louise Glück, poetessa insignita del premio Nobel nel 2020, che tra le sue opere più note annovera proprio Averno, dove con l’espediente del mito ha reso universali i dolori intimi derivati dalla paura della separazione, dell’oblio, della dissoluzione dell’amore e del fallimento delle memoria, del decadimento del corpo e della distruzione dello spirito (cfr Art of Darkness by Nicholas Christopher, New York Times, 12 marzo 2006).
«[…] Io dico, al sicuro come da qualsiasi parte, / il che le rende felici. / Intendo dire che niente è sicuro. / Sali su un treno, scompari. / Scrivi il tuo nome sul finestrino, scompari. / Ci sono luoghi come questo ovunque, / luoghi in cui entri come una ragazza, / da cui non ritorni mai». (Louise Glück, Averno, nella traduzione di Massimo Bacigalupo per il Saggiatore, 2020).
La Proserpina di Atzori e la Persefone di Glück condividono con i ritratti di Bombonato l’aspetto di spettri, figure di passaggio, non per questo meno reali e tangibili delle persone che saranno solo una volta scese dal treno e avviate alle loro esistenze. L’Averno è così: non un luogo da cui si viene, ma un luogo a cui si è costretti a tornare prima di rientrare a casa. Come nel mito di Persefone, costretta a passare metà dell’anno nell’Ade, con il dio degli Inferi, e l’altra metà tra i campi di grano insieme alla madre Demetra. La tragedia di Persefone/Proserpina è una malattia che non può essere curata, la benedizione della voce narrante dei versi di Atzori è, al contrario, una condizione reversibile, ma che porta con sé le cicatrici indelebili di chi è stato malato, ferito, scomposto e la paura di tornare a quella condizione, di doverla riattraversare. «La ragazza è senza postura, la spina dorsale deve essersi sfilata. / Non le resta che strisciare, oppure / lasciare che il vento la scuota / con l’aria entrata al posto delle vertebre. / Se gli alberi potessero bruciare / produrrebbero – ha pensato - / il suono che passa da fuori / fin dentro le coperte». Così il viaggio sui treni è un momento in cui il cervello cede alla violenza del ricordo: il letto, «le larve delle flebo / e gli spettri d’ospedale», la caduta nel «campo di gigli grigi» (fiore che nella poesia di Glück assume un significato universale di pura bellezza e morte, come i gigli bianchi sacri a Era che simboleggiavano nella cultura greca antica la perdita dell’innocenza, cui Persefone è sottoposta).
L’incidente annunciato sin dall’inizio della raccolta torna a essere elemento centrale nella terza sezione “Il gioco della catastrofe”: se la vita del pendolare è un continuo ritorno, il giorno di luglio in cui l’autrice-bambina cade sull’asfalto di un non meglio identificato marciapiede è un punto di non ritorno. «Il gioco ha poche regole, ma vanno / seguite tutte molto attentamente. / 1) Non chiederti mai com’era il tempo prima. / 2) Non chiederti com’eri prima del fatto. / 3) Non dire il tuo nome di prima o la tua colpa». La cornice della poesia ovidiana torna anche qui con la figura di Cerere (la versione romana della greca Demetra, madre di Persefone/Proserpina). Lasciarsi l’incidente alle spalle non è risultato ottenibile solo cedendo all’incanto ipnotizzante del via vai ripetitivo di treni e pendolari a bordo. Occorre crescere, riattraversare il dolore. Da figlia, farsi madre. Da colei che si è persa, accettare di essere colei che ha perso. Così nei versi ritrovano spazio gli oggetti della vita quotidiana: la bottiglia di plastica, le posate, i vestiti, le forbici e i capelli da tagliare per smettere di essere ragazzina. E le rotaie lasciano il posto agli alberi, agli oceani e ai ghiacciai sulle montagne, alla bellezza dell’universo compresa nella consapevolezza della catastrofe che c’è stata e che come un treno può sempre tornare. Solo, a volte, meno puntuale.
“Due nomi” è il titolo della quarta sezione. Cerere e Proserpina, oggi e ieri, ma sempre io e sempre in conflitto. E la costante tentazione a tornare a essere quelli che si era un tempo, prima ancora del taglio netto della crescita: una ragazzina con i capelli lunghi che correva in un campo di grano. Ma se farlo non è possibile, perché allora non arrendersi al sogno a occhi aperti, lasciandosi scorrere la vita addosso, nell’attesa che finisca, come si fa quando si lascia scivolare lo sguardo oltre il finestrino nell’attesa di arrivare a destinazione? È la tentazione di Cerere che nel mito si stanca di cercare Proserpina, senza riuscire a trovarla: la madre sogna di cedere a propria volta, come la natura intorno, al letargo imposto dall’inverno, nell’attesa del ritorno della primavera. Di attendere passivamente che la vita si trasformi, senza accettare la propria trasformazione. Negare di essere diventata un’altra, confondersi con quella di un tempo: «P: / Questa casa non l’ho abitata ma ricordo / la ragazza, quella bruna con un nome. / A volte mi sembra qualcuno, poi / ho lasciato il mio posto sulla terra. / Io non ne so niente tu lo sai, quello / che dici sulla primavera è una cazzata». Infine, però, l’io sofferente di un tempo, finalmente, si stacca dall’io di oggi che solo così può provare a rinascere. Nei versi di Atzori accade in cima a un monte, il Sacro Monte di Varese dove l’io poetico si rifugia a pregare sperando in un tu che ascolti. Dove Cerere e Proserpina cessano di provare a eliminarsi a vicenda. Anche la separazione dal sé di un tempo è conflitto però, necessario alla risoluzione, pena il letargo passivo del pendolare sul treno che va senza sapere cosa c’è dopo, pensando solo al ritorno. «Ha curato per me i fiori più belli solo / finché fui così piccola da confondermici dentro / non ha pensato che sarei / stata ancora sua figlia anche a vent’anni. / Non è per lei che me ne sono andata, ma il sadico / piacere di pensare che la colpa / la spartiamo almeno in due».
La raccolta di Atzori si chiude così senza promesse: Proserpina, emersa dal sonno dell’incidente, torna a scendere negli Inferi della terra per salire su una metro, ma il ricordo del dolore la aiuta a non cedere alla tentazione dell’oblio e fa sperare che, ora, una destinazione, una casa possa davvero esserci. Nella consapevolezza che salvarsi non è possibile da sola. Serve rappacificarsi con Cerere, ma questa è un’altra storia.

Silvia Atzori (1998) è nata in provincia di Varese, dove vive e lavora come insegnante di lettere. È laureata in lettere moderne presso l’Università degli studi di Milano, dove si è dedicata soprattutto allo studio della poesia italiana del secondo Novecento. È redattrice di Medium Poesia. Suoi testi e articoli sono comparsi su diverse riviste, testate giornalistiche e blog. Nel 2023 risulta fra i vincitori di Pordenonelegge Esordi e nel 2024 esce per Arcipelago itaca il suo libro d’esordio, Quando tornerai sulla terra.
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