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  • Immagine del redattoreSara Serenelli

Nota di lettura ad "Arrevuoto" di Gerardo Iandoli

Leggere Arrevuoto di Gerardo Iandoli (Oèdipus, 2019) è una sfida per ogni lettore, una sfida apertis verbis sin dal titolo che dice molto di più su questa raccolta di esordio di quello che sembrerebbe a primo acchito. Iandoli stesso afferma nel botta e risposta con Davide Castiglione, apparso ne La Balena Bianca il 31 marzo 2020, che seppure «arrevuoto» in napoletano significhi “soqquadro” e “confusione”, ciò che più gli interessava di questo titolo era la presenza della parola “vuoto”. Un vuoto che chiunque si accinga a leggere in profondità l’opera prima di Iandoli può chiaramente sentire, percepire e fare proprio o meglio riconoscere come proprio. Il vuoto tuttavia dà vita a una serie di componimenti affollati da immagini, situazioni, elementi: una pienezza strabordante di vuoti che diventano micce che accendono un senso di vorticose mancanze, di dolorose amputazioni. È una mancanza che moltiplica se stessa, che si fonde in visioni distorcenti, in un tritatutto straniante che però ci spinge a fonderci con l’immaginario dell’autore e dei suoi andirivieni poetici, che denunciano un’attenta conoscenza della metrica e una assidua ricerca semantica testimoniata dai tratti polisemici di molte composizioni. Questa vuotezza, che accompagna tutta la lettura, crea spaesamento, confusione appunto, e si lega ineluttabilmente con un sentimento di angoscia (non a caso le sezioni in cui l’opera è suddivisa sono titolate Angustia del dire e Angustie prospettiche). La poesia di Iandoli non cerca un linguaggio salvifico né tanto meno rinfrancante: è una poesia che amplifica il senso di angoscia, è un chiodo che viene conficcato nel punto esatto dove il dolore pungola. Il mondo viene diluito e talvolta Iandoli ci dà in pasto a una sorta di surrealtà che invischia il dato reale in un dettato paludoso ma non per renderlo irriconoscibile, tutt’altro: ne mette in risalto gli aspetti più crudamente reali fino a divenire, in taluni momenti, disturbante. Iandoli scrive con il «polso oppresso da una forza ossessiva» che spinge «a mostrare cosa c’è sotto il foglio», «per ansia di pienezza». È una raccolta che dà i crampi e che risveglia il nostro arto fantasma. Di fronte a questa poesia siamo come il bambino di Vaginale, scosso, affannato, rivoltato e incredulo di fronte all’abbandono del padre. Ogni poesia di questa raccolta è un piccolo mondo concluso, un mondo in vitro, un quadro che ci trascina dentro a una sensazione, una situazione, un pensiero che il poeta incornicia mentre sembra rinunciare a se stesso in favore di una impersonalità che viene meno solamente nell’ultimo componimento della raccolta Lettera, dove pronuncia un “tu” per la prima volta e pare sciogliere le remore che lo tengono lontano dal trasformare il suo io-poetante in io-parlante. Ogni testo della raccolta è titolato con un solo sostantivo che spesso sorprende il lettore: le “aspettative” create dalla titolazione vengono tradite. I titoli sono difatti molte volte allegoricamente, satiricamente o ridicolamente interpretati e messi a fuoco nel proseguire dei versi, che non rinunciano ad accogliere un linguaggio scientifico, tecnico e anatomico. Accade ad esempio in Termine dove il senso di finitudine e morte viene sviscerato a partire dall’esitante fiamma di un accendino Bic che diviene «vaticinio ondeggiante / per un titubante uomo che fuma». «La poesia è quel che resta / quando si è stanchi di lavorare», e di questa poesia abbiamo bisogno per sentire e pensare.



Era


C’è una generazione che ha messo la sveglia

non per alzarsi, ma per riaccordarsi con il colore

dell’abito che le è stato prestato

per un posto di immedesimazione:

si è soli con la propria eco a cantare

assoli di canzoni già sentite altrove

tra i rovi che recintano un passo bucolico.

Sia bassa la voce, che la gente riposa.

La poesia è quel che resta

quando si è stanchi di lavorare,

ma pur di non peccare di pigrizia

si accetta la macchia di inchiostro, vezzo

da ostentare su quell’abito sposseduto

dalle cuciture demoniache:

si resta dentro alle sue stoffe serie

come oltranza a venire.


Cantierismo


Una finestra affaccia

e lo pneumatico martello rompe

l’asfalto, che si sbreccia

con passiva ferocia dell’essenza.

Un buco appare piano

e sotto disvela i tubi dell’acqua:

ma nulla sgorga più.

I contatori, però, rapidi girano

e il debito si gonfia

fino a esplodere in una comune colpa:

i rabdomanti scioperano

e la polizia li aggredisce

per mettergli il cappuccio

e così accecarli: farli comuni

e non più visionari.

La bolletta si sconta vivendo ancora,

anche se è secca la linfa:

la preghiera ci costringe a rimettere

i nostri cari debiti.

E allora tutti a faccia in terra, giù

con la bocca bloccata

in una posa da conato o fame

a riversare ogni liquido

lungo i canali ai cigli delle strade

così da risanare

le falde acquifere sotto il sigillo

della legge del bene.

Si resta come le firme sui fogli:

l’inchiostro invischia i nomi

e tutti si riduce a una palude.


Profumo


Sotto la lingua è un ghiaino che taglia

ogni sapore, il ferroso sopraggiunge

come valore narcisistico incarnato

nell’ematoma che si accresce nella bocca.

Sono cristalli di viola lavanda

che si conficcano avidi nelle gengive

per strappare il posto ai denti ancora di latte.

Un profumo si espande: è morto e marcio

in maniera tenera

come il sole a mezzogiorno, che si emoziona

esplodendo nella sua timidezza.

Tritare, solo questo resta: masticare

allora è un processo alchemico

per mutarsi in ciò che si è mangiato

senza pensare a nutrimento alcuno.

Tutto si riduce in pappa, uno zampillo

che si cura di mantenere le apparenze:

una fontana di carne su cui spuntano fiori.


Vaginale


È un attraversamento pedonale

dove la calura devia lo sguardo,

inspessisce l’ossigeno, miraggio

di una gola che ansima di affanno:

è quella di un bambino.

Lui poggia le scarpe piene di rughe

sulle strisce erose dalle marce,

sorride nel vedersi accompagnato

alla grandiosa figura del padre.

Il braccio verso l’alto è un’onda che cerca

di sintonizzarsi sulla possanza

del muscolo paterno.

Ma l’uomo scappa, attraversa la strada

e si avvinghia a una scultura denudata

in cui splende l’abbondanza del femminino:

l’abbraccio è di ghiaccio e questo si scioglie

mentre in balia delle macchine resta il piccolo,

costretto allo scontro, avvolto dalla violenza

di una massa d’acciaio che lo sovrasta.

E il padre intanto è una melma invischiata

nella propria ridarella da oca giuliva,

si strozza col proprio trastullo, squaglia

ogni sua forma, ogni sua definizione.


Gerardo Iandoli (Avellino 1990) si è laureato a Bologna, in Lettere Moderne. Vive e lavora in Francia.

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