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Immagine del redattoreLuca Gamberini

Nota di lettura a "Vuoto frontale" di Sabrina Amadori

A volte amiamo così tanto la vita

da non poterne più fare a meno


Sabrina Amadori sceglie pagina 14 per avvertire il lettore di quanto stia per accadere sulla carta. Siamo in prossimità di una narrazione potente. Magnetica. Siamo solo all’inizio della prima delle tre sezioni, ma l’indicazione è precisa: di questa vita – e di questa poesia – non se ne potrà fare più a meno. Il viaggio inizia. È un avvertimento dolce ma onnicomprensivo. È un avvertimento fisico. Da intendersi come sostanza, corpo. La poetica della Amadori è di fatto corpo. È organica. Sia come struttura, perché la raccolta che ci propone, Vuoto frontale (Capire Edizioni 2020), vive di una precisa organicità, appunto corporale. Sia perché gli organi, specialmente quelli di senso, sono le spie di una vita vissuta visceralmente. E visceralmente trascritta in forma letteraria.



La prima sezione è forse quella più incerta. Non certo in senso negativo. Con l’aggettivo incerta intendo una sorta di indeterminazione su quanto potrà o meno accadere alla protagonista, ai protagonisti. Che si tratti di poesia amorosa è chiaro sin da principio, dalla primissima poesia:


Ad ogni passo sentiamo

divenire la terra e noi animati ed eterni

nel silenzio dell’ombra

mentre fuori, ancora

ogni cosa ripete

e non resta che il corpo

la linea gialla il getto della folla che si riversa negli occhi.


Meriterebbe molta più attenzione questo testo. Solo a titolo esemplificativo sottolineo «il getto della folla», che trasuda di potenza quasi cinematografica, filmica, il lettore è colpito dall’immagine-massa della folla. Quanto mi premeva evidenziare è il fortissimo noi che subito viene proposto. «Sentiamo» in primo verso, e ancora il «noi animati ed eterni» in terzo verso. Non ci sono dubbi. Siamo in presenza di un due, non di un singolo. Un due che tuttavia prenderà forme – e strade – diverse.

La Amadori tende alle volte a distaccarsene, da questa polarità di coppia, creando quasi degli scenari, come appunto in un film. Ambienti boschivi e naturali («la pioggia gonfia la terra/il silenzio degli alberi»; «il vetro scorre i paesaggi») si alternano ad ambienti metropolitani, cittadini («Milano d’estate»), intervalli geo-spaziali dove far accadere le cose. La prima sezione si potrebbe definire come geografia amorosa. La vicenda, perché di tale si tratta, si articola tra edifici e spazi più o meno nitidamente riconoscibili: «dall’altra parte è tutta foresta»; «nei deserti chiari dei viali»; «l’ombra della casa»; «la luce bagna le case / la fronte alberata sulle strade».


La seconda sezione si apre invece con una dichiarazione di impossibilità che in realtà è un’ammissione di colpa amorosa:


Io non mi so più non mi conto che in un cuore

fermo all’equatore. In questo eterno inverno

respirarti è un atto di fede

un’attesa infinita di neve.


Siamo di fronte ad un vero e proprio atto di fede. La Amadori non usa mezzi termini per inaugurare la sezione che ci fa entrare in profondità nella vicenda. I luoghi persistono: l’equatore, l’inverno (intendendo con stagione un luogo dell’anno, tempo e quindi spazio), e anche la neve aiuta a caratterizzare il momento. Ma il confine è stato varcato. Da una vicenda geografica si passa ad una questione prettamente fisica, vitale, amorosa.

La poesia successiva si chiude infatti con un verso chiarissimo: «il corpo è una stanza vuota». Luogo e corpo. Tornano entrambi. Tornano, anzi, perché insieme e tali restano. E il tema respiratorio si fa ancora più largo nella composizione successiva: si apre con «adesso il fiato si è spezzato» e continua con «ti respiro il fianco con la fronte».

La Amadori sceglie allora di continuare la silloge con una sorta di afasia: questo respiro si fa sempre più scarno e ridotto e le poesie che seguono sono lampi, scatti fotografici con una minima esposizione. L’incedere è frammentato. Non è chiaro come e se la vicenda amorosa possa risolversi: a un «ci viviamo come l’inverno/il cuore è un giardino spogliato» fa poi eco «posiamo le armi» e «la notte è un lago di dolore».

La seconda sezione si chiude come si era aperta, con una forte dichiarazione, una ammissione, una constatazione. Amara quanto visibile:


Hai lasciato questa casa il mio cuore, in silenzio

come una piazza vuota, la pioggia che allaga la stanza

il deserto delle pareti

l’ombra dell’inverno

che tramonta sul viso.


I luoghi fin qui incontrati, come la casa, la stagionalità invernale, il tema della perdita e lo spazio desertico si palesano in tutta la loro estensione. La vicenda amorosa è giunta a un punto di non ritorno.

E infatti la Amadori ci anticipa immediatamente, in apertura della terza e ultima sezione, il finale:


L’orizzonte si è svuotato il mare ha coperto le ombre

il respiro dei bambini

mangiati dal sale.


Il vuoto regna incontrastato. Il respiro si è cristallizzato, è anzi stato fagocitato. Non un respiro qualunque. Ma quello dei bambini. Non c’è più spazio per nessuna contromossa positiva. Le poesie successive sono la narrazione drammatica di una fine:


L’uomo che mi respira accanto

ha un fiume negli occhi la bocca nel pianto.


L’immagine liquida, prima mare, poi lago, ora fiume, la liquidità delle lacrime, il pianto. La Amadori tocca qui forse la vetta più tragica di tutta la narrazione. Si fa largo il sentimento sin qui evocato ma mai del tutto convocato alla presenza del lettore, la paura: «ho paura del mio corpo», «la paura di non arrivare».

Siamo ormai alle battute conclusive. Non resta altro che chiudere il viaggio intrapreso con una nuova professione di fede:


Il mare è una ferita aperta luce sfinita, restare nel tempo è pregare per il silenzio degli occhi.


Torna il tema del corpo, «la ferita»; «degli occhi». Tornano toni di luce per quanto morenti, «luce sfinita», torna l’elemento acqueo, «il mare». Più di tutto torna il tema fideistico: “è pregare”. Non poteva finire diversamente. Tutta la raccolta è percorsa da questo senso mistico. La preghiera “per silenzio degli occhi” è la resa. Basta, dice la Amadori, è tempo di chiudere gli occhi, la «ferita aperta» è troppo vasta. La resa chiude ogni possibile finale diverso. La silloge si chiude con il silenzio e con l’assenza, che diventano risposta e sinonimo di quel vuoto frontale che è il titolo della raccolta.


Sabrina Amadori (Milano, 1992) si è laureata in Filologia moderna all’Università degli studi di Pavia. Insegna nella scuola secondaria di I grado. Ha esordito nel 2015 con la raccolta Frammenti d’aria e grafite (Ass. Culturale Il Foglio). Alcuni suoi testi sono stati pubblicati sull’antologia Zenit poesia – Progetto < 40, vol. secondo (La Vita Felice, 2016).

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