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  • Immagine del redattoreGiuseppe Cavaleri

Nota di lettura a "Sponde" di Riccardo Canaletti

In una poesia di quella raccolta dura e splendida che è Umana Gloria, Mario Benedetti si interrogava sul “perché io sono qualcuno?”, lasciando che la domanda rimanesse sospesa e riecheggiasse lungo i versi successivi.

Sicuramente influenzato anche da altre letture, come il pensiero di Maturana e Varela, Riccardo Canaletti con il suo Sponde (Arcipelago Itaca, 2019) sembra, tuttavia, gravitare intorno alla stessa questione: non può non mancare un punto d’osservazione, uno sguardo che esclude e allo stesso tempo include. Se si considera pure il titolo, nella sua ossea essenzialità di sostantivo, viene da pensare anche alla soglia, all’idea di una certa poesia liminare, tesa all’esplorazione del margine da cui ci si pone. Nei testi che, però, l’autore propone, l’altrove non si configura come un’alterità evanescente e metafisica, ma si realizza nella concretezza di situazioni quotidiani e concrete, che tuttavia rimangono altrettanto insondabili. La stessa poesia di apertura della raccolta, infatti, testimonia la consapevolezza di un attrito tra due sponde: l’occhio di chi registra, del poeta che osserva «dal mistero di una camera nascosta / al giorno», consapevole di non poter abbandonare il proprio punto di vista, e il «dettato inumano di un altro essere umano/ così simile a te, così distante».

Suddivisa in un due ampie sezioni (la prima è quella che dà il titolo alla silloge), la raccolta rimane sempre vigile, non si dilata mai nell’esplorazione di un passato o di un futuro, ma resta ancorata sempre all’istante, all’analisi del nunc stans e dell’irriducibilità semantica che porta con sé (l’unico tempo verbale della raccolta è, infatti, il presente). L’occhio e la prospettiva permangono nella loro razionalità, animate da una doppia tensione, sentimentale e analitica, e della tensione a raffreddarle, come ben suggerisce Alberto Pellegatta nella prefazione. Anzi, qualsiasi cedimento all’emotivo dove accorre, viene negato, respinto («Lo scirocco sordo in autogrill ci ricorda / lo spazio dietro di noi. / Ma resto razionale […]»).

Poesia piana e rigorosa, quindi, che si pone di travalicare il lirismo: pur non cercandolo, talvolta lo sfiora, tentando di sintetizzare l’invisibile in una lucida interiorizzazione, aperta a un implicito, a una sospensione che permane formalmente nell’ipermetro e nelle figure retoriche, il poliptoto e la sinestesia più di altre, che animano i versi. A una fissità temporale corrisponde inversamente una irrequietezza spaziale. Sfondo della raccolta è, infatti, spesso il treno e l’aneddotica delle sue fermate, quando non l’autostrada e la sosta in autogrill. Luoghi che non conservano un passato e un futuro e che proprio per questa loro specificità permettono di essere più dentro al presente e alle relazioni che lo abitano. Come chiarisce lo stesso Canaletti, però, con la citazione di Toni Negri in esergo, l’approdo («la sponda che sta dall’altra parte») non è mai metafisico, ma sempre ben piantato, consapevole che «fa rider […] chi assolve /ai fatti il destino di rimanere».



La fermata di Rimini a metà nel tragitto andato

trascorso in silenzio, accanto all’uomo che dorme.

Arrivare è questione di ore, di ora. E forse

è più che un andare dove si era cresciuti,

addensati nel mistero di una camera nascosta

al giorno, nel dettato inumano di un altro essere umano

così simile a te, così distante.



Per poco presero l’ultima uscita

il tempo per tagliare tre corsie e

rientrare in fretta – poi lo svincolo

il cavalcavia all’altezza di Bari.

Lo scirocco sordo in autogrill

ci ricorda lo spazio dietro di noi.

Ma resto razionale, i fotoni in tre fastelli

e il cane che gioca si combinano tra loro

sillabe di un itinerario.

Si arriva dove tutti abbandonano

un ricordo e non ti confonde più la tua concreta fine.



Non salire. Non lasciarti intrappolare sulla vetta.

Tutto ha ricchezza dal basso.

E tu raggiungi, sempre più lontano, l’abisso …

E una volta lì riparti, memoria e cammino –

tu che sei i piedi, la stessa strada, la traiettoria che sfinisce

le foglie.

È come un indizio di tempo, l’inizio di chi sa

quanto dice e che, quando dice, sa che ha già perso,

che nulla ha più significato.


*


Il treno che passa non ha colore

si muove? è fermo?

Sospeso nella nettezza della morte

Che divora il terreno. A me più

nemmeno l’inganno, ho l’occhio

troppo leggero.


Riccardo Canaletti (Marche, 1998) studia Scienze Filosofiche all’Università di Bologna. Ha pubblicato una plaquette, La perizia della goccia (ae edizioni 2017) e un libro di poesia, Sponde (Arcipelago Itaca 2019), con cui ha vinto il premio Pordenonelegge 2020. Sui versi sono apparsi in vari lit-blog italiani, tra cui Interno Poesia, Poetarum Silva, La tigre di carta e Nuova Ciminiera. Suoi articoli e recensioni sono presenti in vari siti online tra cui Nazione Indiana, Nuovi Argomenti, Carmilla Online e Pandora Rivista.


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