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Immagine del redattoreGiuseppe Cavaleri

Nota di lettura a "Limite del vero" di Francesco Terracciano

«Chi dai suoi ozi si riposa, e ascolta, / ode il monito grave, ode la voce / che viene dalle cose e dal profondo» Alzando gli occhi al cielo in un pomeriggio autunnale Umberto Saba metteva in versi un certo smarrimento, uno stupore di fronte alla complessità del mondo e delle esistenze che gli stavano attorno. Leggendo la pregevole raccolta Limite del vero (La vita felice, 2019) di François Nedel Atèrre, pseudonimo di Francesco Terracciano, il richiamo all’autore triestino sin dai primi testi risulta forte e ben radicato. C’è in Aterre l’atteggiamento del flaneur che si lascia trasportare dalle proprie impressioni e dalle proprie irrisolutezze, indagando quello che gli si trova intorno e cercandone i limiti, le aperture a un significato diverso all’ombra delle maglie del quotidiano.

La raccolta, suddivisa in sei sezioni, non presenta, infatti, una progressione lineare netta, bensì procede con lo stesso passo incerto e curioso di chi passeggia e non ha una metà, ma lascia che siano le impressioni e le suggestioni a guidarlo, a condurlo verso risposte che arrivano a tardare.

Come ha ben notato nella postfazione Giulio Maffii, «c’è molta descrizione di attimi», di ricordi che vengono a comporsi senza mai fissarsi in memoria, ma ritornano perché «guardare a lungo / è garantire l’esistenza in vita». Finestre illuminate, portoni socchiusi, raggi che si fanno spazio nei cortili risemantizzano un mondo altrimenti svuotato, donando alle cose una loro intrinseca ritualità, laica ma vitale. Così se la verità della storia («i rilievi all’arco del trionfo») è facilmente esposta al limite, al fraintendimento (l’immagine dei libri fuori posto nel testo che dà il titolo alla raccolta dice molto su questo), il poeta non può partire che dalla constatazione che «noi siamo immersi in un acquario» e che oltre il vetro appannato «il mondo è illeso», accartocciato in una sua dimensione profonda e riservata che, come un cielo di novembre, «invita a fare da soli, in silenzio»

Le stesse cose, gli oggetti su cui a più riprese si sofferma lo sguardo poetico, sono squadrate anch’esse in immagini che rivelano una loro caduta, «un rovinare delle cose» in cui lo stesso sguardo umano rimane avviluppato. Immagini velate che oscillano tra lieve onirismo e calibrata aderenza al reale, racchiuse in un uso maturo dell’endecasillabo che scandisce in maniera elegante e pulita i dubbi, le incertezze che attraversano la raccolta.

Nell’ultima sezione della silloge (che prende il titolo da un testo auto-biografico di Andre Gidè, Et nunc manet in te) il richiamo ai temi della rimanenza e della mancanza, che ricorrono in maniera implicita l’intera raccolta, trovano una parziale risoluzione nella constatazione dell’impermeabilità dell’esperienza stessa, laddove «il segreto era non farsi ancora altre domande».

Permane nella natura delle cose per l’autore, quindi, una loro indicibilità, un loro limite in cui perdersi riannodando il filo sottile che lega ricordo e immaginazione, realtà e selezione dei suoi momenti più autentici. Perché più che «il mistero del regno di là», è quello «fitto della vita» su cui Nevél Aterre si arrovella, provando a scrutarne i segni, a leggerne le rimanenze sul mondo che ci sta attorno.



Che c’ero, era già noto. In calce ai righi

profondi, in mezzo all’indice dei nomi.

Nell’ora dell’eccidio, il sangue sparso

per terra, urlavo gli ordini ai soldati

o procuravo il pasto agli animali

in campi estremi, coperto di fango.

È capitato che avessi il mio ruolo,

i torti, le ragioni da imparare:

è scritto sulle pagine dei libri.

Ma i libri vanno nel posto sbagliato

delle scansìe – gli amici malaccorti

mettono sempre il titolo a rovescio.

Così i rilievi all’arco del trionfo

i volti silenziosi tra le scritte

svelano a tutti l’onesta menzogna,

il sottinteso limite del vero.

Anche la penna mi è sfuggita a volte

mentre tendevo la mano a qualcuno

come pugnale roncola o frustata

dal dorso, in senso opposto alla ferita.


Limite del vero


È netta da qualsiasi cosa, l’aria

di questa sera. Le finestre accese

dicono che ci sono, gli altri. È un dono

credere a quello che si vede. Resta,

anche seduta di spalle, un momento:

in questa stanza sei la sola viva.


Tra poco cadrà tutto, e io non ho sonno


*


Ritorno. A cosa? Non lo so nemmeno

se quelli che conosco hanno altre vite

tra i denti, e non contemplano lo scarto,

l’innesto tra i binari. È quella fame


di frutti tra le spine – ed ero sazio

di luce già – che qualcuno coglieva,

la strada riparata dalle piante

verso la spiaggia, l’agile torrente


che cerco ancora. Ma è un tranello l’ombra

bassa sopra la darsena, è passato

tacendo qualche cosa un ambulante.

Mi chiedo se era vivo, se lo sono


io che ho certezza soltanto del sole

feroce e di ogni fiore folgorato.


*


Ed è per questo che ritorno, certo,

a raggi sciolti, a buche di fortuna

dove riposa l’onda qualche tempo,

a quell’estate che ancora una volta,


e non so come, trova il suo coraggio

e asciuga i muri, e irride la durezza

del sorbo. Ha sempre un nodo nell’argilla


che allenta, esplode fiori, manda segni

da interpretare. Come? Già, è di questo

che non sappiamo, a che cosa rimandi,

incauta. È di nascosto che consuma


la voce. Ma che allegro scoppiettare

di rami, che splendore di alghe al fondo


François Nédel Atèrre (pseudonimo di Francesco Terraccia­no) è nato a Napoli, dove vive e lavora, nel 1967. È laureato in Economia e Commercio. È redattore per la rivista di cultura letteraria Menabò, e caporedattore per Inverso-giornale di poesia. Ha pubblicato Mistica del quotidiano, Terra d’Ulivi Edizioni (2018), Limite del vero, La Vita Felice Edizioni (2019).

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