«Mi abitui sempre a morire»: recensione a "Tregua" di Riccardo Zippo
Comincia sempre tutto con un senso di nausea: questo è il titolo della sezione incipitaria di Tregua, raccolta di Riccardo Zippo, edita da Taut. Una nausea quasi sartiana – «… il primo giorno di primavera, capisce il senso della sua avventura: la Nausea è l’Esistenza che si svela – e non è bella a vedersi, l’Esistenza» scrive Sartre – in bilico tra l’horror vacui e la frustrazione amorosa. Una costante e subdola sensazione di malessere – il reflusso spiacevole che infastidisce lo stomaco durante un viaggio in macchina – che percorre la raccolta come un fil rouge. L’innamoramento, nella sua bellezza devastante, porta infatti, per assurdo, una stomachevole percezione di assoluto: «arrossire assorbito da un senso di nausea» si legge in Ho vissuto questo giorno come il più lungo; «Beato tra le nausee / dei tramonti / attendo più beato ancora / una forza che mi strazi il cuore» scandisce l’ossimorica Beato tra le nausee, dove la nausea è data dall’esagerazione del sublime: è il tramonto romantico che quasi disgusta.
La raccolta è suddivisa in tre sezioni: a Comincia sempre tutto con un senso di nausea, succedono L’incapacità di fallire, dove il fallimento sembra essere l’impossibilità di lasciar andare un amore finito e Ma almeno un ultimo amore, anche se interessato, che contiene testi di nostalgica memoria, alternati a poesie di presa di coscienza della finitezza del sentimento («Com’è bello / l’uomo che cammina / con almeno un amore rotto / tra i lineamenti induriti»).
La struttura macrotestuale del libro sembra costruita in levare. Aprono il volume alcune prose liriche che narrano di città caotiche e amori finiti:
Il tuo passo non pesa più sul pavimento di casa mia.
Tra attesa e spunto nacque l’amore, favoloso pietoso torrente dal letto di sangue, sprofondato nell’unto della pioggia con i sensi confusi, e deperisce ogni mattina sulla tua schiena e sulle linee delle tue labbra.
La lunghezza prosastica lascia il posto progressivamente a forme sempre più brevi, finanche aforistiche, che ricordano – in positivo – alcuni fotogrammi delle Cento poesie d’amore per Ladyhawke di Michele Mari. Come Mari, Zippo narra l’amore scolpendolo nel verso e sublimando, senza punteggiatura o pause, la semplicità di certe affermazioni assolute:
Esistiamo sempre
come adesso
per noi due soli.
La storia d’amore del piccolo canzoniere di Zippo non è raccontata in maniera diacronica, dall’inizio alla fine, ma tramite un fotomontaggio di presente e di passato: più volte il poeta chiede al tu una qualche forma di calda compagnia – «Vieni qui / facciamoci compagnia /parlami di sciocchezze» (con forse una memoria montaliana da Ho tanta fede in te) – una compagnia che però sa d’esistere per un breve spazio di tempo, oltre il quale risulta impossibile immaginare un futuro: «Godiamoci, / fino alla fine dell’amore, che tanto poi diventa altro, / e noi diventiamo altrove». L’unione fuga il senso di solitudine, ma come il pieno non è nulla senza il vuoto, come la vita non è reale se non perché esiste la morte, l’unione la si coglie solo sperimentando il senso di privazione e d’abbondono, che porta l’io a affrontare una prima e depotenziata esperienza dell’Aldilà:
Tu mi calmi, mi fa compagnia.
Quando tu ci sei mi aiuti a non parlare da solo.
Ma sei prudente, temi lo sforzo.
Quando vai, mi abitui sempre a morire.
La tregua è dunque un momento di riflessione e di presa di coscienza: ogni cosa è destinata a deperire. Il sentimento si consuma ogni mattina sui fianchi e sulle labbra della donna, un giorno diventerà altro (amorosa amicizia?) e noi, infine, diventeremo altrove, quasi un infausto presagio di morte.
Il lessico quotidiano e le immagini domestiche – «Siamo stati l’uno / la dolorosa casa dell’altro» – non scadono mai nel cliché e ogni breve verso suggerisce una forma di sofferenza soffusa. L’io non è in grado di porre fine alla relazione, se non nella poesia conclusiva: «Devi sapere che non ti trattengo /che puoi andartene / quando vuoi.». Il piccolo canzoniere d’amore si chiude dunque, in maniera assolutamente nuova, non con la morte della donna e nemmeno con il suo addio, ma con la cognizione finale dell’io poetico che quell’amore deve necessariamente finire: l’amata deve andarsene, non può più indugiare, il sentimento non c’è più.
Riccardo Zippo è nato a Gagliano del Capo, in provincia di Lecce, nel 1992. Vive e lavora a Milano. Ha pubblicato la silloge L’uomo si è seduto con le mani sulle orecchie (Tralerighe, 2017).
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