Le Rubriche di Alma: Alma & Scotellaro (II Appuntamento)
La produzione di Rocco Scotellaro è affascinante e variegata. Per districarsi con maggiore accortezza nei numerosi scritti, può risultare proficuo presentare alcuni aspetti preminenti della poetica scotellariana a partire da un termine: regredire[1]. In tal senso, va sempre tenuta in forte considerazione la vicinanza dello scrittore lucano al mondo popolare, in particolare ai tratti del suo Sud e, circoscrivendo maggiormente quest’affermazione, della sua Tricarico (senza che questo voglia dire porre l’accento su un distacco dalle vicende aventi un più ampio respiro).
Mettere in risalto la parola regredire significa includere Scotellaro in un numero corposo di intellettuali che, da Verga in avanti, ha cercato di scardinare quella serie di elementi idealizzanti a favore di un approccio realistico che spingesse a una presa di coscienza della e sulla dimensione popolare.
Tale modo di interrogarsi divenne ancora più marcato in diversi autori degli anni Cinquanta del secolo scorso. In quel contesto, a ben vedere, le scelte letterarie si intrecciarono a stretto giro alla “questione meridionale”. Per questo motivo, si puntò a dare voce alla subalternità che veniva posta ai margini (se non al di fuori) della storia.
Dunque, l’azione letteraria scotellariana (sia che si tratti di prosa, sia che si tratti di composizioni poetiche) ramifica a partire dalla volontà di far assorbire l’io narrante in quell’alterità subalterna che risultava essere ben vicina ai suoi orizzonti lucani e meridionali. È un agire incessante che mira a sopraggiungere alla completa corrispondenza fra le due parti, sebbene si faccia sempre leva sui singoli elementi valoriali che non devono in alcun modo essere dominati dalla condotta complessiva.
Ecco perché «questo assorbimento – altro non è che una sintesi provvisoria, nel quadro sempre mutevole del conflitto sociale – di per sé implica l’adozione di un’ottica emancipativa, e dunque il tentativo di marcare la presenza storica dei soggetti oppressi. Il fatalismo e il pessimismo (se non quello gramsciano, che si accompagna all’ottimismo della volontà) sono esclusi»[2].
Dunque, non è un fare fine a se stesso, ma un qualcosa incluso in un percorso molto più esteso. A ben vedere, è un costante incamminarsi verso orizzonti altri in cui si incontra il darsi di nuove alterità da potere e volere mettere in risalto. Pertanto, si può parlare di un regredire da intendere al pari della decisiva azione data dal negativo nell’agire dialettico hegeliano. Perciò, è l’aspetto fondamentale che supera e invera.
Con questo sopraccitato agire, ci si trova dinanzi a un’estensione collettiva, capace di accogliere sovente l’altro da sé. Si tratta di una condizione, man mano, sempre più presente, ma comunque insita nell’intera poetica dell’autore lucano, così come testimonia la composizione Noi che facciamo datata 1948 che risulta proficuo riportare nella sua interezza:
Ci hanno gridata la croce addosso i padroni
per tutto che accade e anche per le frane
che vanno scivolando sulle argille.
Noi che facciamo? All’alba stiamo zitti
nelle piazze per essere comprati,
la sera è il ritorno nelle file
scortati dagli uomini a cavallo,
e sono i nostri compagni la notte
coricati all’addiaccio con le pecore.
Neppure dovremmo ammassarci a cantare,
neppure leggerci i fogli stampati
dove sta scritto bene di noi!
Noi siamo i deboli degli anni lontani
quando i borghi si dettero in fiamme
dal Castello intristito.
Noi siamo figli dei padri ridotti in catene.
Noi che facciamo?
Ancora ci chiamiamo
fratelli nelle Chiese
ma voi avete la vostra cappella
gentilizia da dove ci guardate.
E smettete quell’occhio
smettete la minaccia,
anche le mandrie fuggono l’addiaccio
per qualche stelo fondo nella neve.
Sentireste la nostra dura parte
in quel giorno che fossimo agguerriti
in quello stesso Castello intristito.
Anche le mandrie rompono gli stabbi
per voi che armate della vostra rabbia.
Noi che facciamo?
Noi pur cantiamo la canzone
della vostra redenzione.
Per dove ci portate
lì c’è l’abisso, lì c’è il ciglione.
Noi stiamo le povere
pecore savie dei nostri padroni.
Nell’azione scotellariana, analizzata sotto questa prospettiva, si scardina indissolubilmente la dissidenza che può generarsi fra l’orizzonte individuale e quello collettivo. In altri termini, si ha dinanzi un percorso unitario che non può essere scisso fra una dimensione prettamente lirico-amorosa (che accoglie, giusto per porre un esempio, svariate composizioni racchiuse in Margherite e rosolacci) e una più politico-sociale. Al contrario, si tratta di una inevitabile – e percepita pressappoco come necessaria – convivenza.
Dunque, giunti a questo punto si può passare in rassegna il vero e proprio bisogno di Scotellaro di includere nella complessità della sua produzione la collettività attraverso i versi di un’altra composizione (scritta nel 1948) intitolata Sempre nuova è l’alba. In questo caso ci si trova chiaramente dinanzi al «racconto di una difficile autoemancipazione, parabole del rifiuto e non dell’esaltazione del “guanciale di pietra”»[3]:
Non gridatemi più dentro,
non soffiatemi in cuore
i vostri fiati caldi, contadini.
Beviamoci insieme una tazza colma di vino!
che all’ilare tempo della sera
s’acquieti il nostro vento disperato.
Spuntano ai pali ancora
le teste dei briganti, e la caverna –
l’oasi verde della triste speranza –
lindo conserva un guanciale di pietra…
Ma nei sentieri non si torna indietro.
Altre ali fuggiranno
dalle paglie della cova,
perché lungo il perire dei tempi
l’alba è nuova, è nuova.
Il forte legame tra l’agire preminentemente lirico e quello sociale traspare da un numero smisurato di composizioni in cui si notano svariate metafore che richiamano la vita stessa del poeta lucano. L’incidenza di tale formula si evince, per esempio, anche da L’uomo, poesia scritta subito dopo la morte del rivoluzionario e politico sovietico Iosif Stalin (avvenuta il 5 marzo 1953, pochi mesi prima della dipartita dello stesso Scotellaro) che si apre con la metafora del figlio calzolaio poiché entrambi, Scotellaro e Stalin, erano, per l’appunto, figli di calzolai. Così si apre la poesia: «L’uomo che vide suo padre calzare / gli uomini e farli camminare / imparò da quell’arte umile e felice / la meraviglia di servire l’uomo».
Eppure, al di là dei singoli versi da poter utilizzare per sostenere quanto affermato poc’anzi, è opportuno far notare che l’agire lirico frammisto a quello sociale è, a tutto gli effetti, un filo rosso che attraversa la produzione scotellariana nella sua interezza. Inoltre, è la precondizione di tessere in versi quel noi che risulta essere, nel complesso, «nessun tentativo di elevarsi, nessuna volontà di entrare nell’olimpo dei grandi scrittori»[4].
Pertanto, senza alcun dubbio, «lo Scotellaro che scrive queste poesie è però ormai un poeta lontano dal paese natale, un sociologo in formazione che ha già condotto e scritto le interviste di Contadini del sud e l’inchiesta sulle scuole in Basilicata, così che l’allontanamento dall’amata Lucania finisce per essere non un tradimento di classe (il piccolissimo borghese che riesce a proseguire gli studi che gli saranno strumento di ascesa sociale), ma la condizione per una salvaguardia della parte autentica delle sue premesse meridionalistiche, anche se il tempo per un’ulteriore verifica gli è mancato».[5]
Va da sé che l’assorbimento messo in risalto in precedenza è intimamente connesso all’azione politica che intraprese Scotellaro. Così, se la condizione dei contadini – e, più in generale, di chi restava all’ombra della storia – andava presentata tramite la forma artistico-letteraria per far sì che si potesse acquisire una nuova coscienza, è anche vero, d’altro canto, che occorreva una pratica quotidiana che potesse essere duratura.
Quest’ultimo aspetto, l’azione quotidiana, era rappresentato anche (e, sotto certi punti di vista, soprattutto) dalla politica. Da qui, per capire ancora meglio l’approccio poetico-esistenziale di Scotellaro occorre soffermarsi con più insistenza pure sulla scelta, compiuta il 4 dicembre 1943, di iscriversi al Partito socialista italiano e di fondarne una sezione nella sua Tricarico, sezione che risultò essere estremamente attiva l’anno successivo, il 1944.
In merito, si può dire che Scotellaro si spese molto per far sì che le forze antifasciste potessero organizzarsi nuovamente nella regione «attraverso una costruttiva opera di coinvolgimento delle masse nel processo di emancipazione democratica e di educazione di una popolazione ulteriormente impoverita dall’economia di guerra e in gran parte analfabeta»[6]. Occorre riferire che si trattava ovviamente degli anni in cui la transizione dal precedente regime fascista alla democrazia risultava essere estremamente articolata[7].
Di conseguenza, la scelta operata da Scotellaro di voler dare voce alle persone del popolo è sempre accompagnata da una poetica che si potrebbe definire documentaria, antropologica. Per questo motivo, spicca sovente nei suoi versi sia l’immedesimazione di cui si è ampiamente detto, sia quel suo non volere mai accantonare gli aspetti autobiografici e naturalistici. A conclusione, si può riferire che questi elementi concorrono a riorganizzare, razionalizzandole, le esperienze che, di volta in volta, si vuole raccontare[8].
Questa razionalizzazione, che è sintomo di una complessità palese, si evince anche dalle preferenze letterarie. In merito, si pensi soltanto come esempio, alla scelta di avvalersi della lingua italiana nelle composizioni che, però, al contempo, appare sempre tinta da una timbrica e da un’andatura popolare.

[1] Sul tema Cfr..: Gatto M., Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Letteratura, politica, inchiesta, Roma, Carocci, 2023, pp. 75-83.
[2] Gatto M. Rocco Scotellaro e la questione meridionale, cit., p. 77.
[3] Luca Mozzachiodi, Scotellaro poeta senza funzione?, in «L’ospite ingrato. Rivista online del Centro Interdipartimentale di Ricerca Franco Fortini», n. 13, gennaio-giugno 2023, 1923-2023: Rocco Scotellaro, presente e futuro, p. 90.
[4] Silvia Mele, Rocco Scotellaro. Legami e radici di una breve vita / 1, in «Appennino», 6.1, p. 130.
[5] Luca Mozzachiodi, Scotellaro poeta senza funzione?, in «L’ospite ingrato. Rivista online del Centro Interdipartimentale di Ricerca Franco Fortini», cit., p. 91.
[6] Carmela Biscaglia, Alle origini dell’impegno politico di Rocco Scotellaro. La transizione dal fascismo alla democrazia: 1943-1944, in «L’ospite ingrato. Rivista online del Centro Interdipartimentale di Ricerca Franco Fortini», cit., p. 13.
[7] Il periodo coincideva con l’occupazione anglo-americana scaturita, com’è noto, dall’8 settembre 1943, momento nel quale entrò in vigore l’Armistizio di Cassibile. Va da sé che, in quel contesto, anche la Basilicata restò impigliata nello stordimento generale segnato dall’esasperazione e dalla guerra. Come esempio, si pensi a Potenza che venne bombardata massicciamente l’8 e il 9 settembre 1943 proprio mentre i saccheggi e i rastrellamenti tedeschi proseguirono fino al 20 dello stesso mese.
[8] Sul tema Cfr. Salvatore Pistoia-Reda, Analisi e militanza in Contadini del Sud di Rocco Scotellaro, in «L’ospite ingrato. Rivista online del Centro Interdipartimentale di Ricerca Franco Fortini», cit., pp. 181-191.
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