Le Rubriche di Alma: Alma & Scotellaro (I Appuntamento)
È impensabile scindere la produzione letteraria di un determinato autore dal contesto spazio-temporale che ne ha visto formare l’agire e ramificare il pensiero. Quanto affermato vale inevitabilmente anche per Rocco Scotellaro (1923-1953). Infatti, il suo alfabeto poetico-narrativo è indubbiamente segnato dall’orizzonte lucano e, nello specifico, da Tricarico, il paese, in provincia di Matera, in cui nacque da un padre calzolaio e da una madre sarta e scrivana in un’Italia che, dopo il Biennio rosso, aveva appena visto culminare l’irrompere sulla scena del movimento fascista con la presa di potere attraverso la marcia su Roma. Da quella località in cui visse e in cui svolse la sua attività politica, Scotellaro attinse sovente per definire i tratti della sua produzione. In effetti, ne indicò con costanza le bellezze e, al contempo, si fece carico delle brutture e delle condizioni più affannose.
Dunque, sporgersi sulla poesia scotellariana significa leggere di zampogne e di tamburi, di stalle, di torbi e colombi, di trebbie e di aratri, degli odori della campagna e della terra, della «calda» malva, della «reseda selvaggia», della paglia, di «uomini distesi nell’aiata», di zolle «da districare» e di «mietitori nelle giubbe rosse». Il tutto conformante un universo che non è affatto semplice poiché pregno di innumerevoli sfumature e di varie zone d’ombra, come quelle segnate proprio dalle condizioni drammatiche dei lavoratori che Scotellaro indaga senza posa. Di sicuro: si tratta di un orizzonte che – per quanto marcato da elementi cardini che si ritrovano con semplicità in più fasi – risulta inevitabilmente incompiuto, spezzato dall’infarto che colse Scotellaro a soli trent’anni.
Quanto è opportuno rilevare è che, dalla sua morte in avanti, si è sempre guardato alla figura e alla produzione scotellariana con interesse, sintomo palese di come il poeta lucano sia riuscito a cogliere efficacemente lo spirito del suo tempo. Non solo: la sua poetica e le sue prose appaiono intrise di elementi che marcano a fondo la nostra quotidianità. Anche per questo – accanto al ricorrere del centenario della nascita – nell’ultimo periodo l’appellarsi a Scotellaro, soprattutto per definire la conformazione odierna della “questione meridionale”, si è rinfocolato al punto che l’utilizzo e le considerazioni sul poeta di Tricarico possono presentare finanche alcune posizioni lacunose e diversi stiracchiamenti delle sue vedute che ne distorcono gli sforzi politico-culturali che contrassegnarono il suo agire quotidiano.
Proprio a partire da queste derive, si è giustamente osservato che occorre «battersi affinché la sua opera, e in particolare la sua poesia, non divenga una merce fra le altre o, peggio, il brand di una supposta genuinità espressiva»[1].
Pertanto, quanto si vuole realizzare in questo spazio, mirando a non «cedere alla banalità della fascinazione e all’inconcludenza di posticce mitizzazioni»[2], è offrire, con più appuntamenti, semplicemente degli spunti, presentare alcune tematiche che scandiscono la poetica di Scotellaro, rivalutare (e ribaltare) determinate etichette, finanche gli appellativi principali, “sindaco contadino” e “poeta contadino”.
Per riuscire in questo intento risulta proficuo prendere le mosse da un elemento ben visibile, presentato efficacemente dallo scrittore e antifascista italiano Carlo Levi (1902-1975), nella Prefazione al libro Uno si distrae al bivio, uscito nel 1973, testo che raccoglie una serie di racconti giovanili di Scotellaro fino a quel momento inediti. Levi, figura ben vicina a Scotellaro, come si avrà modo di notare, sottolineò che lo scrittore lucano «non si può chiudere in schemi né sfuocare in commosse esaltazioni, ma che sempre più chiaramente si mostra in un suo carattere unico e esemplare, una realtà vera che va al di là del suo mondo di allora, dei suoi dolori, delle sue lotte»[3].
Dunque, che si legga L’uva puttanella, Contadini del Sud, Margherite e rosolacci, È fatto giorno, i vari racconti o le prose giornalistiche si trova sovente lo stesso sguardo sul mondo. Di conseguenza, le opere di Scotellaro devono intendersi come un qualcosa di compatto, di unitario, rispondenti sempre alle stesse esigenze. Per Levi, il motivo di questa sua condivisibile affermazione risiede in un aspetto principale: Scotellaro interroga continuamente se stesso e il mondo. Pertanto, gli scorci tratteggiati con parole sempre nuove, l’indagine della dimensione dell’ultimo sostare tracima ogni volta di elementi universalizzabili. Da qui, proprio per quella «realtà vera» che Scotellaro riesce a presentare, la dimensione ristretta – quella legata preminentemente alla sua Tricarico, come riferito poc’anzi – si tinge di generalità e riesce a parlare ai posteri anche per il saper far leva sulla forza narrativa e sull’alfabeto poetico.
Avvalora questo pensiero una fra le composizioni più note dell’autore, La mia bella patria, composta nel 1949:
Io sono un filo d’erba
un filo d’erba che trema.
E la mia Patria è dove l’erba trema.
Un alito può trapiantare
il mio seme lontano.
Indagare quel tremolio dell’erba, presentarlo in prosa e in versi: è questo l’obiettivo principale dell’agire scotellariano. È chiaro che per farlo, la dimensione preminente, quella da cui partire, è, come si è detto, l’analisi di quell’universo storico e geografico che ha vissuto. Sia chiaro: non si tratta soltanto di Tricarico e della Basilicata, ma anche degli altri luoghi in cui visse, per esempio Bari, Ivrea, Napoli, Portici, Roma e Torino. Insomma: le azioni poetico-letterarie di Scotellaro, sebbene preminentemente legate (anche in modo indiretto) alla terra natìa, sono pienamente calate negli umori palpabili nell’Italia del tempo.
Dunque, la produzione scotellariana è intimamente segnata dalla definizione di specifiche condizioni. Scotellaro compie sempre una nuova scelta di cosa, di volta in volta, rappresentare. Da questo aspetto si comprende come nella sua poetica vi sia «una consonante pietà che rende viva la voce di Rocco e ce la fa sentire nella sua tonalità amorosa, non esente tuttavia dalla coscienza della lotta per la dignità dell’uomo»[4].
Va da sé che, al di là dei vari momenti in cui può essere internamente suddivisa la sua produzione[5], l’orizzonte più prossimo è costantemente quello contadino del Mezzogiorno, segnato dalle lotte per la terra. Così, vale la pena sottolineare che con contadini si deve intendere un universo costellato di diverse sfaccettature, «anche se tra loro non contraddittorie, di braccianti, di mezzadri e affittuari (nelle varie forme di mezzadria e di affitto allora vigenti) e di piccoli e piccolissimi proprietari che a volte erano transitoriamente braccianti»[6].
Dunque, la poesia peregrina di Scotellaro (che nel 1948, in Paese mio! si definisce «cane di nessuno») sempre a caccia di nuove vedute da accludere nel suo sillabario esistenziale, richiama costantemente nozioni ed esperienze del suo passato, della sua terra natìa. Nel farlo, è evidente il peso del distacco dalla vita di campagna nei suoi approdi in città. Da Bari, nel 1947, così concludeva la struggente La città mi uccide:
Gerusalemme, Gerusalemme!
I porci hanno invaso gli ulivi
sotto la luna lontana,
la moda si dà convegno
nel tempio sontuoso
Bari, Napoli, Roma, Milano
i fiori, gli uccelli, la donna
qui si comprano
e io cammino con la mano al cuore
perché a forza potrebbero rubarlo.
Ancora, per avvalorare quanto affermato basta riportare i versi che conformano la nota poesia Passaggio alla città. Prima di leggere la composizione occorre mettere in risalto un aspetto fondamentale: in quel contesto di incertezze e privazioni, fatto di diverse persone che dovevano lottare ogni giorno anche soltanto per avere i beni primari, Scotellaro riesce comunque ad avere una formazione. Da questo elemento si può comprendere come la sua sempiterna vicinanza al multiforme universo contadino non possa mai essere vera e propria sovrapposizione. Di conseguenza, Scotellaro «inscena il travaglio dell’intellettuale che mira a una piena identificazione con il consorzio sociale di cui si sente parte e che sperimenta sulla sua pelle i rischi dell’idoleggiamento passivo dei margini (o i limiti di quello che oggi chiameremmo “populismo”)»[7].
A questo punto, si può tornare a Passaggio alla città, poesia composta a Roma il primo luglio del 1950, in cui l’io appare quasi irrimediabilmente stordito e quell’innocenza (la «schiavitù contadina») ormai perduta:
Ho perduto la schiavitù contadina,
non mi farò più un bicchiere contento,
ho perduto la mia libertà.
Città del lungo esilio
di silenzio in un punto bianco dei boati,
devo contare il mio tempo
con le corse dei tram,
devo disfare i miei bagagli chiusi,
regolare il mio pianto, il mio sorriso.
Addio, come addio? distese ginestre,
spalle larghe dei boschi
che rompete la faccia azzurra del cielo,
querce e cerri affratellati nel vento,
pecore attorno al pastore che dorme,
terra gialla e rapata,
che sei la donna che ha partorito,
e i fratelli miei e le case dove stanno
e i sentieri dove vanno come rondini
e le donne e mamma mia,
addio, come posso dirvi addio?
Ho perduto la mia libertà:
nella fiera di Luglio, calda che l’aria
non faceva passare appena le parole,
due mercanti mi hanno comprato,
uno trasse le lire e l’altro mi visitò.
Ho perduto la schiavitù contadina
dei cieli carichi, delle quercie,
della terra gialla e rapata.
La città mi apparve la notte
dopo tutto un giorno
che il treno aveva singhiozzato,
e non c’era la nostra luna
e non c’era la tavola nera della notte
e i monti s’erano persi lungo la strada.
Infine, è il suo Autoritratto il luogo in cui sentenzia «io sono uno degli altri». Ora, questo costante occuparsi del panorama contadino, questo essere «uno degli altri», non deve far pensare a un agire fine a se stesso, che presenta malinconicamente una condizione diversa. Al contrario: il fare scotellariano mira sempre ad ammettere le specifiche realtà – soggette ovviamente ai loro inevitabili e necessari cambiamenti interni – e farne quella «realtà vera». Con questo piglio si può anche leggere la chiusa di Una fucsia: «Ecco, il paese ti porto in città».
Del resto, è quella difficile realtà contadina che osservava quotidianamente a spingerlo a percorrere anche la strada politica, a iscriversi al Partito socialista e a fondare, nel dicembre del 1943, la sezione dedicata a Giacomo Matteotti. Da lì, nel 1946, la sua elezione a sindaco, a 23 anni, e la rielezione del 1948. Dalle esperienze politiche nacque proprio l’amicizia con Levi. Da questo punto di vista è interessante notare che nelle epistole, «agli scambi di informazioni sui comizi di Scotellaro o sugli articoli giornalistici di Levi, si affianca un interesse concreto alla vita degli umili che abitano tanto le campagna quanto le città»[8]. È proprio l’interesse nei riguardi delle esistenze degli umili, che travalica ogni stretto orizzonte, a rendere Scotellaro attuale e necessario.

[1] Gatto M., Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Letteratura, politica, inchiesta, Roma, Carocci, 2023, pp. 18-19.
[2] Ivi, p. 19.
[3] Levi C., Prefazione, in Scotellaro R., Uno si distrae al bivio, Matera, Basilicata editrice, 1973, p. III, disponibile a questo indirizzo: https://www.reforming.it/cms/uploads/fckarchive/files/UNO-SI-DISTRAE-AL-BIVIO.pdf (data ultima consultazione: 12.09.2024).
[4] Vitelli F., Perché abbiamo bisogno di Scotellaro, in Scotellaro R., Tutte le opere, Milano, Mondadori, 2019, p. VI.
[5] In merito Cfr. Gatto M., Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Letteratura, politica, inchiesta, cit., pp. 83-89 e Salina Borrello R., A giorno fatto. Linguaggio e ideologia in Rocco Scotellaro, Matera, Basilicata editrice, 1977.
[6] Fofi G., Prefazione, in Gatto M., Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Letteratura, politica, inchiesta, cit., p. 12.
[7] Gatto M., Rocco Scotellaro e la questione meridionale, cit., p. 17.
[8] Beltrani L., Rocco Scotellato tra le carte di Carlo Levi: l’amicizia, le polemiche, in «L’ospite ingrato», n. 13, 2023, numero monografico 1923-2023: Rocco Scotellaro, presente e futuro, p. 103.
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