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Immagine del redattoreSara Serenelli

Le Rubriche di Alma: Alma & Guidacci (III Appuntamento)

«Il mio imminente precipitare»: Il vuoto e le forme di Margherita Guidacci


Il 1977 è un anno cruciale e drammatico per Margherita Guidacci, segnato dalla perdita del marito Luca e dal principio dei seri problemi alla vista che la accompagneranno e insieme tormenteranno fino alla morte. Il 1977 è anche, tuttavia, l’anno di pubblicazione di una nuova silloge, Il vuoto e le forme, che raccoglie poesie composte tra il 1972 e il 1975, divise in sei sezioni: Il vuoto e le forme, Il muro e il grido, La vecchiaia e dintorni, Morte senza morte, Tre poesie della fine e Resta la pace. Il titolo dicotomico ribadisce nuovamente la tensione della poetica guidacciana, tesa a mettere in relazione diadi inconciliabili: una dialettica, ancora una volta, irrisolta e non risolvibile. Da una parte la forma e dall’altra il vuoto: due termini che Guidacci fa dialogare in questa raccolta ponendoli in controluce sia sul piano ontologico che su quello creativo. Quando la raccolta esce, con la illuminante prefazione di Luigi Baldacci, la maggioranza delle voci critiche si sofferma soprattutto sul primo termine il «vuoto», tralasciando la «forma»: 


Le interpretazioni sul mio titolo, del resto, continuano; e mi pare si vadano nettamente allineando a favore del vuoto. Questo dapprincipio mi turbava perché io ero convinta di avere, anzi, espresso un sano horror vacui, da artista che si arrabatta per riempirlo; ma invece, a quanto sembra, è proprio per il vuoto che parteggio, come Milton che credeva di spiegare le vie di Dio agli uomini ed era invece ‘del partito del diavolo senza saperlo’, come disse di lui Blake. O sarà soltanto perché Gigi Baldacci ha impostato la sua del resto bellissima introduzione in questo senso? In Italia i critici fanno spesso come i galli, basta che il primo canti, e tutti gli altri dietro, a far chicchirichì sullo stesso tono. Quell’introduzione non rispecchia soltanto il mio cammino, ma anche il cammino di Gigi ed è perciò che mi piace tanto, un libro dovrebbe sempre aiutare chi lo legge a leggere anche dentro se stesso.


Già nella prima sezione dell’opera -che non a caso dà il titolo all’intera raccolta- è evidente questa dialettica tra vuoto e forma, dialettica che si esplica soprattutto sul piano creativo-artistico. La sezione dal carattere metapoetico difatti è incentrata sulla lotta tra l’artista e la sua opera, tra il poeta e la sua creazione. Questa battaglia spesso si rivela frustrante per l’artista che, sconfitto, arriva a constatare che il vuoto «non vuole una forma che lo torturi»: 


Come siamo sconfitti! 

Come ci cadono di mano le inutili armi! 

La pietra resta pietra, il foglio una frusciante 

assenza, la tastiera

ostinato silenzio.

Il vuoto si difende.

Non vuole che una forma lo torturi.


O peggio ancora si ritrova a scoprire che tanto il compimento della forma quanto il vuoto, nella sua incompiutezza, siano da temere: 


Ambigue labbra si schiudono,

occhi incompiuti mi fissano,

io temo di vederli completare

ed ancor di più temo

che interamente spariscano. 


Una battaglia quella dell’artista e del poeta-creatore che diviene tanto più spaventosa, tanto più dispendiosa se non è solo l’artista a creare l’opera, ma l’opera a creare l’artista il quale, realizzando l’opera, contribuisce altresì a realizzare sé stesso: 


Soltanto questo vento abbiamo e questa pausa,

o fratello, attendendo che le mie e le tue opere

finiscano di crearci!


È, tuttavia, una lotta alla quale non ci si può sottrarre: sono le cose stesse a chiedere alla poetessa di essere «specchiate», le cose stesse a pregarla di cucir loro una forma salvo poi sottrarsi a essere costrette in una forma, scampando alla possibilità di essere tramutate in rappresentazione artistica:


Il verde volto che tenta

di formarsi nel fogliame,

il volto grigio del vento,

il volto glauco dell’acqua,


chiedono a me uno specchio

e subito l’infrangono

mentre, lembo a lembo,

si compongono e si sfanno.


In Il vuoto e le forme Guidacci riprende e amplia alcune tematiche già presentate nelle raccolte precedenti: è il caso ad esempio del rifiuto del corpo che qui si esprime in un rifiuto della forma, limitata e limitante per via del suo carattere di fissità. O ancora la riproposizione del cerchio quale figura di solitudine e isolamento. Il cerchio tuttavia nella raccolta del 1977 diviene un ulteriore emblema dicotomico, ripreso dai presocratici, che rimanda tanto alla perfezione quanto all’uniformità, presupponendo un’assenza di forma. A questa assenza di forma Guidacci oppone la verticalità, in primis di afflato religioso. 

La seconda sezione della raccolta, Il muro e il grido, presenta invece una spiccata vocazione civile mossa dal golpe militare cileno contro il governo di Salvador Allende. La vicenda collettiva si intreccia, come spesso avviene in Guidacci, con una personale, più intima: è il ricordo di un vecchio amore giovanile. 


Dovunque tu sia – caduto

forse, o forse superstite

come nell’altra guerra in cui ci conoscemmo

(in quest’ora risorge violenta nel ricordo

col nostro amore giovane) – dovunque

si posino i tuoi occhi, su un’arma

convulsamente impugnata, su un muro

di carcere, il rossore d’un incendio,

l’oscurarsi di un ultimo cielo;

qualunque ondata in te si levi

(irosa, disperata)

o da te rifluisca nella morte:

tu non invano avrai sofferto,

come non sono vane le parole

di libertà che un tempo m’insegnasti

e che per sempre custodisco in cuore.


I muri, le barriere ai quali rimanda il titolo della sezione, non possono tuttavia fermare il grido. Esemplificativa a questo proposito la poesia dedicata a Pablo Neruda dove la barriera è rappresentata dal rogo e il grido dal messaggio e dalla poetica di Pablo Neruda che non potranno essere arrestati da nessun fuoco: «e sopra il rogo che hanno preparato / ai tuoi versi, rifulge / l’inconsueta natura di fenice». Una sezione dunque che, nonostante la natura tematica di partenza, si apre al segno di una speranza per il destino collettivo. Una conciliazione che viene riproposta in chiusura di raccolta: dopo aver attraversato con i suoi versi la decadenza fisica, il rimpianto per un’infanzia mitizzata e l’imminente precipitare che è la morte nella quarta e quinta sezione (rispettivamente La vecchiaia e dintorni e Tre poesie della fine), Guidacci chiude il cerchio con toni più sereni. Sorretta dalla fede, la sezione finale Resta la pace è suggellata dalla poesia Il tuo ricordo che ripropone la dialettica contrastiva iniziale tra vuoto e forma, addolcita tuttavia da ciò che «rende umano il mare»: 


Il tuo ricordo, sul fondo

della mia solitudine,

ne rivela l’ampiezza

e tuttavia la limita.


Così un canto d’uccello

addolcisce l’immensità del cielo

a una singola vela

rende umano il mare.


Una speranza, ciononostante, della quale si può ascoltare la voce flebile solo alla fine di raccolta. Prima c’è l’«imminente precipitare», la resa all’angoscia che il decadimento del corpo al quale si assiste dalla soglia della vecchiaia, sta lentamente traghettando ogni cellula verso la morte: il corpo è una città in rovina. A nulla vale il ricordo di un’infanzia mitizzata che viene ricoperto dal rimpianto e dalla amara constatazione della solitudine ontologica dell’uomo. Anche il tentativo montaliano di cercare la salvezza nei piccoli oggetti, nei solchi delle cose, infine fallisce: 


S’è rassegnata. Ha forse più fiducia

negli oggetti. La lucernina antica

da lucidare, il vaso in cui disporre

i fiori, le fotografie sbiadite

nelle loro cornici:

ecco le poche pietre ancora visibili

per un incerto guado. 


*


Al riparo della sua casa, nella stanza più tranquilla,

in mezzo a ninnoli prediletti,

ella ad un tratto sente aprirsi la strada,

scorrere il fiume. 


Nella conversazione con gli amici, 

prima che giunga la risposta ad una semplice domanda

ed alle labbra il cucchiaino già alzato, 

ella sa che può aprirsi la strada

e scorrere il fiume. 


Nella lettura silenziosa, la sera, 

il solco tra rigo e rigo, traversato dagli occhi

o l’intervallo della pagina voltata

diviene strada che s’apre

e rapido fiume. 


Chi la salva, se nulla in apparenza è cambiato? 

Chi la riafferra sull’orlo invisibile? 

Era qui- ed ecco, si allontana sulla strada, 

è trascinata dal fiume. 


La speranza dell’acqua, tema che ritorna come in molte altre raccolte della Guidacci, è solo un miraggio: il suo richiamo impetuoso si risolve qui quasi sempre in una minaccia. Una minaccia tuttavia, come già abbiamo detto poco sopra, che solo in fine di raccolta sembra addolcirsi, quando la poetessa rinuncia un poco alle vesti angoscianti del disfacimento, della morte e della solitudine e si riveste nella consapevolezza delle forme piccole che conferiscono valore anche agli elementi immensi: «così un canto d’uccello / addolcisce l’immensità del cielo».




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