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Immagine del redattoreAlessandro Pertosa

Le Giovani Interviste: Stefano Modeo

Prosegue con Stefano Modeo lo spazio "Le Giovani Interviste di Alma" dedicato alla messa a fuoco del pensiero e della poetica di giovani autrici e autori talentuosi.


I primi sei appuntamenti saranno dedicati alle poetesse e ai poeti inclusi nel Sedicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos 2023).



Il mare, i pesci, gli scogli percorrono in maniera determinante la tua raccolta Partire da qui pubblicata nel Sedicesimo Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos 2023). Il mare come luogo del cuore, come simbolo delle radici da cui vieni, ma mare al contempo come spazio di attraversamento e di legami. Paolo Febbraro, nella prefazione a Partire da qui, ti definisce poeta eclettico e scrive che la tua poesia è fortemente influenzata da Taranto, la città in cui sei nato e vissuto. Taranto è la città dei due mari. E nella città dei due mari non si tratta di barcamenarsi, bensì di provare a vedere doppio. Credo che Febbraro abbia ragione e concordo quando scrive che avresti potuto essere poeta epico o poeta satirico e che invece hai scelto- direi in modo molto proficuo – di barcamenarti, appunto, fra queste due possibilità. Nutro però una certa resistenza a condividere con Febbraro l’idea che tu sia un poeta «sobriamente surrealista». A me sembra che la tua poesia sia realista. E proprio perché realista, esposta anche alla contraddizione, alla tensione. Perché la realtà non è mai bianca o nera, ma è bianca e nera al contempo. L’esigenza di migrare, di andare, di esporsi, mi sembra proprio iscritta nella carne viva della tua terra, del tuo modo di stare al mondo. E allora ti chiedo: quanto ha inciso nella tua formazione poetica, nel tuo modo di fare poesia, nel ritmo, nei suoni, l’abitare una terra con due mari? Quanto ha inciso nel tuo immaginario il venire da un posto che per millenni è stato crocevia di incontri terribili e gloriosi?

 

Il mare è sicuramente una delle immagini che prediligo per esprimere analogie. Quando vivi in una città come Taranto, in cui vi è una forte presenza del cemento, sai che il principale elemento naturale a cui puoi far riferimento è il mare. Inoltre Taranto ha la peculiarità di averne due: il Mar Grande che dà sul golfo e il Mar Piccolo che si rivolge all’interno, alla città vecchia. Il Mar Grande è il collegamento, l’affaccio al mondo, alla Basilicata, alla Calabria, alla Grecia, al Mediterraneo; è attraversato da navi mercantili, promette qualcosa; è una parete sfondata che ci fa abitare anche ciò che è al di là, ma soprattutto nella sua vastità protende al moto, all’irrequieto. Il Mar Piccolo invece è tutto un raccogliersi intorno alla terra, si lascia coltivare, ha risorgive che l’addolciscono; sembra un mare spento, quieto, su cui pare si possa camminare, ed è perciò popolato da pescatori, pali di castagno, boe, paranze. Ecco, i due mari forse rappresentano una serie di dualità: il tormento e la stasi; andare e restare; il progredire e l’attesa. Del resto Taranto sembra costringerti costantemente alle dicotomie anche su altri fronti: lavoro/salute; città nuova/città vecchia; ambiente/industria. Ma tornando al mare, mi vengono in mente due versi di Byron: ʻʻL’uomo segna la terra di rovine/sulla riva finisce il suo controllo’’, in questo senso, nella silloge, il mare è anche lo spazio delle possibilità e dell’ignoto, dei navigatori che cercano una nuova terra, da dove sorgono turbini che abbattono le gru nel porto, in cui avvengono naufragi. In esergo Partire da qui ha un verso dell’epigrammista Leonida: ʻʻSono sepolto in mare e sulla terraʼʼ che forse si accompagna bene con quelli di Byron: il viaggio, il movimento, la fuga, impongono sempre una condizione di sradicamento e smarrimento, e allo stesso tempo di messa a fuoco e concentrazione, conoscenza. Si può abbandonare un luogo e lasciarvi una parte del proprio io, così anche per chi resta si assume una doppia identità. Si può partire e assumere una doppia forma: migrare in permanenza.

 

Nostalgia

 

Quando è andato via

ha portato con sé un coltello

con cui squarciava la pancia dei pesci.

Lo tiene in tasca, ogni tanto

lo apre e lo chiude di scatto.

Vorrebbe infilzarlo in un tronco,

abbandonarlo nel legno, ma

sulla lama c’è ancora il sangue,

il biancore del sale, del mare

e una vena cruda di nostalgia

che gli apre nel palmo una ferita.

 

Il centro della tua poesia credo giri attorno a questo tema: la nostalgia. Ma in fondo, non pensi che fare arte, scrivere, sia un modo proprio per dare conto di questo dolore per un ritorno impossibile? Siamo carne e sangue, veniamo dalla ferita: e allora, fare poesia non è forse uno dei modi che abbiamo per provare a colmare quello spacco?

 

Un giorno Paolo Febbraro mi disse: «La nostalgia per ciò che sparisce deve e può modellare il nuovo mondo, perché altrimenti questo mondo non sarebbe nuovo, ma fingerebbe di essere l’unico». È infatti attraverso la perdita di un mondo, dal dolore che ne scaturisce, che ci si può proiettare in avanti, nel futuro. Non nella restaurazione, bensì nella costruzione. Qui avviene anche la poesia. Negli anni mi sono reso conto che nei versi ho provato a restituire un mondo che avevo perduto, creandone uno nuovo. Con la poesia si afferma in noi una quasi verità, una percezione di raggiungibilità o di avvicinamento a quel luogo, che è appunto il luogo della verità, con cui facciamo i conti con noi stessi e non solo, in cui si scontra o si accarezza la memoria e il nostro desiderio di conservazione, di sopravvivenza, di autodistruzione, estinzione o miglioramento. Ma si tratta di una quasi verità, questo non bisogna scordarlo, un luogo annebbiato e dagli incerti contorni, un luogo che rimanda ad altri mille luoghi, uno specchio infranto. La poesia – che è forma della mente – si trova in fondo all’«ombelico dei sogni» per citare Freud e un libro recente di Vittorio Lingiardi. Ma proprio perché parliamo di ombelico sappiamo che alla sua origine c’è un taglio, una separazione, un trauma che lo genera. È necessario innanzitutto generare o, in altri casi, risalire, ripercorrere questa origine, questo taglio per raggiungere la poesia. Nella Teogonia di Esiodo, Gea dà alla luce il Cielo stellato (Ouranòs asteróeis) affinché possa coprirla e fungere da dimora per gli dei. Dalla loro unione nascono i Titani, tra cui Crono che, guidato da Gea, taglia i genitali di suo padre Ouranós con una falce. Questo atto permette a Cielo e Terra di separarsi. Il Cielo diventa distante e inaccessibile, si fa vuoto, distesa di assenza. Al cielo si rivolgono i desideri: guardando l’infinito cielo stellato, l’uomo sperimenta una mancanza ma anche l’aspirazione verso l’alto, incarnando il movimento del desiderio e dell’elevarsi partendo dal proprio limite terreno

 

Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti. Qual è la tua posizione a riguardo? Come vedi il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?

 

Credo che la Rete abbia principalmente il demerito di aver amplificato un problema che in Italia ha cominciato ad esistere già dalla seconda metà del Novecento, ovvero la progressiva perdita della capacità di distinguere i poeti veri. Ma tutto questo è strettamente connesso da un lato alla perdita di considerazione del poeta stesso, perché a un certo punto si è creduto che la poesia non fosse più necessaria per capire la nostra cultura; e dall’altro alla modernizzazione di una società che si vuole sempre più «scientifica». Per buona parte della popolazione dunque, la poesia oggi è irriconoscibile.   Autoreferenzialità e capacità di autopromozione, in misura minore o maggiore, che piaccia o no, sono sempre più gli ultimi strumenti con cui il poeta oggi trova la propria visibilità per intraprendere una strada editoriale o vendere qualche copia, e il Web è certamente il principale spazio in cui muoversi. Parlandone, ovviamente, parlo in qualche misura anche di me e delle mie contraddizioni. Va da sé che la poesia sta diventando sempre più un’appendice e che a tenere banco è un personaggio-poeta (dal taumaturgo all’esperto di geopolitica, dallo storyteller all’arguto riflessivo) che riesce a fidelizzare quanti più follower possibili. Capisci bene come anche dal punto di vista dei ʻʻnuovi linguaggiʼʼ, il desiderio di essere visti, di arrivare a tutti, impone come risultato un appiattimento della lingua o al massimo un tentativo goffo di finta ribellione o trasgressione, militanze simulate. Per quanto riguarda il futuro è impossibile fare previsioni. Il Web e le tecnologie mutano talmente rapidamente che anche un’attività come questa, ovvero rispondere a un’intervista, dal momento che potrebbe essere svolta da un’intelligenza artificiale, risulta già obsoleta. Figuriamoci dunque scrivere una poesia che, per quanto mi riguarda, resta un lavoro che può richiedere anni, studio, rigore, fatica.

 

Siamo nel 2022, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurito: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo.

Alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout court e in riferimento anche alla conta che sempre viene fatta di autori uomini e autrici donne presenti in lavori corali come quello di cui il tuo Partire da qui fa parte, come inquadri l’argomento e qual è la tua opinione a riguardo? Soprattutto, prevedi un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo?

 

Ciò che mi interessa maggiormente di questo dibattito – e lo dico da curatore di due antologie di poeti dimenticati o perlopiù sconosciuti – è il recupero di autrici che non hanno ricevuto una giusta attenzione critica. La possibilità di ridiscutere ciò che oggi ci viene dato come concluso e canonizzato, attraversare nuove strade per comprendere la poesia e la cultura, mi entusiasma molto. Per il resto è chiaro che le donne scrivono buoni o cattivi libri esattamente come gli uomini e le conte lasciano il tempo che trovano, quantomeno finché proveremo ad anteporre il testo a qualsiasi discorso ideologico.

 

Ti chiedo di scegliere da Partire da qui tre testi e di riportarli qui per le lettrici e i lettori di Alma.

 

Falò

 

Appiccano fuochi a cataste di legno, 

arrampicandosi come scimmie sui monti.

Dalle fiamme appare un diavolo nero 

e scende una pioggia di faville dorate.

 

I maschi si picchiano i magri deltoidi

e la nuca per scherzo mentre alle ragazze 

fanno il gesto del sesso. Non hanno nulla 

da imparare, ridono di chi teme il maligno.

 

Sul loro petto Cristo ciondola in croce 

se arriva l’amore lo baciano e giurano

davanti la fiamma col corpo che brucia

che non tradiranno mai quella fiducia.


Diario dell’inconscio


Quando saltava

                                 sulle boe,

noi sulla spiaggia

restavamo a guardare

           il pesce morire e volare

 

una vita a uccidere il mare.

All’orizzonte minuscole vele

procedevano lente come coltelli.

                     

                           Quest’unica forza

                                in una cornice.

 

Vorrei morire sotto i tuoi colpi

perché non riesco ad amarti come un soldato.

So che qui le parole non corrono

come in una grande città.

                                            

                                            Dal margine

è più semplice immaginare di andarsene.


 

Le agavi


Un uomo osserva i corpi 

delle agavi bruciare al sole.

È in cerca di un reperto 

che lo faccia risalire a quando

è apparso sulla terra,

una vecchia lanterna o un corridoio

nel tempo che ora possa aiutarlo 

a chiudere il cerchio.

Riconosce il capo abbattuto 

delle gru nel porto, i distributori

di carburante nel mare o la prua 

delle navi petroliere. 

Il mondo che muta ha l’aspetto di

ciò che è andato perduto. Le agavi,

lasciano che lo scirocco le frusti, 

che le imbianchi la salsedine.



Stefano Modeo (Taranto, 1990) vive e lavora come insegnante a Treviso. “La Terra del Rimorso” (ItalicPequod 2018) è la sua opera prima. Ha curato l’antologia di poesie di Raffaele Carrieri ʻʻUn doppio limpido zeroʼʼ (Interno Poesia 2023). Compare nell’antologia ʽʽAbitare la parola - Poeti nati negli anni ’90ʼʼ (Ladolfi editore 2019) e in ʽʽI cieli della preistoria. Antologia della nuovissima poesia puglieseʼʼ (Marco Saya 2022). Fa parte della redazione della rivista di poesia Atelier e della redazione del blog Universo poesia – Strisciarossa. Si occupa di poesia italiana contemporanea per la rivista di critica letteraria norvegese Krabben - Tidsskrift for poesikritikk.

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