Le Giovani Interviste: Noemi Nagy
Prosegue con Noemi Nagy lo spazio "Le Giovani Interviste di Alma" dedicato alla messa a fuoco del pensiero e della poetica di giovani autrici e autori talentuosi.
I primi sei appuntamenti saranno dedicati alle poetesse e ai poeti inclusi nel Sedicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos 2023).
Sin dal titolo della tua raccolta L’osso del collo pubblicata all’interno del Sedicesimo Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea (Marcos y Marcos 2023) è possibile rintracciare nella “corporeità” uno degli elementi strutturali e strutturanti dell’intero impianto poetico. Un titolo, come sottolinea Fabio Pusterla nella prefazione Il cane della morte di Noemi Nagy, nel quale si sente «risuonare l’invito allo scavo, alla rastremazione, alla materia dell’essere colta nella sua più estrema nudità e miseria». D'altronde le tre sezioni che compongono la raccolta Atlante, Asse e Prominente portano i nomi delle tre principali vertebre cervicali, denunciando l’attenta e scrupolosa attenzione anatomica che si spinge quasi sino alla dissezione, e al contempo «suggerendo subito una sorta di esplorazione della vita colta nelle sue manifestazioni più concrete, più materiche ed essenziali». Mi sembra ci sia nei tuoi versi uno spazio poetico che è fatto di vertebre, organi e corpi malati, disgregati, vivisezionati eppure resistenti. C’è in questa visione “corporale” il segno di una poesia che tenta l’avvicinamento alla realtà torbida e rovinosa delle cose? Lo spazio del corpo può essere letto come correlativo di una condizione di precarietà e fragilità?
Quello del corpo è lo spazio in cui si rende evidente una condizione di precarietà e di fragilità. Vi si incarna per la stessa proprietà primaria e inalienabile del corpo, ovvero quella della caducità: l’organismo si ammala, muore. La parola poetica non tenta dunque di avvicinarsi alla sua «torbida e rovinosa» realtà, quanto piuttosto risiede al suo interno, nasce da dentro di essa e, articolandosi, la disloca. Prendere parola, emettere voce, è d’altronde un atto fondamentalmente materico, organico. C’è un passaggio di Kafka. Per una letteratura minore di Deleuze e Guattari in cui si legge di come il linguaggio implichi sempre una deterritorializzazione della bocca, della lingua, dei denti: votandosi all’articolazione dei suoni, questi si distanziano dalla loro funzione primitiva. Parlare, dunque, e soprattutto scrivere, sono in tal senso anzitutto digiunare. Dare al corpo una postura che si situa al di fuori della propria zona di appartenenza, e di conseguenza esporlo a un rischio. La parola – da qui – si manifesta per somatizzazione.
Confrontare l’età degli altri con la propria
scorrendo i necrologi – non spaventa
il fatto in sé quanto invece il processo
in quella valle non avremo da temere
per rassicurarci ti metti a ridere ma a stento
ancora tossendo ugat bennem a halál kutyája
– abbaia dentro di te, il cane della morte –
traduci per capirsi meglio o convincertene
che in fondo se ne può anche parlare
con i modi di dire però non ci facciamo nulla
ci tremano lo stesso le ginocchia:
ancora cinquanta, ventisette, quattro anni
In questa poesia, compresa all’interno della prima sezione Atlante, utilizzi un modo di dire ungherese, lingua che usi anche altrove nella raccolta, che intensifica e amplifica la dimensione dei versi e che allarga l’orizzonte immaginifico della tua poesia. Questo modo di dire ungherese permette, a mio avviso, di disinnescare e disinnestare aprendo uno squarcio al tempo fonico e di visione sul sostrato tensivo di lingua italiana. In che modo questo intreccio di voci, di lingue trovano spazio e dialogano nei tuoi versi? Le espressioni e le immagini di origine ungherese possono dirsi atte a far emergere uno spettro di voci altrove nella raccolta “soffocate” e tese inoltre a sottolineare la vena secca e sarcastica che la tua poesia possiede?
Nei versi della raccolta, l’ungherese svolge una funzione di sostrato: quella di lingua assoggettata al predominio sociale, culturale e politico di una «lingua nemica» (ricordando quello che è stato il francese per Ágota Kristóf), in cui pure lascia delle tracce. Abita così uno spazio di clandestinità sotterranea e si manifesta, con movimento terremotante, attraverso il passaggio, ad esempio, di espressioni idiomatiche o proverbiali. Questi elementi cristallizzati appartengono a un idioletto familiare strettamente legato a quanto non è esprimibile al di fuori di una certa soglia di intimità. Allo stesso tempo, sono portatori di un’ironia che è risultato del disinnesco operato dalla formazione e dalla ripetizione dei modi di dire. Trasportati nel nuovo contesto, come organi trapiantati, si caricano tuttavia anche di una componente di straniamento e di non riconoscibilità, aprendo nel tessuto linguistico italiano forti squarci immaginativi – onirici, allucinatori.
Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti. Qual è la tua posizione a riguardo? Come vedi il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?
Mi sembra che un buon punto di partenza per delineare il rapporto della parola poetica con quella che è invece propria della comunicazione ordinaria lo fornisca Giovanni Giudici, quando scrive della poesia nei termini di «lingua strana», straniera. Così facendo, non la pone in una condizione di immutabilità, serrata nella torre d’avorio del «poetese», ma neanche di assoggettamento al mutamento contingente. Sarebbe sciocco e anacronistico rifiutare l’apertura agli oggetti e alle strutture del mondo che abitiamo nel XXI secolo, ignorarne le possibilità e i risvolti. Al contempo, se la parola poetica si fa descrittiva, documentaristica o, peggio ancora, didascalica, allora muore.
Siamo nel 2024, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurito: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo.
Alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout court e in riferimento anche alla conta che sempre viene fatta di autori uomini e autrici donne presenti in lavori corali come quello di cui il tuo L’osso del collo fa parte, come inquadri l’argomento e qual è la tua opinione a riguardo? Soprattutto, prevedi un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo?
La parola poetica, non difforme in questo da qualsiasi altra forma espressiva, non può prescindere dalla situata prospettiva che la inquadra. Pertanto, è sempre, intrinsecamente, politica. La consapevolezza di questo e la presa di responsabilità che ne deriva sono un punto nodale della nostra contemporaneità.
L’attenzione non può, dunque, e non deve esaurirsi attorno a un dibattito cruciale e oggi necessario, semmai deve guardarsi da fenomeni di addomesticante semplificazione, dalle bandierine sventolate.
Ti chiedo di scegliere da L’osso del collo tre testi e di riportarli qui per le lettrici e i lettori di Alma.
Oltre a una certa altezza buttarsi:
bisogna pensarci per un’ora al giorno,
se no è un sintomo
un’intrusione dici, e vale anche per le facce
che compaiono prima di dormire.
Turbano le distinzioni tra organico e non
come allucinazioni estive
lucertole entrano dalle finestre aperte
per mostrarsi più tardi rigide negli angoli.
Cadere di piedi, sacrificare le gambe
per salvare il resto
dal terrazzo diventa così facile
spaccare le ginocchia sul ciottolato
meno l’osso del collo, certo, al telefono
grattando l’intonaco dalle pareti
è una settimana dici che sorvegli le finestre
non posso farli entrare se no è finita
*
Il medico sconsiglia forti emozioni:
litigare è dannoso per un cardiopatico di norma
bere o mangiare sì ma con cautela.
Stare le ore a guardare mostri calarsi dal soffitto
invece va bene tenere radio e tv accese
per compagnia anche il gas e lasciarli andare.
Durare come cosa è facile, a nehéz valami más
*
Ora stacchiamo gli elettrodi dalla schiena
dal torace che prude col passare dei giorni
finalmente ci laviamo: molli dentro le vasche
l’una più lenta con le mani sull’altra
gonfie per l’acqua
a sciogliere i grumi leccando via la colla.
La mattina, aggrappate all’holter
poi con più calma ne districhiamo i cavi
sulla pelle restano chiazze rosse da adesivi
non vanno via per mesi
Noemi Nagy (1996) è nata a Lugano, in Svizzera, da una famiglia ungherese. Vive ora a Pavia, dove è dottoranda di ricerca in Filologia moderna e si occupa soprattutto di traduzione letteraria. Ha pubblicato contributi su «Autografo», «Treccani», «L’Ulisse», ha collaborato con «Birdmen Magazine» e «Versodove», dal 2021 è caporedattrice di «lay0ut magazine».
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