Le Giovani Interviste: Antonio Francesco Perozzi
Prosegue con Antonio Francesco Perozzi lo spazio "Le Giovani Interviste di Alma" dedicato alla messa a fuoco del pensiero e della poetica di giovani autrici e autori talentuosi.
I primi sei appuntamenti saranno dedicati alle poetesse e ai poeti inclusi nel Sedicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea (Marcos y Marcos 2023).
Nella prefazione a Bottom Text, Gilda Policastro afferma che: «non è di delirio che si tratta, a ben vedere, ma di percezione acuta di precisi fenomeni della realtà circostante, soprattutto transiti e passaggi (all’interno di moti fisici e mentali), con la novità, rispetto alle tradizionali poesie del paesaggio o del nostos […] ovvero la simultaneità della locazione e lo scollamento tra percezione e presenza». In questa raccolta la percezione dello spazio e lo spazio stesso sono continuamente in dialogo e in conflitto tra loro e si assiste a un cortocircuito tra uno spazio e un paesaggio fisico e identificabile, e per certi versi privato e memoriale, come quello del Veneto o della Calabria, seppur degradato e ridotto a un cumulo di non luoghi ( i tralicci dell’Enel, la zona industriale, gli ecomostri) e uno spazio finto e artificiale, come quello inventato dalla rete, che appunto annienta l’idea della presenza fisica e ci regala una sorta di eterna ubiquità. Come è concepito lo spazio nella tua poesia e che valore ha la presenza e l’esserci nella tua riflessione poetica?
Sì, nel libro effettivamente agiscono due livelli o interpretazioni dello spazio, una rintracciabile nella materia, che riguarda dunque la disposizione degli oggetti in una geografia (più o meno estesa), l’altra rivolta a come questi oggetti si dispongono nella percezione o nella memoria, abolendo il confine tra reale e simbolico e ponendo su un piano di sincronicità elementi in realtà distanti fra loro. Anche se in alcuni passaggi la netta fisicità o al contrario la netta immaterialità del paesaggio è esplicita (penso ad esempio a Mindscapes), quello che ho più spesso cercato di fare, in realtà, è stato mescolare i due piani, fare in modo che fossero suscitati l’uno dall’altro e in alcuni casi anche indistinguibili (come in Generico o Pali della luce). Fin dall’articolazione del libro credo si capisca, del resto, che il mio interesse è diretto sia alla nudità dell’oggetto (e soprattutto dell’oggetto industriale, tecnologico, architettonico) sia all’impalpabilità della dimensione psichica (non tanto spirituale, quindi, ma individuata tra azione dell’inconscio e costruzione razionale). Il punto è studiare come la dimensione oggettuale modifichi, amplifichi, condizioni le modalità psichiche e come le architetture mentali e le immaginazioni impattino sulla realtà. La nostra esperienza quotidiana credo si trovi per gran parte nel perimetro di questa compromissione (basta pensare alla sovrapposizione tra virtuale e reale procurata dai social, ma anche a un sistema socio-economico che precarizza, aliena, agisce sulla vita e la psiche decollocando, sparpagliando), perciò mi sembra che l’esserci e la presenza non possono essere concettualizzati staticamente, e men che meno dualisticamente, tramite formule come “io sono qui” o “io sono di fronte a un oggetto”. Ciò che evidenzia Policastro quando parla di «simultaneità della locazione e scollamento tra percezione e presenza» riguarda appunto entrambe le dinamiche: la percezione della realtà è sfasata rispetto alla realtà materiale; ma anche: varie possibilità di collocarsi nello spazio fisico, nello spazio mentale e nello spazio virtuale sono convocate e vissute contemporaneamente.
Nella terza sezione della tua raccolta, Anime, scrivi, parlando di Android: «Oggi io come tanti / seleziono un tragitto sulla mappa / e una voce di donna suona nella mia coscienza / la cosa più simile all’Apocalisse», altrove lo Xiaomi viene definito un «arcangelo quadrato» e ancora, a proposito di Google Street View parli di «una vita senza etica, / reversibile». La sostituzione di un apparato “divino” con la tecnologia, l’illusione dell’immortalità, l’abolizione di una prospettiva lineare in favore di una sorta di fasullo eterno ritorno nella tua poesia pare essere messo in relazione con un crollo dei valori e dei punti di riferimento della società che, nel momento in cui diventa incapace di distinguere la realtà dalla finzione, non è più neppure capace di interpretare il mistero che sta dietro la vita, la morte e l’esistenza intera del cosmo. Ritieni che la poesia, davanti a questa deriva evidente, corra il rischio di perdere quel contatto con la sfera del mistero, e se vogliamo con la sacralità della vita e dell’esistenza, o che al contrario rappresenti un argine per “salvarci” da questo processo? Come può, secondo te, la parola “salvarsi” dall’imbarbarimento che ci assedia nel momento in cui si sporca di quel mondo e di quel linguaggio?
Senza dubbio la sovrapposizione tra tecnologia e divinità attraversa il libro e in particolare l’ultima sezione. È una sovrapposizione seria e ironica contemporaneamente; lo si capisce già dal titolo anime, che gioca tra il concetto spirituale e il riferimento alla cultura pop giapponese. Ciò che mi interessa di più di questo tema è legato alla risposta precedente: il senso di ampliamento dell’esperienza e l’interconnessione, ma anche l’alienazione virtuale e il caos semiotico prodotti dalla tecnologia sono l’ambito quotidianamente attraversato in cui verificare più concretamente quello scollamento tra percezione e presenza di cui si parlava prima. Cerco dunque di avvicinarmi alla tecnologia, e agli oggetti che la compongono, con uno sguardo il più possibile neutro, intendendoli cioè come dispositivi, quindi come possibilità amplificatrici e/o distruttrici della nostra esperienza. È indubbio che la tecnologia, oggi (ma non esattamente da oggi, come spiega Davis in Techgnosis), proprio per le sue capacità ultra-percettive, simulatrici e comunicative, vada sia a occupare il vuoto metafisico che caratterizza la nostra epoca, sia ad alimentare uno psichismo diffuso (vedi Filosofia della casa di Emanuele Coccia) che rimodella i nostri desideri, le nostre relazioni, le nostre interpretazioni del reale. La mia prospettiva è però lontana da un giudizio morale su questi macro-processi, per cui non apprezzo né l’idea di un imbarbarimento o tradimento dei valori, né una minaccia alla sacralità della vita. Ancora con Davis, la cultura è in sé stessa «tecnocultura», e l’essere umano dai suoi primordi si confronta con dispositivi in grado di modificare e amplificare la sua azione. Non mi convincono le filosofie essenzialiste in cui possiamo far rientrare la percezione che il futuro corrompa il passato o l’idea che la vita sia qualcosa di sacro minacciato dallo sviluppo della storia o che la parola della poesia sia qualcosa da salvare da nuovi corrompenti codici. Lo sviluppo della tecnologia porta con sé dei rischi, certamente; ma questi scaturiscono, per come la vedo io, dal forte intreccio tra tecnologia e capitalismo, che dà alla tecnologia un ruolo attivo verso la precarizzazione, la disparità di classe, il consumismo, l’alienazione. Però, appunto, quello che si può fare con la scrittura è cercare di entrare dentro il linguaggio delle macchine, appropriarsene, sabotarlo. Fuori da ogni misticismo, c’è la possibilità di tracciare delle linee di contatto tra scrittura, tecnologia e prospettiva emancipatrice.
Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti. Qual è la tua posizione a riguardo? Come vedi il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?
Concordo sul fatto che le posizioni “la Rete sta rovinando la poesia” e “la Rete salverà la poesia” semplifichino un fenomeno più complesso. Ergo, non mi riconosco in nessuna delle due. Ma per questo duplice motivo: 1) non credo esista nessuna minaccia per la poesia in quanto tale; 2) non credo in una sacralità della poesia, ovvero nella necessità di preservarla a ogni costo. L’idea di scrittura che sento più vicina è molto pratica: la scrittura è manipolazione della lingua, esiste in quanto esplorazione dei significati, dei glitch e delle esperienze che si possono costruire a partire da questa manipolazione. Dal momento che questa manipolazione è calata nella storia, come tutte le pratiche umane, è incline a trasformarsi nel tempo. In questo senso, il web non è che un elemento prodotto a un certo punto dalla storia, sicuramente potente e pervasivo, che ha avuto degli effetti sulla scrittura in quanto tale e sulla comunità degli scriventi. Questi hanno ripensato il loro modo di relazionarsi, soprattutto con l’alleggerimento del confine tra privato e pubblico provocato dai social, e la scrittura in sé ha subito l’influenza di (e giocato con) blogging, post Facebook, relazioni testo-immagine di Instagram. Sono situazioni della storia, modalità, possibilità, e diverse delle esperienze significative della scrittura del nuovo millennio (penso ad esempio a GAMMM) hanno trovato spinte positive proprio dai campi e dalle condizioni della rete. Il punto sta nel continuare a usare la scrittura come esplorazione, credo. Come pratica di interrogazione e manomissione di fronte alla realtà e alla storia.
Siamo nel 2024, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurito: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo. Alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout court e in riferimento anche alla conta che sempre viene fatta di autori uomini e autrici donne presenti in lavori corali come quello di cui il tuo Bottom Text fa parte, come inquadri l’argomento e qual è la tua opinione a riguardo? Soprattutto, prevedi un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo?
Il nodo è proprio che il «tema» stia assumendo centralità in molti contesti: che la assuma anche all’interno dei testi (cioè, della poesia) mi sembra una naturale conseguenza, essendo appunto i testi integrati nei contesti. Però: non parlerei di «tema». Il femminismo è una prospettiva politica. Che si propone di decostruire e combattere alcuni paradigmi socio-culturali che producono un’oppressione sistematica, e spesso subdola, di metà della specie umana. Che questa prospettiva stia trovando più spazio nel dibattito pubblico degli ultimi tempi mi sembra positivo, e certamente, positivamente, la poesia ne risente, in quanto – ancora – collocata all’interno di una realtà materiale e intersoggettiva (ragion per cui un’immagine di arte che prescinde dalla realtà, quindi anche dalla realtà sessuale, mi sembra una posizione molto facile da smontare). In questo senso, quello che si può fare è cercare di adottare uno sguardo critico e anche auto-critico, specie se ci si trova – come nel mio caso, e posso immaginare anche nel tuo – nella parte appoggiata e protetta dal potere. Se così, bisogna agire contro il protagonismo a cui si è educati in quanto maschi, mettere in crisi il proprio privilegio, cominciare ad ascoltare. E l’esperienza del Quaderno, che ospita autori e autrici molto diversi fra loro è stata e continua a essere anche un’occasione in questo senso. Si tratta di stare in un libro che è singolo ma al contempo plurale, e questo comporta, oltre alle linee di contatto, anche quelle di frizione. Se poi si considera il ruolo culturale delle antologie, che in un modo o nell’altro contribuiscono alla costruzione di un canone – un canone che è stato (è) prevalentemente maschile – stare nel Quaderno vorrei che significasse, per me, anche stare ad ascoltare ciò che hanno da dire, come, Noemy, Alessandra e Marilina.
Ti chiedo di scegliere da Bottom Text tre testi e di riportarli qui per le lettrici e i lettori di Alma.
Passeggiata + internet
Tenere in tasca uno Xiaomi produce cosmi.
Capita che attraverso il paese
da casa mia in collina fino alla piazza
e mi pare di avere Chernobyl sulla coscia, non lo so,
come un dio che chiuso Instagram si sparpaglia.
Incontro nell’ordine: due mucche, una Hyundai,
mia zia, certi che odio.
Ma chiunque saluto è niente
rispetto all’arcangelo quadrato che mi accompagna.
Così il vento mi batte le tempie e il mio cranio
ha trentamila anni, è un tipografo fiammingo;
in salita faccio fatica ma le mie ossa
le trapassa una freschissima Via Lattea.
Spirito Android
Da anni ripeto che Dio arriverà
nella vecchiaia, come un placebo
per la fine che si approssima
o per una sincera adesione al progetto
cristiano – può darsi.
Ma con la grande rivoluzione Android
qualcosa è cambiato nelle mie convinzioni:
il completo controllo del sistema,
l’interfaccia liquido e intuitivo,
questa facilità di ottenere una guida.
Oggi io come tanti
seleziono un tragitto sulla mappa
e una voce di donna suona nella mia coscienza
la cosa più simile all’Apocalisse.
Due appartamenti
È meglio che le case si sfascino,
che si assista, lasciandole, al loro declino,
a un boato che le rade al suolo.
In questo modo spartirsi dal luogo
è come uccidere: si esegue
secondo una legge sottile, si chiude.
Io che di base non ho coraggio
di niente, spacco l’Italia
con due appartamenti redivivi:
li so in un certo posto, ammobiliati,
e mischio sull’altro i giorni dell’uno,
non so più distinguere lì cosa ho fatto,
quando. Lago delle Alpi che allaga
la piana del Piave, solitudine chiara
su solitudine dei lampioni accesi.
Per ogni casa che si scampa cresce questo veleno.
Antonio Francesco Perozzi (Subiaco, 1994) vive in provincia di Roma. Ha pubblicato i libri di poesia Essere e significare (Oèdipus, 2019, prefazione di Francesco Muzzioli) e Lo spettro visibile (Arcipelago Itaca, 2022, introduzione di Pasquale Pietro Del Giudice). Suoi racconti, articoli, poesie, lavori visivi e sonori sono apparsi in riviste, antologie e blog. Gestisce il blog La morte per acqua e conduce il podcast Spara Jurij.
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