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  • Immagine del redattoreDavide Toffoli

‹‹Il grido e poi l’ala di qualcosa››: recensione ad "Amuleti" di Lorenzo Pataro

Un esergo dal sapore enigmatico, ‹‹Agli amuleti persi, / a quelli trovati per strada››, apre questo nuovo lavoro in versi del giovane Lorenzo Patàro, poeta che ‹‹possiede qualità e forze e umori››, come suggerisce Elio Pecora proprio nella prefazione a questo volume. Un’opera di vigilanza e di stupore dove tutto è parola e dove ciascuna di queste parole è amuleto, tentativo concreto di arginare una inesorabile deriva, simbolo visibile di protezione.

La prima sezione, Richiami, amuleti, è introdotta da ben tre citazioni: la prima, da Samuel Taylor Coleridge, sul tema dell’Amore universale, la seconda dello splendido ed indelebile Gianni Celati di Verso la foce e la terza del poeta Mario Benedetti. Si respira, immediatamente, un’aria di resistenza, di contenimento, di attaccamento lungimirante a luoghi e ad atmosfere intrisi di una saggezza antica. L’apertura evoca nibbi, poiane, gazze, sparvieri, stringendo lo sguardo su animali votati al volo. Poi ci si imbatte in una prosa, dagli importanti requisiti poetici, dove troviamo una ghiandaia e, soprattutto, una impetuosa atmosfera di cortile, con oggetti intrisi di vita. Ci si muove, memori e rispettosi, entro mura di un passato contadino, che ancora permettono di guardare lontano e di percepire ‹‹il grido e poi l’ala di qualcosa››. Si assiste, in questi versi, ad una sorta di ‹‹danza millenaria senza nome››, vivi o sopravvissuti in quello che sembrerebbe un ritorno alle origini, in un eden primigenio di una casa di campagna dove ci si ritrova ‹‹salvi come scarti – come la scorza del frutto / spellata dalla lama››.

C’è una suggestiva alternanza tra prosa e poesia, che ci aiuta ad assaporare la matrice comune e proiettata ben in avanti della parola-amuleto. Incombe un’atmosfera di abbandono e di disfacimento: gli angeli cercano piuttosto stampelle per poggiare le ossa, abbandonando le ali. Siamo in una poesia di ipotesi, figlia dell’Essere-per-la-morte di heideggeriana memoria. È poesia dell’innesto, che trova vita dalla crepa e dalla ferita: gemma su alberi antichi e reclama spazio, si nutre di briciole e conserva ‹‹la grazia dei germogli in mezzo ai rovi››. Ci si muove nel taglio, sull’equilibrio fragile dei fili recisi. Parole come semi, posizionate con saggezza contadina nelle ferite della terra, con un ‹‹corpo-fotosintesi›› che non smette di imparare e di cercarsi nell’inseguita armonia del creato: ‹‹Ci pieghiamo insieme al vento come fosse un dio-bambino che ci culla››.

La vita evocata da Patàro è comunque canto, in special modo laddove sembra fatta di schianto e di rimpianto; contiene una dimensione persino aperta al sociale: è parola e voce per tutti (‹‹per tutte / le creature braccate nella notte / hai cantato, al rifugio nei crepacci / con la cetra››). Nasce da necessità (‹‹maturami nel petto / e fammi aratro per la terra che calpesti››). Si tratta di una voce, inesorabile, che ‹‹alimenta le radici››, alla ricerca rassicurante di un luogo in cui ‹‹inselvatichirsi››, per ritrovare armonia e verità, tra suggestioni e spaventi (‹‹Capire che l’Altro è una fiamma: / se la tocchi col dito / o la spegni o ti bruci››).

La seconda sezione, Nostalgia del grembo, è introdotta da una citazione da L’ignoranza di Milan Kundera: ‹‹In greco “ritorno” si dice nòstos. Álgos significa “sofferenza”. La nostalgia è dunque la sofferenza provocata dal desiderio inappagato di ritornare››. Il tempo viene percepito nel suo incombere ineluttabile e spietato, mentre ‹‹scivola voluttuoso come burro / bagnato nelle orecchie / il morso ringhiante dell’attesa››. Si ritorna al grembo, perché ci si sente braccati, come da una bestia che non lascia scampo. Ogni parola diventa una vitale dimensione del respiro, tendendo ad immaginarsi come ‹‹ipotesi di volo››. È il forse la dimensione più consona a questo racconto di viaggio di Patàro che sembra sgranarsi come un rosario, nell’attendere ciò che si troverà al ritorno.

Nella terza sezione, I morti sono i tarli nella neve, accanto alla citazione di Milo De Angelis ne troviamo una di Gabriele Galloni, giovanissima voce poetica prematuramente scomparsa, dal visionario e quasi profetico In che luce cadranno. Nudità, nostalgia, tutto concorre al desiderio di volare nel quotidiano mutare delle forme. Ogni fiamma è primitiva e rievoca ‹‹i cocci di creta / da cui veniamo››. Luce e dolore si strizzano l’occhio, entrambi votati al recupero, a salvare i morti, mentre è ‹‹la cenere ctonia del sole / a formare il nuovo alfabeto dei vivi››. ‹‹I morti sono i tarli nella neve››; incombono sulle mute esistenze, trattenendo il respiro e deflagrando in repentini rumori che ci chiamino ‹‹nel vuoto / lasciato dalle cose››, in attenta attesa. Tutto è transito e, per questo, destinato a passare.

La fatica dello stare è il titolo della quarta sezione, dedicata all’indimenticata Giovanna Sicari, voce poetica che negli ultimi anni riaffiora spesso, e aperta proprio da una sua citazione da Ponte d’ingresso. C’è sentore di morte e di strage, pur nel persistere delle parole, come ‹‹braci che cantano in coro››, nel ‹‹sudore del limbo››. Si resta allerta sul rogo antico e inatteso, di questo incedere folle e dilaniato del ‹‹grano che mai sarà pane››. È la chiusa senz’altro più adatta per un libro che merita di essere letto con la dovuta attenzione.

Daniele Mencarelli la definisce ‹‹parola di luce e vertigine, di visione e tragedia››. Poesia autentica e segnante di una voce che sta sensibilmente crescendo e che sembra davvero sul punto di trovare il proprio respiro più profondo, la propria radicale autenticità. Questi suoi Amuleti, difatti, sono al tempo stesso ipotesi e strumento di viaggio. Credo sia quantomai opportuno tenerseli stretti.


Lorenzo Pataro (Castrovillari, 1998), laureato in Lettere moderne, ha pubblicato le raccolte di poesie Bruciare la sete (Controluna, 2018) e Amuleti (Ensemble, 2022), con prefazione di Elio Pecora. Sue poesie sono state pubblicate su varie riviste di settore e su La Repubblica. Fa parte della redazione di Inverso – giornale di poesia. Ha vinto diversi premi tra cui “Ossi di seppia” nel 2021.

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