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  • Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Gli inediti di Angelo Calandro

In questa mini silloge, dal titolo Sguardando Roma, Angelo Calandro ci propone uno sguardo di sbieco sulla città eterna, qui descritta con dovizia di particolari attraverso soprattutto la tecnica dell'asindeto, come se il rischio che si volesse scongiurare fosse, prima di tutto, quello della dimenticanza di qualcosa sospeso tra la grande storia collettiva e le microstorie personali, che qui trovano un'importante dimora.



Me ne vado dai macigni di storia che pesano sull’oggi. Lascio le cupole di Michelangelo e Apollodoro le chiese di Bernini e Borromini, le fontane del Maderno, le tele di Caravaggio, i dipinti di Michelangelo, le statue di Michelangelo, gli affreschi di Raffaello e quelli di Masaccio, le cappelle papali del Beato Angelico, le tele di Botticelli e di Piero della Francesca, i polittici e gli affreschi di Giotto. Lascio i colossei, gli stadi, i teatri, le arene, i ruderi, le colonne, gli horti, le basole, i sampietrini, le accademie, le fontane, i prospetti, le scalinate, i musei e le raccolte e le centurie, le escavazioni, tutta l’archeologia che prova a ricordarci che ogni pietra ha un significato, che anche la polvere va esaminata con attenzione, che non si possono costruire metropolitane impunemente, che non è più l’epoca democristiana che travolgeva terrapieni e ne faceva fondamenta per orribili palazzine con ringhiera. Me ne vado perché ho letto quello che disse Stendhal e quello che scrisse Goethe. Non posso resistere alla tentazione di partire e di andarmene per una consolare qualsiasi e vedere ciò che rimane dei basolati, dei cippi miliari, delle stazioni di posta, delle locande e delle osterie, dei caupones e dei palafrenieri, delle stazioni di servizio, delle cortigiane. Me ne vado. Ma poi torno. Torno a camminare sui sampietrini storti, sui marciapiedi bucati, tra gli ingorghi e i parcheggi in doppia fila, le file alla Posta di S. Silvestro e le code per un documento al Municipio I, i semafori guasti sulla Nomentana, gli scioperi dei bus solo il venerdì, le manifestazioni da ogni dove e per ogni cosa, i parlamentari e i famigli che crapulano a Campo Marzio, quelli che noi non sappiano chi sono loro… quelli che fanno un lavoro importante e vanno sulle corsie preferenziali. Abbandoni

Il vecchio cantiere lisergico abbandonato, fogli strappati dal libro di poesie eccitate. Chilum, siringhe e armoniche dopotutto sono segnali precisi. I vecchi attrezzi, con le code di capelli ingrigiti dietro la nuca ascoltano sempre le canzoni dei Gratelful Dead ma racimolano pensioni minime dopo aver fatto i commessi all’ingresso degli uffici comunali. Qualche ragazza, ancora con i fiori tra i capelli, cammina sandalando e smuove ampie gonne colorate: fuma costì sigarette fatte a mano sbuffando il fumo verso l’alto per non colpire troppo i vicini e i passanti. Portano ancora libri nelle scarselle, fortuna che almeno questo è rimasto. Ma sono solo i più attenti. Gli altri vedono perfino Canale 5 e non gli importa di comperare quotidiani nebulosi o perfino di sfogliare i city paper gratuiti e insulsi. Il cantiere è simile ad un campo rom abbandonato. Tutto sminuzzato e infeltrito, bagnato e bruciacchiato, ingiallito dal torvo spettacolo dell’acqua mancante e della elettricità che viene da batterie rumorose. Ci cammina di fianco una strada provinciale, sconnessa per l’asfalto reso friabile dal tempo e dalla scarsa qualità. La banchina raccoglie fogliacci, fazzolettini, preservativi schiacciati, buste vuote di patatine, infinite cicche di sigarette e di spinelli, siringhe, qualche occhiale tritato, bottiglie vuote di birra e boccioni di vino scadente.

20 dicembre 2019 Ho camminato lungo le banchine disastrate del Tevere calpestando le erbacce cresciute tra i sampietrini, la melma residua delle ultime piogge di marzo, i preservativi lanciati dal livello stradale. Ci si incontrano stranieri meravigliati, ciclisti inguainati in tutine aderenti, tossici in cerca di intimità con la siringa, amiche che parlano degli amori intrallazzati. Pensando di costeggiare le acque spumeggianti non m’accorgevo degli odori disturbanti che aleggiavano intono ai barconi ormeggiati; quei circoli canottieri dagli indirizzi postali imprecisi che hanno vogatori fissi da allenamento e sedie sdraio di tela consumata di colore blu-passato. Le discoteche ondeggianti autorizzate alla musica anche oltre gli orari consentiti in centro città, i campi da tennis molto curati dei circoli borghesi, quelli con le piscine splendide frequentate da ragazze con i tanga spariti tra le carni e da avvocati di mezza età in cerca di avventure. Bastava osservare le poche corse dei battelli turistici per incupirsi al pensiero di quanta bellezza possibile sprecata dalla incuria municipale. I gommoni della polizia fluviale facevano onde legali e limitate mentre lassù, sopra i muraglioni, il fiume di lamiere e fumi molesti attraversa ripetutamente ì lungotevere e i suoi affluenti. marzo 2021 da POEMINO ESQUILINO 1. MERCATI (l’estremo lontano e l’estremo vicino) Al Mercato Esquilino è più facile trovare il coriandolo che il prezzemolo, diceva uno scrittore, uno di quelli che l’Esquilino lo abitano perché è un multi di molto: lingue, culture, odori, sapori e fantasia. C’è la Carne di religione mussulmana (come dice una grande insegna di un banco di macelleria), c’è Bismillah carne fresca halal; ci sono i cabulu sinu (descrizione su una palina di un cesto di frutteria) che ho scoperto significare cavolo cinese. (e su un altro banco diventava “cavlo cinse” ) E poi banchi alimentari ucraini o rumeni (Alimentaria Ardealu produse romanesti), frutta sorprendente del Corno d’Africa e magnifici baccalà essiccati al banco di vetro, dove convivono formaggi della campagna romana, olive bianche, nere, al forno, di Gaeta, di Castelvetrano, di Paternò, rosate piccanti, taggiasche, del Lazio, quelle nere e quelle calamate della Grecia, quelle spagnole da aperitivo e poi salumi profumati e fusaje, mandorle, pistacchi e nocchie della Tuscia. E poi ghee, granchi blu dalla Grecia, mango, papaya, dragon fruit, guava, melanzane bianche, thailandesi, siciliane, noodle, ramen sobo, soia, pasta di konjac, riso jasmine e riso basmati, ampalya, daukon, cancon, spinaci rossi, pak choi, okra, bambù e rafano. Zucchero a velo, di palma, muscovado da grattugiare, panela, melassa, sciroppo di agave e di acero. Tra tutti i banchi non ci sono prodotti kosher: quelli li trovi al Ghetto. I banchi del pesce invece sono appannaggio di arabi e i pesci sono quelli del Mediterraneo vicino: vongole, cozze, orate, tonni, spigole, sgombri, seppie, calamari, alici, eccetera. Un altro padiglione di questa ex caserma mantiene i sapori delle spezie e di certi profumi e sono strapieni di abiti colorati del Maghreb e di vesti e vestaglie provenienti dalle innumerevoli Cine. Un cortile è terreno comune con UniRomaTre, e al sole delle primavere si scaldano matricole sorprese, fuori corso calabresi, romani di recente assunzione. I cinesi aprono banchetti improvvisati con involtini primavera appena fatti, zuppe e altri preparati, sapientemente pronti in contenuti di stagnola, che gli studenti, con le loro scarne disponibilità economiche, possono permettersi per un pranzo lontano dalla mensa universitaria. Mamme di Mama Africa trattengono bimbi nelle fasce colorate dei loro bellissimi abiti solari e qualche pensionato solo e solitario cerca almeno la compagnia fisica che nella sua vecchia casa non sarebbe possibile. Autisti Atac consumano la loro sosta mangiando shawerma e bevendo birra. Il Mercato Esquilino è circondato da botteghe indiane, bangladine e


piccoli call center orientali o sudamericani dove puoi telefonare,

fare fotocopie, usare internet con computer vecchi

e incrostati dalle mani con le quali si porta il cibo alla bocca.

Ci sono agenzie viaggio o money transfer per ogni etnìa

(Balaka Travel, Janata Exchange company from Bangla Desh,

Shinwam Travel, Farazy Money Transfer, la First Security Islami Exchange Italy)

E poi ristoranti indiani, alimentari arabi, bangladini, ucraini, rumeni

(c’è un Mollah Alimentari che specifica Africano Americano Latina Asia Non alcolico).

I profumi sono micidiali perché molto primeggia la cipolla (persistente)

e poi una base di misto cumino, cardamomo, zenzero, cannella, sumach,

coriandolo, curry, peperoncini, nigella, papavero, curcuma,

assafetida, vata, gharam masala, pitchari, acqua di rose, pepe nero.

I piccoli sacchetti con tutto ciò in esposizione sono esplosioni di colori

e avvicinare il naso provoca uno shock olfattivo momentaneo.

Le lingue che si accavallano spesso hanno una base di romanesco buffo e rimestato.

La chiamata ad alta voce “Capo!”( richiamo dei vecchi romani ad una persona sconosciuta)

diventa “Gabo”, “Gabu” e chissà cos’altro.

Uomini gestiscono sartorie che cuciono ogni tipo di tessuto, per tutti e per tutte

e i box dei romani veraci vendono scarpe, sandali e le eterne maglie di Totti,

lanciando i loro nun me frega’n cazzo! come punto di arrivo di ogni discussione.

Anche gli abiti che portano persone per l’Esquilino

sono misticanze talvolta sconosciute:

burqua quasi non se ne vedono, ma donne con chador, hijab e niqab sì.

E poi le keffiah per uomini e tanti saree per le donne del Bangla Desh e dell’India

Le donne tigrine e tigrè dell’Eritrea con i loro candidi zurià.

Gli uomini, della maggioranza delle etnie, tendono a vestire alla occidentale,

anche se qualcuno in giro con la djellaba si vede, magari con il fez.

I giovani preferiscono tute e abbigliamenti alla rapper,

con gli orribili cappellini americani per mostrarsi a la page

anche se continuano a maltrattare le loro donne e costringerle al medioevo.

E camminano, bighellonano, perdono tempo, con le birre occidentali in mano,

pisciano dietro le macchine o contro i bidoni della differenziata,

vomitano sui marciapiedi e mangiano shawerma, riso e falafel.



















IL RAGAZZO CARLO

Ciascuno si presenta al mondo

Con la propria biblioteca interiore.


Al mattino rugoso

di metà autunno che va verso un inverno coi fiocchi

(freddo),

Carlo, di laurea non più fresco,

ma martellato dai no,

cammina verso la fermata del bus

a leggere l’orario del prossimo

e capire se riuscirà ad andare dove deve andare.

A recuperare un altro no che faccia da perla alla sua collana.

Ventinove anni e alla cerca di un lavoro,

un salario (come si diceva)

che non sia di mesta cittadinanza.

Il biglietto del bus a 1 euro e 50,

il mensile a 35 euro,

(l’annuale a 250 manco a parlarne).

Disciplinato come un vogatore del 4 con,

sognatore come un paziente freudiano,

arriccia il naso e incassa dinieghi,

distribuisce ripetizioni scolastiche a ragazzetti incapaci

(poche decine di euro per una birra serale

rimestata di illusioni e chiacchiere con altri disoccupati).

Il ragazzo Carlo,

dicevamo anni 29,

capelli scuri, ricci,

zainetto nero,

tifoso della Roma,

antifascista consapevole, incazzato il giusto,

spedisce curricula senza speranza,

accetterebbe anche di cambiare città.

Intanto cammina per Roma

passando da un quartiere ad un altro,

insinuandosi nei rioni storici

a sentirsi estraneo tra tanta bellezza.

Lui che parte dal Tuscolano,

Municipio VII di Roma Capitale

il più popolato e brutto.

Qualche volta consegna cibi con Glovo

sfiancandosi a soddisfare la fame stantìa

della piccola borghesia latente,

divenuta nel frattempo classe mediocre.

Il ragazzo Carlo certe notti

si aggrappa alle mura della Vecchia Dogana[1] a S.Lorenzo

strusciandosi ai fianchi generosi

di una fuori corso col piercing.

E al mattino ripercorre a ritroso il cammino

sfiorando le orribili colonne del Don Bosco[2]

e infilandosi nel casermone dalle linee geometrili,

dove i vicini che fanno l’amore

risvegliano le sue pulsioni

trapassando i foratini contigui.

Il ragazzo Carlo fuma poco.


10 dicembre 2019


[1] Vecchia Dogana: locale di tendenza ricavato dalla struttura dismessa della Dogana, adiacente allo Scalo Ferroviario di S. Lorenzo a Roma [2] Don Bosco: quartiere del Municipio VII (zona Tuscolano) del Comune di Roma, la cui piazza in colonne di travertino bianco ha una chiesa con una cupola che vuole imitare quella di S. Pietro.


Angelo Calandro nasce a Caserta nel 1955. Ha vissuto a Scanno, Roma, Caserta, Pavia, Perugia e dal 1983 vive stabilmente a Roma, dove termina la sua attività produttiva. Lettore di poesia dall’età di quindici anni; compone testi poetici più o meno dalla stessa età. Recentemente ha raccolto parte di questi testi in alcune plaquette.

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