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  • Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Editoriale Alma Performance (appuntamento n°1)

Con questa uscita, viene inaugurato l’editoriale Alma Performance, da un'idea di Alessandra Corbetta, un progetto trasversale alle pubblicazioni del blog che da oggi e per i mesi a venire proverà a monitorare, attraverso interventi di diversa natura, lo stato della questione del rapporto tra poesia e performance.

Chi volesse segnalarci studi o ricerche su questo argomento o desiderasse contribuire ad arricchire con competenza il dibattito, può farlo scrivendo a redazione@almapoesia.it, specificando in oggetto “Editoriale Alma Performance”; tutto il materiale pervenuto verrà sottoposto a lettura e quello ritenuto più interessante e valevole verrà proposto all’interno del progetto.


Apriamo questo spazio con un'intervista a Lorenzo Allegrini.


In Apocalisse pop! (Edizioni IlViandante, 2018) la metropoli contemporanea viene ricostruita all’interno dell’Inferno dantesco, permettendo così di coglierne con immediatezza analogie e possibili rimandi.

In che modo queste due realtà, distanti nello spazio e nel tempo, hanno trovato collocazione simultanea in questo tuo lavoro? Cosa accomuna i due luoghi?


Apocalisse Pop! non era per me rifare l’inferno, ma riscrivere una Commedia: un luogo letterario che ha i tempi narrativi del viaggio, dove si fanno incontri inaspettati e pirotecnici di personaggi reali o di fantasia, si mescolano l’alto e il basso, si susseguono scene diverse e si alternano comicità e dramma. Se fosse un programma televisivo, direi Blob (giuro che, se faccio un sequel, lo chiamo Apocalisse Blob). Il mio inferno, più che a un inferno dantesco di dannati, assomiglia all’ “inferno dei viventi” citato da Italo Calvino ne “Le città invisibili”, quello che “abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”, rappresentato appunto come una metropoli sovraffollata dei giorni nostri, e in cui la dannazione ha la verticalità del denaro (Satana non è conficcato nella profondità del Cocito, ma abita all’ultimo piano di un grattacielo nel downtown di Dite). L’apocalisse è un pretesto narrativo per fare due cose: alludere a un certo senso di omologazione e decadenza che ci portiamo addosso in questo secolo (al netto di scienza e tecnologia) e mettere tutti insieme, in una sorta di spazio della Storia in contemporanea, vivi e morti, personaggi storici e della cronaca, in una eternità grottesca e a tratti fumettistica, alleviando la pesantezza dei nostri tempi (dall’11 settembre 2011 in poi), senza perdere di sapidità e profondità, come accade spesso per l’influenza di società dei consumi e cancel culture. Mentre scrivevo, ho pensato spesso “Al ballo mascherato” delle celebrità di De André, e credo che una cosa curiosa del mio poema siano stati i personaggi che sarebbero dovuti entrare da vivi nel poema ma sono morti prima della pubblicazione e sono entrati dunque da morti, come Sergio Marchionne o Dario Fo. Il fatto che funzionassero ancora senza modifiche per me, incerto demiurgo, è stata una riprova che il testo andava, che un tempo sospeso era stato effettivamente creato. La recente scomparsa di Berlusconi, ad esempio, che nel libro è menzionato tra mendicanti del calibro di Bern Madoff e Rockfeller, non depotenzia in alcun modo la sua apparizione nella mia Dite. Naturalmente, ci sono dei punti di contatto con l’inferno dantesco: penso all’intelaiatura in terzine incatenate, alla presenza di tre Virgilio (San Giovanni Evangelista, autore de L’Apocalisse; Brahma, il cane parlante di Schopenhauer; Omero) e di personaggi come Caronte o Malacoda, o dei fiumi infernali Flegetonte e Acheronte e, infine, penso all’espediente del contrappasso, che abbandona rigore teologico o moralista, e mescolando una vaga etica materialistica e novecentesca e continuità con la vita vera vissuta dai personaggi.


Il titolo, volutamente costruito in understatement, accosta due termini derivanti da ambiti molti differenti e, soprattutto, correlati a immaginari distanti e, in parte, opposti.

C’è un intento provocatorio, qualcosa che hai voluto mettere da subito alla berlina o è piuttosto questa una volontà di aprire e ampliare i significati di un testo poetico?


Aver accostato a un termine catastrofico come apocalisse un altro leggero come pop non ha alcun intento provocatorio in realtà e, anzi, è in parte un ammiccamento alla cultura di massa, che io non demonizzo, e che anzi mi affascina e avvicina le persone (bisogna pretendere anche da mainstream e midcult, non accontentarsi della nicchia). Come potrebbe non esserlo la mia Apocalisse, un minestrone di personaggi della nostra cultura pop che va da Bergoglio a Schettino, da Majakovskij a Mia Martini, da Warhol a Leonardo, da Machiavelli a Pantani, da Donato Bilancia a Fede, e poi Draghi, Obama, Bush, Basaglia, e chi più ne ha, più ne metta. È una chiara dichiarazione d’intenti: pur con il rischio della letterarietà, io voglio scrivere, potenzialmente, per tutti. Come mai, allora, hai scelto la terzina dantesca, mi chiedono spesso quando sfogliano il poema. Che è già molto strano, anche se uno vuole restare nella nicchia. Ci sono diverse ragioni. Seppure abbia amato il secolo scorso e molti poeti del suo crepuscolo, la mia è stata una scelta di forte discontinuità formale. Quando in un’intervista chiesero a Paolo Poli se facesse teatro in versi mentre era in voga la prosa per uno sfoggio di cultura, lui rispose ironicamente qualcosa come: la prosa era troppo affollata. Ho l’impressione che sia lo stesso per tanta parte della poesia che io definisco in continuità, che produce certamente anche cose molto belle e interessanti, che aggrega correnti, ma fatica a essere davvero innovativa, e dunque a soppiantare i predecessori (se non come prosecutori). Ad esempio, se sostituiamo il poetichese con il linguaggio del web e dei device, facciamo qualcosa di molto diverso dal Gruppo ’63 con la lavatrice? Oppure, se utilizziamo il cut up, anche con nuovi contenuti e da nuove fonti, l’elemento di stupore, che è parte del manufatto artistico, esplode? Anche il dialogo serrato con l’immagine, quando l’homo videns è già stato ampiamente indagato negli ultimi trent’anni almeno, può davvero sorprendere il pubblico dei lettori? Io, che avevo e ho questi dubbi, come stanno facendo anche altri poeti per strade diverse (penso tra gli altri a Bortolotti, Zhara, Zaffarano o Accardi), ho cercato una strada sperimentale, la mia via alla postpoesia, che magari è sbagliata, però credo che, dopo aver destrutturato e liberato la poesia, e devastato nel secolo scorso le forme tradizionali, forse queste si possono anche recuperare come arnesi, svuotate dal loro senso reazionario, arrivando a un pubblico ampio attraverso una struttura forte, che è stata forzata, dominata e, infine, rinnovata. Tornando allo specifico del libro, mi vengono in mente l’abbondante ricorso all’enjambement, l’utilizzo minimo di elisioni e troncamenti e solo come allusione alla forma poema, e trittici di rime come …maxi, …taxi, …Craxi. Tornare a confrontarsi con la struttura, è un pallino che mi era venuto già leggendo Eco da universitario. Infine, l’ultima ragione della scelta della terzina per un’opera pop, è la questione del medium. Apocalisse è stata presentata in una forma orale e performativa: è chiaro che l’esperimento del recupero delle forme andava fatto anche in virtù di questa fruizione, spesso ingiustamente svalutata rispetto al libro. Io, invece, credo fermamente che una poesia buona sia buona declamata e in pagina (penso ad esempio ad Agrati). E il pubblico ha seguito l’operazione, dato che il libro ha venduto di gran lunga più delle aspettative, nonostante le famigerate terzine. D’altra parte, il recupero dell’oralità era già stato fatto a livello mainstream da Benigni proprio con la Divina Commedia e, nonostante il successo televisivo, il fenomeno è stato troppo frettolosamente ignorato da tanta parte di quella che io chiamo società dei poeti.


In La leggenda del Capo di Buona Speranza (IlViandante, 2022) colpisce la scrittura in ottave e il tema del viaggio che, qui, si fa punto di partenza e anche di arrivo.

Vuoi raccontarci l’iter che ha portato alla concretizzazione di questo lavoro e il ruolo che gioca per te la struttura metrica e tutto ciò che inerisce agli aspetti formali dell’opera?


La leggenda del Capo di Buona Speranza nasce da un mio viaggio in Sudafrica. Mi trovavo sulla cima della Table Mountain, la montagna piatta che domina Cape Town. Era una giornata splendida e la penisola del Capo si vedeva tutta fino in fondo. Mi domandai: esisterà un mito eziologico su questa meraviglia della natura? Beh, non c’era, perché - scoprii - le popolazioni locali si erano spostate tardi in quella zona siccitosa, e i loro miti erano quasi tutti legati al Kalahari. Allora pensai che avrei potuto provare a scriverla io. Era perfettamente coerente con il mio percorso: dopo il poema Commedia, il poema mito. Ancora una struttura da rifare, da forzare. Ispirato dal lavoro del collettivo Wu Ming per “Manituana”, mi sono messo allora a studiare miti locali e leggende europee da intrecciare per inventare una storia che fosse contemporaneamente autonoma e coerente con il resto. Ne è nato l’amore tra il guerriero khoisan Heitsi Eibib e la nereide Teti (la madre di Achille), che rappresenta il difficile rapporto tra Africa e mare (penso ad esempio alle migrazioni); con loro, tra gli altri, ci sono il gigante Adamastore (tratto dal poema I Lusiadi di de Camões) e l’Olandese Volante (naufragato di fronte al Capo di Buona Speranza). Questa volta ho scelto l’ottava rima, di proposito quando probabilmente la riproposizione del mito richiamerebbe per convenzione l’endecasillabo sciolto. E, per avvicinare l’opera ai giorni nostri, ho scritto una introduzione in prosa ambientato nel Sudafrica contemporaneo e utilizzato il topos letterario del manoscritto ritrovato, inventando un fantomatico poeta novecentesco in lingua afrikaans, Willem du Preez, che avrebbe scritto un’opera a metà tra un poema fondativo del Sudafrica (come, ad esempio, il “Martin Fierro” per l’Argentina) e maldestramente panafricano, e un film Disney. Mi sono dovuto difendere da qualche critica di appropriazione culturale, ma in letteratura io rivendico la brutalità del punto di vista (non era in qualche modo divinamente brutale la scrittura all’estero di Hemingway?). Nel mio libro, si criticano colonialismo e razzismo dal punto di vista di un boero, dunque di un discendente dei colonizzatori. Per quanto riguarda il rapporto con l’oralità, La leggenda è stata presentata in tour come un vero e proprio monologo, mentre sulla lingua ho lavorato per rendere più fluida anche la lettura silenziosa. Insomma, La leggenda si può leggere come un romanzo, anche se spero di sfidare davvero questa struttura, il romanzo in versi, con il mio prossimo libro. Vedremo.


Praticandole entrambe, quali pensi sia oggi in Italia il rapporto tra poesia e performance? Quali sono modelli i virtuosi a cui guardare per interpretare al meglio la correlazione tra le due?


Io penso che in Italia la poesia orale o che dir si voglia performativa sia in crescita, come movimento e come qualità. Non dimentichiamo che l’Italia è da tre anni di fila campione del mondo di Poetry Slam, e questo qualcosa vorrà pur dire, oltre al fatto che le vocali rendono la nostra lingua estremamente musicale (banalizzo per capirci: quando canticchiamo una canzone diciamo “na na na” e non “n n n”, no?). Io sostengo il Poetry Slam, e ogni tanto partecipo a qualche slam, perché credo che sia un format che aiuta a diffondere poesia, avvicina il pubblico e lo invita a partecipare. Non dimentichiamoci che il Poetry Slam è stato lanciato in Italia da personalità come Lello Voce. Negli ultimi anni è poi andato consolidandosi ed è ormai diffuso su quasi tutto il territorio nazionale. Per gusto personale, non amo quando il Poetry Slam si fa genere – che è un po’ la direzione che rischia di prendere tra le nuove leve e nell’area romana che tende a teatralità e spettacolarizzazione – preferisco quando il faro restano il testo e lo strumento (la voce), e lo slam serve ad attirare pubblico e a diffondere buoni testi (anche di stand up poetry, perché no?). Credo, inoltre, che dal Poetry Slam siano emersi linguaggi innovativi e poeti bravissimi, come Burbank, Gironi, Antigone, Cataldo e Balestra, per dirne solo alcuni, e altri come Di Genova, Galli e Zollo, che vengono da quel mondo, sono anche protagonisti di interessanti progetti di spoken music. Ovviamente l’esperienza della poesia orale non si limita a questo. La poesia di Frasca ha alla base approfonditi e interessanti studi sul medium voce e le esibizioni di Fontana toccano la potenza che attribuiamo all’arte grazie a una avanzata modulazione dello strumento voce e all’uso sapiente delle possibilità del microfono.


Ti chiedo, per concludere, di regalare ad Alma e a chi legge qualche tuo testo, tratto dalle tue due opere che ho menzionato.



Apocalisse Pop!


[Canto XXVI]


[...]


Partì la sigla del telegiornale

che di note squillò di dubbio gusto,

e che iniziò con una paternale

che c’infomava che «il Diavolo è giusto».

Ma ciò che più animò il mio stupore

fu quando spuntò in studio il mezzobusto:

era Emilio Fede il conduttore,


[...]


Fede lanciò un successivo servizio

che raccontò gli opifici occupati,

come gestiti da un sodalizio

di canaglie, reietti e terroristi:

«Resistono nel loro fortilizio

le bande di violenti estremisti

che controllano la zona industriale.

Garibaldi e quegli altri comunisti

starebbero allestendo un arsenale.

Secondo quanto detto da una fonte

all’agenzia di stampa ufficiale,

le linee di montaggio sono pronte,

già convertite all’industria bellica.

Ma, traghettato anni fa da Caronte,

Stalin, il nuovo ministro, si sbellica,

assicurando che la loro forza

il nostro esercito al massimo vellica».

Reagì Giovanni: «Il rosso ha scorza,

li terrà per un poco tutti in scacco!».

Poi una notizia di meteo, che smorza,

il conduttore annunciò bislacco,

e introdusse il parere di un esperto:

«L’afa è di questa stagione, perbacco!

Non capisco perché tanto sconcerto

per l’ondata di caldo. È arrivata

come fa abitualmente, dal deserto.

Chi dice che Dite è surriscaldata,

e che esploderà, è pazzo, un ciarlatano.

L’Apocalisse è una voce infondata:

se anche la Terra fosse magma e guano,

non significherebbe l’impellente

estinzione del genere umano.

Di Noè il nome non vi dice niente?

Oppure del Diluvio Universale?

Allora l’alluvione fu imponente,

ma risparmiò l’uomo e ogni animale;

che cosa può spaventar chi ha già vinto

la natura di essere mortale?»,

terminò l’imbonitore, convinto

d’avere il pubblico rassicurato,

sedando di disordini l’istinto

che serpeggiava nella città-Stato.

Nella rubrica dell’economia

un altro sedativo fu lanciato

per placar dei mercati l’isteria

che avea affossato a Dite la Borsa.

Qualificava la didascalia

Mario Draghi, invincibile risorsa,

della Banca centrale presidente:

«Chi i propri soldi ritira di corsa

lo fa in assenza di un rischio imminente.

Capisco la sfiducia, il disagio

se Wall Street l’ha ingoiata un continente,

ma le banche non rischiano il naufragio:

restiamo pronti a fare il necessario

per evitare qualsiasi contagio».

Il banchiere parlava lapidario

dando sfoggio di calma e competenza,

finché brandì lo scettro monetario:

«Abbiam strumenti di grande potenza:

possiamo a fiumi stampare moneta

per arginare ogni turbolenza

che si trasmetta dal nostro ex pianeta».

In quel momento il Santo, spazientito,

fece tacere quell’apologeta

della finanza. Aveva zittito

al pappagallo il becco catodico.

E inveì: «Quale inganno è ordito

da un palinsesto falso e melodico!

Dobbiam raggiungere il Parlamento,

muoverci lesti, ma in modo metodico:

all’incombente non potran tormento

dichiararsi i politici insensibili».

[…]



La leggenda del Capo di Buona Speranza


[Il ritrovamento di Teti sulla spiaggia]


L’Africa è un gigantesco animale

che non è mai rivolto verso il mare,

ma questa volta l’evento fu tale

che si dovette ogni scoglio voltare:

il ritirarsi di un’onda anormale

svelò una bimba di pelle lunare.

La terra ricordò di essere madre

le sue manine osservando leggiadre,

che assomigliavano alle bianche schiume

che adagiata l’avevano là fuori.

Guardando la colomba ancora implume,

la costa spoglia arrossì di fiori

e all’istante sul ripido biancume

dai rovi si schiudevano colori.

Germogliata, la spiaggia del miracolo

sembrava in grembo cullare un oracolo.

[…]


Lorenzo Allegrini Alma Poesia

Lorenzo Allegrini classe 1982, è giornalista, poeta e autore teatrale. Ha pubblicato i poemi “La leggenda del Capo di Buona Speranza” (Edizioni Il Viandante, 2021) e “Apocalisse Pop!” (Edizioni Il Viandante, 2018), presentati in un tour di performance di oltre 50 date in tutta Italia e all’estero, in Svizzera, Portogallo e Belgio, dove peraltro si esibito nel contesto dell’Istituto Italiano di Cultura a Bruxelles. Inoltre, due suoi testi teatrali sono andati in scena: “Rabbit! – La mossa del coniglio” (2015) e “Anarcord – L’ulcera dell’anarchico Fabbri” (2018-2019). Dopo aver collaborato con alcune delle principali testate di media e quotidiani nazionali, si è occupato per dieci anni di economia e finanza per l’agenzia di stampa LaPresse prima di passare alla comunicazione aziendale. Ha un blog di poesia su Huffington Post.

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