Commento a «Ciò che è perduto» di Jorge Luis Borges
Per la filosofia un mondo possibile è un intero universo, distinto da quello in cui ci siamo trovati a vivere, per alcune caratteristiche, ed è tuttavia un mondo obbediente a dei principi, ora logici, ora fisici, ora epistemologici. Se capire questi mondi è compito del filosofo, esplorarli è onore e onere del poeta. Lo sapeva Borges, quando scrisse questa poesia, contenuta in L’oro delle tigri e che qui è riportata nella traduzione realizzata da Tommaso Scarano per Adelphi (2004). Borges con i suoi versi sfonda le pareti di un periodo ipotetico dell’irrealtà: la sua poesia ferma il tempo, ripercorrendo le strade non prese al bivio e immaginando cosa si sarebbe potuto celare dietro le curve mai svoltate. Ciò che è perduto esiste ancora, da qualche parte nelle pieghe di un sogno, e solo il poeta ha il potere di trasformare la sofferenza per ciò che si è e la malinconia per ciò che non si è stati in meraviglia per ciò che si sarebbe potuti – e, come ci svela l’ultimo verso, che forse in futuro si potrà - essere.

Ciò che è perduto
Dove sarà quella vita che avrei
potuto vivere e non vissi, la lieta
o triste e orribile, quell'altra cosa
che poteva essere la spada o lo scudo
ma che non fu?
Dove sarà il perduto
antenato persiano o norvegese,
dove il destino di non finire cieco,
dove l'ancora e il mare, dove l'oblio
di essere chi sono?
Dove la pura
notte che al rozzo contadino affida
l'analfabeta e laborioso giorno
come pretende la letteratura?
Inoltre penso a quella mia
compagna
che mi aspettava e forse mi
aspetta.
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