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  • Immagine del redattoreSara Serenelli

Alma & Volponi (II Appuntamento)

Il laboratorio poetico del giovane Volponi


Entrare nell’officina letteraria di un poeta, soprattutto se alle prime armi, è un’operazione tremendamente affascinate e al contempo delicata. Lo è ancor di più se a saltar fuori dai cassetti sono testi che quel poeta aveva scartato, lasciato da parte, deciso a non pubblicarli. È la «terza eventualità» di cui parla Wislawa Szymborska in A una mia poesia, che una poesia venga «sì scritta / ma subito buttata nel cestino»[1]. Le dinamiche di scarto, i ripensamenti, le scelte, i versi esclusi ci dicono molto, ci aiutano a mettere a fuoco la storia di un autore e dei suoi testi; sono segni di carta e inchiostro che tracciano un percorso, semi che il vento trasporta lontano nel tempo e nello spazio e che troveranno linfa vitale per germogliare solo alla giusta distanza, metabolizzati nella poesia della maturità dello scrittore. Succede questo con Paolo Volponi, che aveva all’incirca ventiquattro anni quando scriveva i suoi primi componimenti, in parte confluiti nella raccolta d’esordio del 1948, Il ramarro[2], in parte esclusi da questa prima silloge ma custoditi, mai buttati. Alcuni di questi testi inediti, ora raccolti nel volumetto Poesie giovanili (Einaudi, 2020), ci danno la misura di una prudenza alla pubblicazione che attraversa tutta la produzione dell’urbinate: il recupero di materiale inedito volponiano inizia difatti già nel 2005 con il poemetto T’impongono i potenti un’anima contadina[3], presumibilmente risalente agli anni 1979-1980, la cui curatela si deve a Emanuele Zinato che si occuperà anche dei primissimi racconti, anch’essi rimasti inediti fino al 2017[4], del giovane urbinate. A emergere da queste primissime prove è un Volponi schietto, a tratti ingenuo, “corporale”, come da più parti e più voci è stato sottolineato, ma anche violento e dissacrante. Inedita dunque non è solo la serie di versi ma anche l’afflato, lo spirito che provvede ad animarla. Uno dei nuclei più interessanti di questi primi esperimenti poetici mi sembra essere quello che ruota attorno alla figura femminile, sentita intensamente, violentemente rappresentata e corporalmente colta. Un testo su tutti può aiutarci a riflettere:


Hai una carne sostenuta.

Le spalle, le anche,

controllate immobili.

Troppo composta

sei salita sul letto.

Quasi con ironia.

Prima di abbandonarti

hai lasciato il cervello sul comodino.

C’è sempre qualcosa

in te, fisso, che non partecipa.

Non ti possiedo mai, tutta.[5]


Il corpo della donna viene spezzettato e sezionato nelle sue singole componenti, ognuna colta in una precisa connotazione e attribuzione; quasi un’autopsia ma svolta sul corpo vivo di quella. Lo sguardo del poeta scivola a cogliere ogni elemento che svela, verso dopo verso, qualcosa in più: la carne è sostenuta, le spalle controllate e immobili, il cervello dimenticato. È sintomatico che qui il cervello si reifichi, a diventare un oggetto tangibile che si può prendere, estromettere, abbandonare, in un momento carico di sensualità, poggiare sul comodino, come un libro o qualsiasi altra cosa che frettolosamente si getta su un piano comodo e subito raggiungibile. Più emblematico ancora è che quel «cervello» sia usato metonimicamente al posto di mente, pensiero, raziocinio, come pure andrà inteso a sottolineare ancora di più la vena appunto “corporale” che attraversa il testo. Gilebbi la chiama «poesia dell’aderenza», riconoscendo nel primo Volponi «l’impossibilità di una visione perfettamente indipendente, tutta conclusa nel proprio io»[6]: il rapporto che si instaura con l’altro non è mai un rapporto unidirezionale bensì biunivoco, che si configura sempre primariamente come rapporto tra corpi. Aderenza ma mai assoluta unione o completa sovrapposizione. Questo è particolarmente evidente quando il poeta entra in contatto con l’alterità femminile, inaccessibile e inafferrabile, mai tutta compresa nello sguardo del poeta. C’è sempre, appunto, «qualcosa che non partecipa», che rimane escluso, una traccia che rimane inattingibile, una conoscenza inappagata. Il rapporto con la donna è insoluto, eppure Volponi tenta con la poesia un avvicinamento. La donna del primo Volponi è fedifraga, sfuggente, vorace. A questa donna, nelle primissime prove più che altrove, Volponi indirizza la sua aspra invettiva:


Hai riso,

ed io avrei sputato

dentro la tua gola

aperta.

Hai riso

di fronte al mio amore,

più grande

delle pupille.

C’è dentro

il mondo

più il tempo e le pupille.

Che la terra ti rida,

squarciando gole

di terremoto.

Il cielo

non ti dia

ombra, né luce.

Ti salti una vipera

dentro la bocca aperta. [7]


Alla figura femminile Volponi non concede nulla, non ci sono attenuanti o motivazioni valide a fermare la sua penna che ferisce e tocca, non perdona. Quasi che la donna, erotica e carnale, faccia sempre seguire all’incanto un disincanto anche più forte. A una passione, a un momento di alta carica erotica, che quando è dolce semmai lo diventa disgustosamente, segue sempre il sapore forte dell’amaro. Rabbioso il poeta si scaglia contro donne non identificabili, per denunciare tutta la sua delusione. E forse è proprio qui che risiede l’origine di questa aspra invettiva: le speranze del poeta verso il sesso femminile sono sempre disattese. Queste donne senza volto, queste femmes fatales a cui il poeta corre incontro, promettono con le loro sembianze pienezza e soddisfazione ma poi, o si negano o lasciano delusi e insoddisfatti. E se questa insoddisfazione non prende i modi dell’invettiva, sfogandosi in rabbia, trova la strada della repulsione, quasi dell’inorridimento. Ma donna è anche la madre:



Mia madre

mi vede solo

come mi ha fatto.

Non cerca di più.

Ho messo ieri

Una cappa incappucciata,

fra gli altri

non mi trovava.

Prese una smorfia

fissa

come un pupazzo di terracotta.[8]




Questa madre, la cui immagine sembra fissata, quasi bloccata nella sua espressione di «smorfia» che la disumanizza al punto da farla apparire come un «pupazzo di terracotta», riesce a vedere il figlio solo come lei stessa lo ha generato e forse soltanto come lei se lo riesce a immaginare, unicamente attraverso le proprie modalità di rappresentazione. Basta un cappuccio, «una cappa incappucciata», perché il riconoscimento risulti mancato, e fra gli altri non lo distingua. Volponi sembra quasi dirci che a quella madre manchi la completa e profonda conoscenza del figlio, che risulta filtrata dall’immagine, dal pregiudizio che nella sua mente la figura materna ha costruito ad hoc sopra di lui, e non a partire da lui, per quello che veramente è e che lo rende riconoscibile in mezzo agli altri anche incappucciato. «Non cerca di più», non ha la volontà di andare oltre a quello che vuole vedere, ecco l’amara sentenza. Stupisce pensare che già prima de Il ramarro, o in concomitanza ad esso, Volponi, così giovane, sia stato in grado di tanta sensibilità e di tanta acutezza; a ben guardare, infatti, questo componimento che potrebbe sembrare a una prima lettura semplice per la sua immediatezza, fa trapelare già un senso di inadeguatezza e di non appartenenza che sa perfettamente tradursi in immagine. A soli 24 anni, il poeta è già in grado di riconoscere del tutto, o almeno intuire, il malessere che egli prova nei confronti di se stesso e di ciò che lo circonda ed è capace di esprimerlo tramite la scrittura. E credo che sia proprio questo intimo disagio a forgiare non solo l’ombroso carattere ma anche alcuni dei versi più belli che Volponi ci ha lasciato, e ad alimentare quell’ansia di scrivere che lo renderà tra i cantori più interessanti e profondi del secondo Novecento italiano.



[1] W. Szymborska, A una mia poesia, in Ead., Basta così, a cura di R. Krynicki, traduzione di S. De Fanti, Milano, Adelphi, 2012, p. 41. [2] P. Volponi, Il ramarro, Urbino, Istituto d’arte, 1948. [3] P. Volponi, T’impongono i potenti un’anima contadina. (1980?), a cura di E. Zinato, «Studi Novecenteschi», a. XXXII, n. 69, gennaio-giugno 2005, pp. 233-237. [4] P. Volponi, I racconti, a cura di E. Zinato, Torino, Einaudi, 2017. [5] P. Volponi, Hai una carne sostenuta, in Id., Poesie giovanili, a cura di S. Ritrovato e S. Serenelli, Torino, Einaudi, 2020, p. 25. [6] M. Gilebbi, La poesia dell’aderenza: suggestioni di lettura da Il ramarro, in Pianeta Volponi, Saggi interventi testimonianze, a cura di S. Ritrovato, D. Marchi, Atti del convegno «Pianeta Volponi», Urbino-Urbania- Cagli, 2-4 novembre 2004, Pesaro, Metauro, 2007, pp. 81-88, p. 81. [7]P. Volponi, Hai riso, in Id., Poesie giovanili, cit., p. 7. [8] P. Volponi, Mia madre, in Id., Poesie giovanili, cit., p. 9.

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