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  • Immagine del redattoreSara Serenelli

Alma & Volponi (I Appuntamento)

Paolo Volponi: «un uomo con due voci»



Difficilmente vive

un uomo con due voci,

un uomo con due sere,

tra selve o campi mietuti.[1]


Da un perenne contrasto, da una costante tensione sono mossi l’animo e la penna di Paolo Volponi, poeta, romanziere e intellettuale tra i più acuti e profondi del nostro secondo Novecento. In un passaggio determinante de Il cuore dei due fiumi egli giunge a fissare questa condizione come fondamentale dell’intera sua scrittura poetica. «Tra selve o campi mietuti», Volponi non può e non vuole scegliere attratto com’è dalla precarietà che gli elementi dinamici suscitano in lui: sulla compresenza mai in equilibrio di due forze, elasticamente intese, e sulla incapacità di un assetto definitivo, che pure nella sua indefinitezza riesce a orientarsi nel segno di un’armonia benché caduca, si costruisce la poetica di Volponi. Scrittura come “contraddizione” che non investe solo il piano letterario ma che ha radici più profonde nell’esperienza umana, che si propaga su tanti aspetti, sulla percezione di plurime realtà. Il gesto poetico di Volponi porta sempre con sé l’ammissione di una ambivalenza, di una contrapposizione, di una incongruità riscontrabili tanto nella parola quanto nel suo rapporto con la realtà; ed è anche e proprio in virtù di questa profonda accettazione del contraddittorio che la poesia di Volponi si concede che essa non può e non deve essere ridotta a un’etichetta o a una sola delle sue facce. La concezione e la percezione materica del reale in Volponi si nutre costantemente ed è costruita su polarità fondamentali: la visione della realtà è sempre una visione doppia. Nonostante questa doppiezza essa risulta sempre essere «unitaria nella divisione, unitaria non per la composizione ma per la compresenza o ancor più per il cortocircuito delle forze generative»[2]: anche la forma più elementare di appercezione in Volponi tende a cogliere la materia, il mondo come substantia in fieri e continua evoluzione di forme. Al poeta urbinate non interessano gli elementi, i fatti, i sentimenti o le percezioni di per se stessi, già risolti, o non ancora sconvolti, non gli interessa il prima o il dopo; il poeta vuole cogliere gli elementi nel momento di loro massima tensione dinamica e drammatica, a temperatura di fusione, tra la sostanza gassosa e quella liquefatta. La massima attrazione Volponi la subisce quando questi elementi si combinano o collidono con il loro reciproco: naturale e artificiale, necessità e volontà, verità della natura e menzogna del mondo fabbricato dall’uomo, informale e formalizzazione, materialità e ideologia. Volponi costruisce le sue immagini poetiche fondendo naturale e artificiale, combinazione questa che porta con sé una serie di altre implicazioni e al cui interno si può rinvenire l’antinomia essenziale, la contraddizione-madre: natura e cultura, o meglio ancora, natura e storia. Un binomio oppositivo primario che regge spesso e volentieri l’apparato scrittorio dell’urbinate. Non si può considerare, però, al contempo un termine escludendo l’altro, senza amputare il senso di realtà che investe la poesia volponiana e ridurre la portata del suo significante. Giorgio Cerboni Baiardi nel 1960, recensendo per la rivista «Comunità» Le porte dell’Appennino, evoca una lettera che lo stesso Volponi gli aveva inviato, nella quale questi definisce la sua una poesia d’intervento,[3] che si dà come compito quello di «dire una totalità che si sente intorno e dentro e che si vuole scansare, aprire, possedere, mandare avanti in senso liberante».[4] Un piano poetico che si muove pertanto per intervenire sulla realtà e non per esserne una mera rappresentazione, con un preciso fine atto alla conoscenza. Poesia, dunque, come primaria istanza conoscitiva di tutte quelle realtà differenti che l’autore ha potuto toccare e che necessitano di essere indagate, conosciute e sottoposte all’attenzione altrui. Volponi sarà infatti non soltanto tra gli interpreti più intuitivi del mondo dell’industria, con le sue indagini svolte per Adriano Olivetti, precedendo politici e studiosi nella “scoperta” della realtà meridionale, ma sarà anche e soprattutto interprete del mondo contadino del Montefeltro. In una lettera inviata all’amico e maestro Pasolini da Ivrea il primo settembre 1960, a proposito de L’Appennino contadino, esprimerà l’intenzione che quella sua poesia lirica non resti soltanto nostalgia per la vita contadina o un mero saggio sociologico: egli vuole lamentare «la condizione di infelicità in cui si trovano ancora quelle popolazioni nella soggezione agli dei e alla natura» e suggerire come «per salvarle, la cultura che fino a oggi le ha aiutate a vivere non vada dimenticata nelle abbreviazioni di un discorso politico, ma guidata verso una coscienza moderna».[5] Volponi trova nella poesia il mezzo più congeniale «per attraversare il vuoto ideale» del momento in cui vive, senza piegarsi «al torpore della rassegnazione»: «penso e scrivo “per scuotere”, per tener desta la coscienza negativa di ciò che ci circonda».[6] E per questo mondo, per questa società che va alla deriva, perdendo i suoi valori, Volponi nutre una speranza: «che venga scritta ancora qualche bella poesia. Perché è vero che le poesie non cambiano il mondo, ma aiutano chi le legge, a stare più vigile, a pensare, a capire la società in cui è immerso».[7] Sebbene la fama del Volponi prosatore superi di gran lunga quella del Volponi poeta non dobbiamo dimenticare che Volponi è nato poeta e in fondo lo è sempre rimasto. Anzi la vocazione primigenia per la poesia è talmente profonda da poter essere definita come nutrix della prosa: c’è sempre in Volponi uno sconfinamento della poesia entro i limiti della prosa. D’altronde è lo stesso Volponi ad affermare nel 1955, quando scrive, rivolgendosi ai sodales di «Officina»: «mi resta sempre un’opinione da poeta di fronte alla realtà»[8]. Contraddittoria, materialistica, sincera e diretta, la poesia di Volponi, ci parla ancora come ieri, più di ieri. «Sono davvero tornato per restare?» si chiedeva nella chiusa di La durata della nuvola, la risposta a questa domanda non mi sembra che possa essere altro che sì.


[1] P. Volponi, Il cuore dei due fiumi, in Id., Poesie 1946-1994, a cura di E. Zinato, Torino, Einaudi, 2001, p. 96. [2] R. Galaverni, La volpe, la bocca del drago e le pietre rotolanti, in Pianeta Volponi. Saggi interventi testimonianze, a cura di S. Ritrovato, D. Marchi, Atti del convegno «Pianeta Volponi», Urbino-Urbania- Cagli, 2-4 novembre 2004, Pesaro, Metauro, 2007, pp. 23-40, p. 27. [3] G. Cerboni Baiardi, Le poesie di Volponi, in «Comunità», XIV, n. 84, novembre 1960, pp. 106-107, p. 107. [4] P. Volponi, Sull’avanguardia. Qualcosa che si muove e cambia, non un prodotto, in Volponi e la scrittura materialistica, a cura di Quaderni di critica, Roma, Lithos, 1995, pp. 149-152, p. 151. [5] P. Volponi, Scrivo a te come guardandomi allo specchio, Lettere a Pasolini (1954-1975), a cura di D. Fioretti, Firenze, Edizioni polistampa, 2009, p. 127. [6] P. Volponi – F. Bettini, Una poesia politica e materiale. Colloquio tra Paolo Volponi e Filippo Bettini su Con testo a fronte, in Volponi e la scrittura materialistica, pp. 80-90, cit., p. 84. [7] P. Volponi – F. Leonetti, Il leone e la volpe. Dialogo nell’inverno 1994, Torino, Einaudi, 1995, p. 132. [8] P. Volponi, Lettera agli amici Roversi, Pasolini, e Leonetti, datata «Roma, 8 novembre 1955», ora in G. C Ferretti, «Officina»: cultura, letteratura e politica negli anni Cinquanta, Torino, Einaudi, 1975, pp. 427-428, p. 427.

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