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  • Immagine del redattoreAlessia Bronico

«Ragionare in abruzzese»: Alessia Bronico intervista Setak



Nicola Pomponi, in arte Setak, è un chitarrista e cantautore abruzzese il cui pseudonimo è un riferimento al soprannome della sua famiglia: lu setacciarë. Innanzitutto ti chiedo di spiegarmene il significato, per tutti coloro che leggono e non hanno gli strumenti per una traduzione, poi vorrei sapere cosa è stato per te crescere in Abruzzo.


Il soprannome deriva dal mestiere dei miei antenati. Costruivano i setacci, gli strumenti utilizzati per filtrare la farina. Quindi per le persone del mio paese sarò per sempre “lu fije de lu setacciare”.

L'esperienza di crescere in paese, che come spesso accade ho apprezzato successivamente, penso si possa spiegare e vedere con lucidità solo se si è vissuto il suo opposto, ovvero lo sradicamento, che oltretutto è molto difficile da descrivere. Significa crescere con un grande senso di appartenenza, con delle certezze (nel bene e nel male) che le radici ti restituiscono con forza. Impari a convivere con il senso di fissità del tempo e con la noia delle dinamiche di un paese in cui tutto accade lentamente o non accade per niente. Di solito si tende a voler scappare dai piccoli centri e così è stato anche per me. Detto questo, avendo vissuto e non con pochi problemi l’esperienza del radicamento mi sono reso conto di avere una cosa che ahimè non tutti possono vantare di avere, ovvero un posto in cui tornare, le radici. Nella famosissima frase di Cesare Pavese c’è esattamente quello che ho sempre provato: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Ad oggi mi ritengo fortunato.


Cosa ti ha spinto a scrivere le tue canzoni in dialetto pennese (di Penne cittadina in provincia di Pescara n.d.r.) e quando hai capito che poteva essere una strada percorribile, un nuovo modo di esprimerti? Potremmo dire che usare il dialetto pennese abbia fatto emergere la tua vera voce?


Venivo da un periodo non facile della mia vita in cui mi sentivo in un limbo. Avevo bisogno di verità, di sincerità. Volevo mettere in musica la mia essenza senza sentirmi condizionato dalle mode del momento e senza nessun tipo di visione imprenditoriale. E quindi abbiamo fatto un gran lavoro di sottrazione. Per realizzare tutto questo è stata fondamentale e determinante la collaborazione con il mio produttore artistico Fabrizio Cesare con cui ho un grandissimo rapporto umano e professionale. Mi viene da ridere quando ripenso a quel periodo in cui parlai del mio nuovo progetto con colleghi, addetti ai lavori e amici, tutti lo consideravano un suicidio artistico. A parte pochissimi, non mi sono sentito affatto supportato. Ovviamente si, questo ha fatto emergere la mia vera essenza e, molto probabilmente, la mia vera voce.


Nei tuoi testi c’è un’attenta ricerca poetica, emerge dall’ascolto e credo arrivi anche a chi non ne comprende immediatamente il significato, un po’ come accade con certe poesie che appaiono difficili ma il cui sviluppo musicale della parola permette una chiave d’accesso. Da dove hai attinto, qual è stata la tua ricerca?


Amo il suono delle parole e trasformare il dialetto in un linguaggio musicale è stata una sfida incredibile. È stato come un piano inclinato, una volta trovata la cifra stilistica non ci siamo più fermati. Le cose scorrevano naturalmente. Sono convinto che quando si sceglie un percorso di questo genere si attinge da tutto, indiscriminatamente. Lo faccio sia per quanto riguarda la parte letteraria che per quella musicale. Il bello di scegliere di fare come ti pare è proprio quello di fare come ti pare. :)


Ci sono poeti che preferisci o scrittori che ritieni siano parte fondante della tua formazione culturale, cos’è che è passato al setaccio di tutte le tue letture?


Mi considero un buon lettore, sono lento ma leggo molto. Credo che anche non volendo in ogni mio pensiero, in ogni mia canzone ci sia un po’ il risultato di ciò che ho letto e vissuto. Mi dispiacerebbe dimenticare qualcuno ma non posso non citare: Fenoglio, John Fante, Philip Roth, Cesare Pavese, Dostoevskij, Bukowski, Byung-chul Han e molti altri. Comunque, per quanto mi riguarda, la parte determinante dei miei stimoli viene data dagli incontri, voluti e casuali.


In un’intervista hai dichiarato: «Ragiono in abruzzese da sempre, e questa cosa difficilmente potrà cambiare», esattamente cosa vuol dire ragionare in abruzzese?


Vuol dire che ogni mio pensiero è e sarà sempre condizionato nel bene e nel male dalla pragmaticità, dalla reticenza, dalla spontaneità delle persone della mia terra. Mi viene in mente il periodo in cui ho vissuto a Londra, quando loro si stupivano con “oh my god” io dicevo “ngulo”. È più forte di me e credo che ormai sarà per sempre così.


Usi una lingua locale ma la tua musica, le tue canzoni, soffiano un vento di natura internazionale, insomma, non restano confinate in luogo ristretto. Qual è il segreto?


Secondo me gli aspetti determinanti sono fondamentalmente due. Il primo riguarda appunto la musica. Cerco di fare una sintesi musicale che guarda al mondo, cerco di non concentrarmi sui generi musicali ma sulla contaminazione. Se mi dovesse ascoltare un danese che ovviamente non capisce i miei testi non credo che riuscirebbe ad individuare la mia provenienza. Il secondo è l’utilizzo “inedito” del nostro dialetto. A me interessa l’aspetto sentimentale del dialetto, non quello cultural-folkloristico. L’esportabilità sta proprio lì secondo me, non mi sentirete mai parlare dell’Abruzzo in una mia canzone. Dico e canto cose normali, condivisibili dal resto del mondo.


Lasciamoci con una canzone, una poesia, un aneddoto della tua famiglia.


Vorrei lasciarvi con una canzone in cui l’idea di contaminazione risulta evidentissima. Per quanto mi riguarda questo è l’aspetto più importante del presente e del futuro che verrà, sia per la musica che per la storia dei popoli: Born at the right time - Paul Simon.



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