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  • Immagine del redattoreFederica Ziarelli

"Le case dai tetti rossi": Federica Ziarelli intervista Alessandro Moscè

Le case dai tetti rossi (Fandango, 2022) di Alessandro Moscè è un racconto poetico e illuminante di un pezzo di storia del Novecento spesso dimenticato, una riflessione emozionante sulla follia, l’integrazione e la libertà. Federica Ziarelli ne parla con l'autore.




Qual è la genesi del suo romanzo Le case dai tetti rossi, incentrato sulla malattia mentale, sul disagio e sull’alienazione dei pazienti di un manicomio negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta? Che cosa ha provato nel rivedere quella struttura dopo tanti anni?


Diceva Cesare Garboli, in una frase che ho inserito in esergo al libro, che “democratica è quella società che convive con le imperfezioni, con tutto ciò che fa male”. Le case dai tetti rossi nasce quando in occasione della vendita della casa dei miei nonni materni, ubicata a pochi metri di distanza dall’ex manicomio, torno per l’ultima volta negli stabili che ospitavano l’ospedale psichiatrico di Ancona, complesso di palazzine inaugurato all’inizio del Novecento e riconvertito dopo la Legge Basaglia del 1978 in un Centro residenziale socio sanitario (Crass). Fino al 1996 ospitava ancora più di cento pazienti. Oggi, nell’ex manicomio, sono operativi un comando dei carabinieri del Nucleo forestale, un comando dei carabinieri del Nas, la sede dell’Arpam e alcuni poliambulatori. La premessa è doverosa, perché gran parte del romanzo è ambientato negli interni di questi luoghi divisi da padiglioni e porticati, da case basse, tutte con i tetti rossi, che viste dall’alto, dal quartiere di Posatora, negli anni Sessanta e Settanta sembravano un campo di concentramento. Nell’attraversare quegli spazi dopo decenni, in un’atmosfera lattescente, fredda e anonima, mi è sembrato di precipitare in una dimensione che non mi apparteneva, in un punto limite sospeso tra l’adesso e l’infanzia, in un sentimento di malinconia che correva lungo i muri di Ancona, in un mondo remoto tra il cancello d’ingresso dell’ex manicomio, il cortile, il giardino, lungo corso Carlo Alberto, con nonna Altera e nonno Ernesto che camminavano sottobraccio e si fermavano dal droghiere prima di rincasare. Forse è vero che uno scrittore conserva un’intenzionalità ben definita per agguantare il tempo e custodirlo, o per annientarlo in una sospensione, in una fermata. Di un manicomio mi ero già occupato nella raccolta poetica La vestaglia del padre (Aragno, 2019), ma quella volta si trattava di un istituto ubicato in Umbria, nei pressi di Perugia.


Il suo è anche un viaggio proustiano, a quanto pare. Ci descrive alcuni ospiti del manicomio?


Il distacco dalla casa dell’infanzia dove trascorrevo l’estate, si trasforma in un viaggio a ritroso, nei ricordi di quando ragazzino gironzolavo intorno ai cancelli per vedere i matti, gli internati, di quando Ancona confinava tra quelle mura: una città nella città. Nel manicomio, allora, non venivano ricoverati solo i malati di mente, ma anche le prostitute, i barboni, i nani, gli epilettici. Oggi sarebbe impensabile, eppure fino agli anni Settanta un luogo di contenzione era considerato anche un luogo di riparo, uno schermo per la società. Non ho mai dimenticato i racconti sventurati, le volte che mi sono avvicinato a quel luogo malfamato con il figlio del giardiniere, il mio amico Luca, il timore di superare il cancello, i rimproveri di mia madre quando fissavo i degenti, le strattonate, le raccomandazioni di girare al largo se fossi uscito per comprare i fumetti incellofanati, a poco prezzo. A dare una svolta alla gestione dell’ospedale, sulla falsariga di Basaglia, fu il dottor Lazzari, la trasfigurazione del professor Emilio Mancini, realmente esistito. Tra i protagonisti del romanzo spiccano suor Germana, la caposala dal comportamento rigido, e il giardiniere Arduino, re dei fiori e delle piante medicinali, che regalava mazzi di rose confezionati di persona per le donne più tristi. Arduino incominciò a coltivare pazientemente la terra, un modesto podere. L’orto era sovrastato da palme, tigli, platani, tassi, magnolie, lecci, ippocastani, bagolari e allori piantati con lo stile delle canne d’organo. Nazzareno era un omino che si divertiva a trasvestirsi, a raccontare le barzellette; l’uomo-giraffa aveva paura delle malattie e si sentiva inseguito dai microbi; Carlo il pirata voleva assomigliare a Sandokan, la tigre della Malesia; Franca sognava i nazisti in uniforme che venivano a prelevarla; Adele non ricordava nulla se non Mussolini; Giordano, quando non collezionava bottoni, pensava al Napoli calcio e al suo capitano Antonio Juliano, detto Totonno. Ho cercato, attraverso una narrazione lirica e colloquiale, non solo descrittiva, di raffigurare gli ospiti del manicomio come senso, spirito, speranza. La sfida di una follia curabile si intreccia ai teneri ricordi familiari, fatti anche di odori e sapori.


Che cosa ha significato per l’Italia la legge Basaglia? Ha fatto delle ricerche per comprendere l’atrocità dei luoghi di contenzione?


La chiusura dei manicomi è stata la più grande conquista civile dell’Italia del secondo dopoguerra. Se la contestazione non ha prodotto grandi cambiamenti da un punto di vista politico, va detto che la società ha fatto notevoli passi in avanti anche con il referendum sull’aborto e sul divorzio. Chiudendo i manicomi è stato abbattuto un muro che toglieva identità e dignità alle persone. Con la legge Basaglia si sono estirpati molti pregiudizi sulla pericolosità di individui che non rappresentavano una minaccia. Per scrivere Le case dai tetti rossi ho svolto un lavoro preparatorio accurato, ricerche su testi specializzati. Ho letto alcune cartelle cliniche per capire quali erano i metodi di approccio della vecchia psichiatria. I nomi e i cognomi dei ricoverati venivano riportati con un pennarello nero e impressi sotto un timbro blu. Il modulo informativo indicava luogo di nascita e domicilio, età, numero di figli, costituzione fisica, condizione economica, professione, religione, stato civile, educazione, grado di istruzione e gli avvenimenti locali che avevano influito sulla salute fisica e psichica del soggetto in questione. È stato incredibile leggere diciture come “Custodia e cura degli alienati”; “Medicalizzazione della follia”; “Processo di internamento”. Si pensava che le convulsioni fossero una malattia mentale ereditata. Per la gente comune il malocchio consumava cuore e anima dei pazienti, non solo il cervello. Questi erano i segnati da Dio, di cui bisognava diffidare. I fori de testa, gli schizofrenici, conservavano lo sguardo fisso, l’orbita degli occhi sproporzionata e le braccia lungo un corpo filiforme o lievitato. Ancona aveva paura dei suoi matti e chi transitava da quelle parti allungava il passo, non si girava, faceva gli scongiuri, chiudeva gli occhi. Ai bambini si proibiva di guardare i padiglioni e i pazienti che sbirciavano da una sbarra all’altra. Un infermiere aveva riferito che si usavano metodi tutt’altro che ortodossi per lenire i mali e che non sarebbe mai guarito nessuno. I violenti venivano chiusi nelle stanze con un materasso a terra, senza molle, nudi, con una coperta sulle spalle, quando i loro lamenti diventavano ululati e non c’era modo di farli zittire. Orinavano e defecavano a terra, senza pudore.


Nel romanzo emerge anche la città di Ancona, la provincia. In che modo?


Il romanzo contiene una radice che accede ad un percepire di carattere antropologico, ritualistico. I miei sono anche luoghi dell’anima che coniugano la provincia dei particolari in una dimensione partecipata, in una terra universale. Ci sono usanze che per secoli rimangono granitiche e che inevitabilmente finiscono. Gli anconetani, fino agli anni Sessanta e Settanta, il 19 settembre, giorno del patrono, erano soliti salire a piedi fino al Duomo di San Ciriaco. Nonno Ernesto e nonna Altera si recavano in processione tenendo un santino in alto come fosse l’ostensorio. San Ciriaco avrebbe protetto i familiari dalle malattie e dalle sventure. L’usanza terminava con uno scampanio da parte di chi aspettava i fedeli davanti al sagrato della chiesa. C’era un’euforia che continuava con i canti prima della messa celebrata dal vescovo con l’abito viola, lungo fino alle scarpe. Una statua bronzea di san Ciriaco, con i capelli ben curati e il breviario in mano, veniva toccata tra i fumi dell’incenso. L’odore invadeva le navate e la cripta, dove ancora oggi sono conservate le spoglie del santo. Gli anconetani vivevano un momento di gloria, mentre le campane facevano un gran chiasso che si propagava dal colle Guasco fino al porto. Dunque Le case dai tetti rossi è anche la proiezione in una dimensione memoriale che salva dalle dimenticanze, un percorso nella geografia personale, quella degli affetti familiari e del mito dell’infanzia. Un altro aspetto peculiare è incentrato sulla cucina anconetana. Il pranzo di famiglia, a Natale e a Ferragosto, era una festa, specialmente quando nonna Altera preparava il brodetto con gli sgombri, i calamari, le seppie, gli scampi, i merluzzetti e le fette di pane tostato da intingere nel sugo intriso di pomodoro, cipolla e olio d’oliva.


Alessandro Moscè è nato ad Ancona nel 1969 e vive a Fabriano. Ha pubblicato le raccolte poetiche L’odore dei vicoli (I Quaderni del Battello Ebbro, 2005), Stanze all’aperto (Moretti & Vitali, 2008), Hotel della notte (Aragno, 2013, Premio San Tommaso D’Aquino) e La vestaglia del padre (Aragno, 2019). E’ presente in varie antologie e riviste italiane e straniere. I suoi libri di poesia sono tradotti in Francia, Spagna, Romania, Venezuela, Stati Uniti, Argentina e Messico. Ha pubblicato il saggio narrato Il viaggiatore residente (Cattedrale, 2009) e i romanzi Il talento della malattia (Avagliano, 2012), L’età bianca (Avagliano, 2016), Gli ultimi giorni di Anita Ekberg (Melville, 2018, finalista al Premio Flaiano) e Le case dai tetti rossi (Fandango, 2022). Ha dato alle stampe l’antologia di poeti italiani contemporanei Lirici e visionari (Il lavoro editoriale, 2003); i libri di saggi critici Luoghi del Novecento (Marsilio, 2004), Tra due secoli (Neftasia, 2007), Galleria del millennio (Raffaelli, 2016), Alberto Bevilacqua. Materna parola (Il Rio, 2020) e l’antologia di poeti italiani del secondo Novecento, tradotta negli Stati Uniti, The new italian poetry (Gradiva, 2006). Si occupa di critica letteraria su vari giornali, tra cui il quotidiano “Il Foglio”. Ha ideato il periodico di arte e letteratura “Prospettiva” e dirige il Premio Nazionale di Narrativa e Poesia “Città di Fabriano”. Il suo sito personale è www.alessandromosce.com.

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