Nota di lettura a "Parte lesa" di Massimiliano Cappello
- Mario Saccomanno
- 27 giu
- Tempo di lettura: 5 min
Se ci si sporge sulla poetica di Massimiliano Cappello si nota, anche soltanto a primi sguardi sommari, che non ci si trova dinanzi a un semplice esercizio stilistico, né a una mera ricerca armonica.
Al contrario, l’indagine compiuta dall’autore nella sua raccolta Parte lesa (Arcipelago Itaca, 2025) si presenta al pari di un terreno pregno di tensioni, di un largo orizzonte in cui il linguaggio, ricamato sulle affascinanti sfumature dell’alfabeto compositivo, si fa vero e proprio strumento di resistenza e, al contempo, di disgregazione. In merito, nelle pagine che conformano la silloge, Cappello costruisce meticolosamente un suo universo in cui la parola poetica non è mai neutra: ogni verso è una presa di posizione, un rimando, una sorta di atto di sfida nei riguardi delle strutture ben formate. Si tratta di un gesto compiuto sia negli aspetti formali, cioè negli atti che conformano il discorso, sia nella praticità, cioè nelle sfumature della concretezza quotidiana.
Volendo soffermarsi ancora su quanto appena evidenziato, la scelta di utilizzare Parte lesa come titolo appare di per sé già emblematica. È chiaro che il rimando palese e più immediato è alla sfera giuridica, al soggetto che si trova ad aver subìto un danno, un’ingiustizia. Ecco la denuncia sociale e politica che si palesa sin da subito e che si ritrova a più riprese nei contenuti (si pensi, in merito, soltanto come unico esempio, al cammino forzato che emerge da questo stralcio: «Dicono che la prigione sia come una scarpa, ortopedica. Costringe a marciare diritto per le strade di questo mondo. Ma quanto sarebbe bello abbandonarlo? O ereditarlo, come qualcuno ebbe a dire una volta… Ci hanno provato, è andata così»). Eppure, sta qui la chiave di volta della sua poetica: si tratta di definire anche la fragilità, il proprio esporsi, il proprio calpestare la quotidianità; di conseguenza, accanto all’ingiustizia, c’è il soggetto agente che lotta per affermarsi.
È chiaro che un elemento siffatto si lega a stretto giro con quell’architettura linguistica ricercata che porta indubbiamente rigidità al discorso poetico, ma – rispecchiando proprio il contrapporsi della denuncia sociale e, al contempo, della fragilità – anche una certa eleganza.
Ancora, vale la pena riferire che far poggiare le composizioni sui contrasti non è sintomo di un bisogno di giungere a compromessi, ma è un riflettere sulle urgenze. È come se la poesia rispecchiasse una propria sfida, un conflitto (tanto interno, quanto esterno) prima della generazione, aspetto che richiama alcuni principi esposti da Andrea Inglese nella Postfazione del testo.
L’esperienza di Cappello è resa tramite una discussione che mette in dubbio finanche la stessa possibilità del parlare. In questo sono utili i riferimenti, i frammenti, le citazioni disseminate nella raccolta poiché rimandano a quell’idea di stratificazione, di complessità e di conflitto che si richiamava in precedenza.
Conflittualità e confluenza che emergono a chiare lettere anche nel rapporto fra l’io, il soggetto, e l’Altro da sé, la comunità. I tratti poetici coinvolgono entrambi gli aspetti (favorendo, in base alle circostanze, un elemento rispetto all’altro) ma, nel complesso, si ha a che fare con una cifra stilistica che è perennemente imbevuta della difficoltà e della conformazione del presente. Non potrebbe essere altrimenti, dato quanto affermato finora: il conflitto, le zone in cui si svolge l’agire e i tratti del ruminare l’accaduto riflettono il bisogno di esprimere la conformazione del vissuto, soprattutto di quanto si è notato scorrere ai margini del proprio andare.
È rilevante notare, a conclusione, come l’autore non si preoccupi affatto di percorrere un tragitto capace di generare finanche contraddizioni, di dar voce a risultati frammentari o fratture linguistiche.
Ecco che, proprio facendo leva su quanto appena presentato, la poesia diventa allora un mezzo potentissimo per costruire un confronto prima di tutto con se stessi e poi con la realtà. È un utensile che apre alla riflessione e alla crisi. Soprattutto, Cappello mostra come sia lo strumento idoneo per chi si mette sovente in discussione, per chi vuole comprendere a fondo come agire.

Insert coin
Parte lesa I
Dicono che la prigione sia come una scarpa, ortopedica. Costringe a marciare diritto per le strade di questo mondo. Ma quanto sarebbe bello abbandonarlo? O ereditarlo, come qualcuno ebbe a dire una volta… Ci hanno provato, è andata così. Pensa sentirsi dare del borghese con le manette ai polsi solamente perché non te ne sei rimasto a casa, perché non lavoravi. Ecco, guarda che dopo il lavoro e la casa persino sopravvivere è opzionale. «Questo mondo» non ti deve più niente, il vecchio patto socialdemocratico è saltato. Ringrazia che la vita è questa, e che le bombe benedicano altre terre col crisma della storia. Le truppe della quotidianità non portano divise, e sembrano la tua dirimpettaia. C’è da fare delle scelte, o quantomeno correre ai ripari. Sempre che ce ne siano ancora, certo
De te fabula narratur
Tribunale di Milano, 9 novembre 2022
Le scale del palazzo della legge, i tentativi goffi dell’addetto con il metal detector di strappare un sorriso o la voglia dalle ossa, il poco che ci vuole a non capire più nulla, a saperla di nuovo lunga (queste sono le ore diciassette, io sono vivo, tutto quanto esiste, ma se non sai, ti prego, non capire),
e il Merlo che ha lasciato il tascapane al bar, che allampanatamente corre via dalla scena non punito, salta a tre a tre i gradini del giudizio, potesse perdersi dentro alla selva che dà sul corso di Porta Vittoria, riunirsi al Cane, all’Orso, al Lupo, al Gatto e via, al naviglio, picarescamente, scorrazzando poi per le campagne o per le pubbliche vie, gli associati,
dimentichi di un sé fatto di carte, vincolato a quest’aria ineludibile, prescelta, impresso in obblighi, contratti, effigi. Una grigliata sul fiume ogni tanto, verità poca ma tutta per loro. Sì, era questa la compagneria della vita, ma è tardi ormai per fingersi. Quanti lacci d’amore o della sorte li hanno avvinti. In questo rogo senza bruciamento di che credere di essere viventi.
Se lo ripetono spesso, nonostante il rancido, il narcotico, in questo andare sempre verso un altro, un non-esistere.
Teatro naturale di Oklahoma
Tramonta sempre il sole su Bonola (livello angoscia: CARLO MICHELSTAEDTER, che scrisse di quando eravamo veri e senza criterio liberi. Eppure forse un giorno mi ci spessotterò di giustezza da questo piano sesto),
come qualcuno che arrossisce o sbianca al baretto cinese, vero arbitro della politica internazionale, heavy rotation classici ballabili settanta ottanta, a quelle note più di uno si muove, sguardi gioviali e come non vivi del titolare che ci scappuccina, ma non direi diffidenti o sospesi nella nebbia d’argento che i tristi spiriti giustiziati riconforta.
Tenuti insieme dalla strana ipotesi che ciò che sono non lo sono stati ancora: riescono a dirselo solo qui, parlando d’altro per quanto possono non ironicamente spudorati. Questa non è una speranza o un’attesa.

Massimiliano Cappello svolge attività di ricerca presso l’Università di Bologna. Si occupa principalmente di poesia del Novecento, e dei rapporti tra scritture poetiche e critico-saggistiche. Ha curato la riedizione della prima raccolta di saggi di Giovanni Giudici, La letteratura verso Hiroshima e altri scritti 1959-1975 (2022).
Comments