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  • Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Nota di lettura a "Le fuggitive" di Carmen Gallo

Mentre scrivo questa nota di lettura a Le fuggitive (Nino Aragno Editore 2020) di Carmen Gallo ho bene in mente da una parte le parole di Massimo Gezzi che, nell’introdurre i testi di Gallo per il XIV Quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos 2019) – quelli che qui, in forma modificata e ampliata, rientrano nella prima sezione, La corsa – sostiene che «è difficilissimo parlare della poesia di Carmen Gallo»; dall’altra l’accuratissima recensione di Ivano Testa per «Critica Impura», nella quale pressoché ogni elemento di questa raccolta viene sviscerato. Mi trovo quindi sospesa tra il rischio di dire qualcosa di sbagliato o di cadere nella ripetizione; mi si pone cioè, fin da subito, un problema di voce, che potrebbe sembrare inopportuna o ridondante. E, per qualche interessante coincidenza, è proprio la voce l’elemento strutturante di Le fuggitive, la prima corda che occorre tirare per potere ascoltare i suoni scuri e feriti di quest’opera.

La voce della fuga potrebbe essere un urlo che dall’io che lo emette viene lanciato verso un loro indistinto o verso un tu che la accompagna o, al contrario, che l’ha generata; allo stesso tempo si potrebbe pensare a una non-voce, una sorta di silenzio o sibilo sottile che alla fuga fa da cornice. Occorre subito sottolineare che poi, la fuga, intesa come abbandono improvviso di un luogo reale o metaforico, e che di fatto potrebbe avvenire in molti modi, su un elicottero, ad esempio, pensando a molta filmografia, viene primariamente ricondotta nell’immaginario comune alla corsa, a un moto corporeo di spostamento veloce. Da uno spazio a un altro spazio, in un tempo che dovrebbe essere rapido, la fuga prende corpo ed emette il suo suono, da un io-tu a un noi-loro. Le prime due sezioni della raccolta, La corsa e Le fuggitive, attraverso una voce che resta celata ma che incessantemente lascia udire la sua presenza, sono infatti il cronotopo in cui il binomio identità/alterità si muove, dove cioè la fuga si concretizza. In altre parole, Gallo trasforma il luogo della pagina in spazio di movimento, rendendo la poesia la grande-voce di chi la fuga la sta compiendo; e non importa se «chi parla usa i pronomi per nascondersi», come nella nota in calce all’opera specifica l’autrice stessa in riferimento alla seconda sezione, perché ciò che conta non è svelare la pluralità identitaria ma, appunto, darle voce nel momento in cui la voce rischia di diventare stridula o di farsi muta.

Lo schermo pagina-poesia e quello legato all’inidentificabilità delle identità non sono però gli unici filtri che Gallo interpone tra sé e il lettore, poiché bisogna considerare anche il voluto ricorso all’elemento rituale che, nella fattispecie, si esplica nel riferimento al gioco dell’ephedrismos, su cui la prima sezione viene costruita: esso non solo serve da espediente per rendere ancora più incerta la determinazione del punto di fuga e di quello della sua origine, ma pone su un piano temporale altro lo smarrimento generatosi invece nel presente, nell’hic et nunc di un teatro e di una scrittura di influenza beckettiana. Il processo di alterazione posto in essere da chi scrive e che si traduce, in chi legge, in un senso di straniamento, viene riproposto anche nella seconda sezione, dove è l’elencazione di luoghi a determinare una sensazione di asfissia e, dunque, di spaesamento; se non fosse che il respiro, da intendersi come possibilità di fuga e cioè di vita, è possibile solo in funzione della memoria di quei luoghi, del suo serrato processo di nominazione.

Un tentativo di soluzione viene proposto nella terza e ultima sezione intitolata, non a caso, Uscirne vivi, dove il cambio di voce è evidente innanzitutto dal passaggio alla prosa, se si esclude l’ultimo componimento di questa parte. Ventidue piccoli gioielli di scrittura, pervasi di quotidianità e di storia che, come degli exempla, propongono dei modelli di (presunta) salvezza, ovvero di fuga andata a buon fine; in essi, in effetti, si allenta la tensione narrativa, eppure Gallo non si esime, nemmeno qui, dal non fare acquietare quell’inquietudine che pervade tutta l’opera. Del resto «tutto questo è assurdo, e non vale la pena», si legge nel testo conclusivo e forse, più che fuggire, conviene tenersi tutti forte alle corde dell’altalena.

Una raccolta notevole, quella di Gallo, capace di creare l’illusione di uno spazio grande, disponibile per la fuga, in un luogo, invece, strettissimo e spigoloso, dove la voce che chiama si fa eco di sé stessa e, un po’ come nella nostra società, rischia di lasciarci intrappolati, se permane nella sua sterile incapacità di pronunciare autenticamente la parola Altro.



Abbiamo tracciato un cerchio

circoscritto il perimetro del gioco

stretto abbastanza da restarci

il tempo necessario. Abbiamo scelto

la pietra più grossa, l’abbiamo affondata

bene con le mani. Non ci siamo parlate.

Non ci siamo guardate. Una alla volta

abbiamo solo cominciato a tirare.


*


Siamo in un’automobile, in una centoventisette, in una strada che conosco. Io sono seduta dietro, ho i polsi legati, non è vero: bevo un succo di frutta con la cannuccia. Abbiamo cinque anni, forse sei, lei ti tiene per i capelli, ti tira forte i capelli mentre guida. Ti costringe a stare giù, più giù, sopra il cambio. Mi controlla dallo specchietto retrovisore, ma io non dico nulla. Non siamo così stupide. Nessuno urla, nessuno la ferma, e lei tira più forte.


*


Tornare in superficie

come bocche di colpo spalancate

animali finalmente anfibi.

Dimostrare di avere imparato

il doppio respiro, a stare e restare

nello spazio indiviso dove le cose

accadono e basta. In questo gioco

chi si cerca e chi si nasconde

hanno la stessa faccia.

La paura costringe a forme di vita

innaturali, costringe a stare

nella durata di un altro.

Impossibile prendere aria.

Restituire la paura, lasciarla

sulla soglia di casa e dire

puoi tenerla o nasconderla in giardino

prima che il tempo e lo spazio propaghino

la sua forza. È novembre. Ho trentasei anni.

Mi porto dietro tutti i miei luoghi.

Faccio attenzione a non dimenticarne nessuno.


Uscirne vivi #4

Certe malattie

Una mattina la madre di T., affetta da Alzheimer, si è alzata, si è vestita ed è uscita per raggiungere a piedi la casa in cui viveva con suo marito. La famiglia che le ha aperto, notoriamente dedita a

traffici illeciti di grande portata, l’ha fatta entrare, le ha preparato il caffè e ha avvisato il figlio che lei era lì e stava bene, e che non c’era fretta di venire a riprendersela.



Uscirne vivi #6

La cura dei morti

Il cimitero era uno dei luoghi preferiti di mia madre. Era lei, nella sua famiglia, deputata alla cura dei morti. Non alla loro memoria, ma alla loro cura materiale: passava giornate intere al cimitero quando c’era da spostare vecchi ospiti per far posto ai nuovi. Lei andava, li sistemava, li salutava. Al ritorno ci raccontava sempre

di come li aveva trovati, più o meno rovinati, e sempre ci diceva con soddisfazione di sua sorella, Maria, morta di tifo a diciotto anni, che aveva ancora tutti i capelli.


Uscirne vivi #19

Taichi

L’anno scorso la sorella di A. si è lanciata dal primo piano. È stata in coma per due settimane. Difficile che morisse, ma si temevano danni fisici e cerebrali. Invece piano piano si è svegliata, e giorno dopo giorno tutto funzionava. Il medico ha fatto delle domande alla famiglia per capire come fosse possibile. Tra le varie spiegazioni c’è che la sorella di A. ha studiato per molti anni arti marziali, e che il suo corpo, più della sua mente, abbia imparato la disciplina del cadere senza farsi troppo male.


Carmen Gallo ha pubblicato tre libri di poesia: Paura degli occhi (L’Arcolaio, 2014), Appartamenti o stanze (Edizioni D’If, 2016, Premio Castello di VillaltaGiovani 2017), e Le Fuggitive (Aragno 2020, con una nota di Andrea Cortellessa). Nel 2019 è stata inclusa nel Quaderno di poesia contemporanea a cura di F. Buffoni (Marcos y Marcos), e nell’antologia europea Grand Tour. Reisen durch die junge Lyrik Europas, a cura di F. Italiano e I. Wagner (Carl Hanser Verlag). Nello stesso anno una scelta delle sue poesie è stata raccolta nell’antologia tedesca Die Maulposaune. Gedichte aus Italien, a cura H. Thill e C. Caradonna (Das Wunderhorn 2019). Ha scritto sulla poesia metafisica inglese (L’altra natura. Eucaristia e poesia nel primo Seicento inglese, 2018), e ha curato e tradotto Tutto è vero, o Enrico VIII di Shakespeare (Bompiani 2017). Insegna letteratura inglese alla Sapienza Università di Roma. Vive a Napoli.


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