Nota di lettura a "Così com’è, così com’è stato" di Davide Gallo
La morte è la curva della strada
La morte è la curva della strada,
morire è solo non essere visto.
Se ascolto, sento i tuoi passi
esistere come io esisto.
La terra è fatta di cielo.
Non ha nido la menzogna.
Mai nessuno s’è smarrito.
Tutto è verità e passaggio.
Fernando Pessoa
«Tutto è verità e passaggio», scriveva Fernando Pessoa. E di verità e di un passaggio, o meglio di passaggi, mi sembra nutrirsi la poesia di Davide Gallo che esordisce nel 2024 con la raccolta Così com’è, così com’è stato, edita per Vallecchi Editore. Sono versi che ci conducono nel mezzo di una frantumazione, di uno strappo, al centro del suono lieve e insieme roboante dello sgretolarsi che fa il passaggio di una vita. La vita di una madre che «è stata corpo / anche prima», corpo prima di morire, corpo ancora di più mentre ritornava nell’aria. Aria: un termine che ricorre ben ventisette volte all’interno della raccolta quasi a ribadire, a confermare, a scongiurare quello che c’era, il soffio dell’elemento che ci occupa mentre sconfiniamo la vita. Quello che nel corpo di chi muore non c’è più trasmigra nei versi, nella poesia, nella dialettica tra realtà e magia, tra ciò che è dolore e ciò che è dolce e incantato ricordo, nella ricongiunzione ostinata dei livelli del tempo. Lo spazio poetico di Gallo si muove tra poli tensivi mai in disaccordo: non c’è repulsione tra l’estremo dato di corporale realtà e il fulgido sostrato magico mistico in cui si muove e ci fa muovere. Seguiamo le tracce sempre convinti che quella in cui ci stiamo immergendo è e non può che essere verità: la verità di corridoi, di lumache, del «baco d’intralcio sul basilico», di bambini «travestiti d’ortica», di ospedali e di mani «ad uncino» che «inchiodano i desideri»; ma verità è anche la nonna-maga, la madre-strega, la sorella-bambina e tutti i sortilegi sonori, ritmici e imaginifici volti a lenire «il crollo misurato dentro i giorni». Una lacerazione che si stira investendo tutto e tutti, che scombina e squaderna coordinate spazio-temporali. Il punto esatto della resa è ora, è ieri, è domani, è sempre eppure non è stato mai. Perché quello che è, è così come è sempre stato, granitico, inesorabile, inespugnabile, fermo nel ricordo; eppure irrimediabilmente niente è più così com’è stato. Lo snodo del lutto, pervasivo, che sembra essere arcanamente presagito sin dalle notti dell’infanzia diviene nei versi di Gallo non movente di disgregazione semmai l’aria, il respiro sul quale risintonizzarsi, il confine da cui prendere fiato. Non sono lembi sfilacciati dal dolore i versi di Gallo, semmai orli, margini, bordi, soglie di tante porte comunicanti dalle quali e per le quali si rinsaldano in un momento luci e ombre, buio e bagliore. Affacciati a queste soglie siamo noi che leggiamo, che siamo come «spiriti minuti che sorvegliano / gli angoli dei corridoi dai bordi / delle mensole», protesi al precipitare, tesi nell’incedere del ritmo tragico, eroico eppure materico, addensato come a riproporre l’agglomerato nucleo di quella che è una sconvolgente verità. In questa raccolta mi sembra ci sia il tentativo di riannodare il presente all’infanzia, e l’infanzia al presente quasi a cogliere i segni di una predestinazione di una pre-figurazione delle cose che saranno e che ormai sono. E sono ora, come allora erano, anche e già nel passato. Un cammino a ritroso, un viaggio di ritorno a casa e al tempo una fuga da essa che finiscono per costituire una figura ciclica. Se una figura c’è infatti in questa raccolta è nella geometria del cerchio che proprio laddove sembra frantumare la perfezione della sua forma, proprio lì si compie, rinsalda la sua curvatura. È nel e dallo stralcio, nel e dal lacerto che si apre e torna il romanzo di iniziazione e formazione in versi di Gallo. È nel «dramma delle cose in bilico / tra l’essere perse e ritrovate», che ci scopriamo essere «a brandelli negli occhi dei grandi». Nei righi di versi, nel mezzo della frana, in apnea «come le gallerie staccano l’estate dagli occhi», muoviamo con Gallo verso la convinzione che «tutta la terra ha un prezzo», un prezzo che il poeta ha ripagato nella visione della sua poesia.
Eravamo a brandelli negli occhi dei grandi
scartati dalle loro fitte mani. I loro anni
una vertigine ogni tanto che allentava
la magia e la paura si faceva spesso
tremore.
Ma a noi, coi nostri fianchi
sembrava di poter entrare dalla serratura
e questo bastava – origliare le messe
distinguere i trambusti e le violenze
non è cosa da bravi e i curiosi
sono sempre puniti nelle storie dei padri.
Dov’erano gli spiriti minuti che sorvegliano
gli angoli dei corridoi dai bordi
delle mensole, dalla punta delle spighe
noi lo sapevamo. Nessuno ci credeva
qualche poco di buono
che prendeva una strada più corta
lo aveva capito, ma troppo tardi
per tutto il giorno poi se ne stava
a osservare i passanti
nascosto tra le lumache.
Sapevamo anche che se resti
è perché non sai di essere morto.
Ci vuole una strega che sappia parlarti
lanciando una mano di terra
a indicarti l’istante del salto. Altre volte
devi scappare perché neanche dopo
i vivi ti lasciano in pace.
*
Tra le tue vertebre
tradite in ogni piegamento
io appoggio le dita
che ad ogni dorsale ritiro dall’aria
nell’inconcludenza di un gesto che resta
nel dio dagli occhi di pietra che sotto
nasconde il fango di tutta la storia.
Sono il sangue nero della nascita
senza morbidezza mi fermo
in te come tu ti fermi nell’orda
di letti che a scatti ti tirano su.
Sei la forma che non si rigenera
la bambina esausta dall’onda
la cabala
con la testa dei merli sul piano
e sotto le mani che tengono il pianto.
Davide Gallo, classe 1996, è laureato in Lettere Moderne. Vive attualmente a Bologna per completare il corso di Italianistica ed è socio attivo del Centro di Poesia Contemporanea dell’UniBo, all’interno del quale organizza – insieme agli altri membri – seminari dedicati alla poesia.
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