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Immagine del redattoreValentina Demuro

Le Interviste Doppie di Alma: Eva Laudace & Cinzia Marulli "sull'infanzia"

Aggiornamento: 30 ott 2022

Raccontare la dimensione dell’infanzia non è mai un lavoro semplice. Questo universo richiede uno sguardo attento e sensibile, capace di cogliere le luci, i misteri, l’alterità e le ombre che vivono nell’interiorità di un bambino, impegnato nel viaggio alla scoperta di sé stesso (Antonio Faeti consiglia di vedere lo stesso slancio fantasioso in La più bella di Gozzano, il poeta delle rose non colte). Ancora più difficile è raccontarne la tragedia di una violenza, con la sua ferocia, la sua insidia, il suo veleno che intacca a posteriori le declinazioni della vita. Ma Cinzia Marulli (Autobiografia del silenzio – L’orco e la bambina, edito da La vita felice) ed Eva Laudace (Le bambine dai capelli rossi – una favola teatrale, edito da Capire Edizioni), con il prezioso strumento della poesia che trasla e tramanda l’indicibile, riescono in questo intento, offrendoci due libri tremendi e bellissimi. Se per Marulli la poesia si fa testimonianza e sopravvivenza, fiore nero che si schiude per congedarsi dal dolore e portare un coraggioso messaggio di luce, con Laudace si costruisce una scena fiabesca che intreccia i temi dell’affetto e dell’abbandono, delle identità che si fanno specchio e rovescio. In entrambe le raccolte, sarà l’amore la chiave che aprirà le porte oscure del segreto, svelando la colpa, il volto e la miseria dell’uomo nero.


Eva Laudace

Cinzia Marulli

Il tema è davvero delicato, insieme feroce, complesso. Chiedo, quindi, che cosa abbia accompagnato l’iter della raccolta (suggerimenti, libri, altre voci poetiche), se ci siano stati ripensamenti, inversioni di marcia o sviluppi diversi dalle intenzioni e dalle emozioni del punto di abbrivio.


E.L.: Le bambine dai capelli rossi sono nate sotto un mantello performativo, volevo affrontare il tema della diversità facendomi portavoce di una minoranza. Ma la poesia ha declinazioni misteriose, strade tutte sue, noi possiamo solo tentare di imboccarne qualcuna mettendoci in ascolto e attivare il sesto senso per orientarci. Dopo la condivisione della prima stesura in alcuni circoli e festival (*),il confronto con il mio pubblico ne ha ampliato e orientato decisamente la scrittura, pizzicando il capo della favola, matassa che si è magicamente sciolta.


(*) Turba di Lugano, Festival della Fiaba di Modena, Festival delle Letterature dell’Adriatico di Pescara


C.M.: Scrivere Autobiografia del silenzio è stata una necessità interiore. È sorta come scrittura privata, riservata a me stessa. Ho portato dentro di me il segreto della violenza subita da bambina per tutta la vita, ma dopo la morte di mia madre, nel 2013, ho sentito l’urgenza di scriverne e così facendo ho elaborato, attraverso la parola, il dramma, trasformando pian piano la ferita in cicatrice. L’idea della pubblicazione è nata alla fine, improvvisamente, ma anche naturalmente perché ho sempre creduto nel valore politico della poesia. Tuttavia ero molto incerta e allora ho chiesto consiglio ad alcuni stimati e amati amici poeti, ho fatto lo stesso con il mio direttore editoriale. Dopo un mese Autobiografia del silenzio è stata pubblicata.


Si notano delle distinzioni molto nette tra le sezioni: per raccontare l’orrore e il dolore si sceglie la forma del verso poetico, mentre altre parti si sviluppano in diverse soluzioni (ad esempio, in Marulli, abbiamo quasi una prosa poetica per il racconto antecedente all’episodio di violenza, in Laudace, incontriamo una sospensione dedicata alle canzoni da culla). Qual è il motivo di questo cambio?


E.L.: La poesia a volte può essere un ponte per oltrepassare quella soglia, guardare in faccia il dolore e proseguire il nostro viaggio in una direzione trasformativa. Spesso restiamo bloccati dalla paura, dimentichiamo quanto il nostro percorso sia unico e prezioso. Dimentichiamo di avere un tempo preciso che non conosciamo. Sicuramente è un richiamo per risalire dagli abissi in cui precipito. Alcuni anni fa mia madre ha trovato una bambola dai capelli rossi che mi somiglia particolarmente e me l’ha regalata, l’ho portata con me in scena senza pensarci troppo, le ho dato alcune funzioni simboliche nel mio recitato. Il transfert nel libro è stato immediato, posso dire intuitivo, come un ventriloquo con in mano la sua bambola le ho restituito la voce nella piccola sezione Canzoni di culla. Dentro ognuno di noi c’è quel ritmo primitivo e nascosto che risuona, il ritmo dell’infanzia.


C.M.: Necessariamente i vari momenti dell’elaborazione hanno richiesto stili e modalità differenti. Parto dal presupposto che la mia personale ricerca linguistica mi porta verso quella che chiamo “la parola chiara”, ovvero una parola poetica che sia sintetica e assoluta, che illumini e che penetri. Sulla base di questa modalità linguistica ho poi articolato con stili e toni differenti le varie sezioni del libro a seconda della specifica situazione rappresentata. Ad esempio nella sezione Il prima è come se fosse una bambina a scrivere e per questo ho usato una prosa semplicissima, quasi un parlato. Invece nella sezione L’orco e la bambina torno al verso, ma con tono grave, serio; così nella sezione Il dopo il verso, pur rimanendo grave, diviene più riflessivo.


La figura della bambola e quella dell’uomo nero (o dell’orco) vengono scelti come simulacri per indicare la vittima e il carnefice. I richiami alle figure, alle atmosfere e ai topoi delle fiabe più cupe aiutano a raccontare ciò che non si può dire, fungendo da specchio narrativo. La questione dell’identità, il suo mutare, sporcarsi, sgretolarsi e ricomporsi (capelli tagliati, il mostro come principe o vecchio o bambino) attraversa i testi e rivela la crisi del sé che tutto precipita. Nella tragedia, i margini dei soggetti non sono più definiti, quasi si toccano per osmosi. La bambina è sporcata dalla colpa del mostro. Come riesce l’amore, unica forma di luce in questo buio, ad aiutare, a ricucire o a ripristinare l’interezza di una creatura così spezzata?


E.L.: In apertura all’ultima sezione del libro L’uomo nero e le bambole ho scelto un verso ben preciso Sono stato una bambina dai capelli rossi. Il male si è impossessato di ogni cosa, figura ed elemento simbolico che ho usato, conserva la memoria di tutto ciò che è stato prima di diventare altro da sé. Il male è una scelta che chiunque di noi può agire scientemente. E non sempre i mostri si nascondono nel buio, alcuni sorridono allegramente. Fin da bambina ho preferito l’amore e continuo a farlo, credo nella sua forza salvifica, forse sono solo l’ultima delle romantiche. Ma non è banale, sbaglio continuamente. Non si può restare interi - mai - e la frattura non si ricompone. Restiamo scomposti così. Se oggi sopravvivo è solo per aspettare l’ultimo amore. L’Achmatova in La corsa del tempo avrebbe detto Perdona, perdona quei troppi scambiati per te.


C.M.: Non è di certo facile rispondere a questa domanda. Capire come “l’amore” possa in qualche modo guarire una ferita così profonda e indelebile non è cosa che appartiene alla ragione. E non è detto poi che questo amore ci sia sempre. Io credo che riuscire a trovare l’amore dentro di sé, malgrado tutto ciò che avviene fuori, sia un dono, una capacità innata o forse può essere anche una conquista attraverso un percorso interiore. Non ho queste certezze, e tantomeno tanta sapienza, ma ho delle convinzioni, ovvero che il bene porta sempre il bene, magari non subito, non dove ce lo aspettiamo, ma prima o poi nel luogo più inatteso il bene torna. L’amore, se c’è potrà aiutare a ricucire una ferita e rendere la cicatrice addirittura bella, ma nulla potrà mai cancellare il buio. Il segreto non credo risieda nel dimenticare, ma nell’accettare quel buio e trovare così la forza e il coraggio di aprirsi alla luce.


La bambina perde l’integrazione con il gruppo sociale di riferimento e porta da sola l’oscenità di un peso segreto, così come, per altri motivi, accade per l’uomo-orco-uomo nero. In questo senso, è molto indicativo lo sguardo delle altre bambole-bambine che non vogliono vedere e non sanno vedere, o di altre figure che non possono aiutare (come nel caso della seconda bambina per Laudace). Oltre a quello fisico e psicologico della violenza, l’impossibilità della comunicazione è forse uno dei drammi più dolorosi che viene percepito nei testi e che, sedimentando nella paura della bambina, intacca e deteriora le esperienze e gli affetti nel suo percorso di vita. Potresti approfondire questo tema?


E.L.: La cosa segreta cominciò a crescere/ cresceva dentro di me anche senza le sue cure.// Le altre bambine mi guardavano sempre con sospetto. Quanto è potente il “noi”? Quanto dall’altro lato esclude chi non ci è simile? La bambina violata viene tenuta a distanza ma non ne capisce il motivo, è isolata ma non potrà comunque nascondersi. Andrà incontro ad una separazione dolorosa, ma necessaria per crescere. A volte cerchiam odi ripararci attraverso gli altri, vorremmo risposte che non sono in grado di dare ma che possiamo trovare ferme in noi. Forse non è possibile toccare davvero il fondo di un altro senza provare lo stesso dolore, allora si guarda altrove, si fugge via. I nostri occhi invece si abituano al buio e lentamente torniamo a scorgere il bello. Quanto è importante la parola per un poeta? La parola è tutto, anche per me.


C.M.: Secondo me non si tratta di “impossibilità” di comunicazione, ma di “incapacità” derivante dal senso di colpa e di vergogna provata dal bambino violato che si sente sporco e immeritevole di amore. O comunque per me è stato così. Nel testo di apertura del libro ho affrontato immediatamente questo tema ed ho scritto: “per poterne parlare/ha dovuto perdonare/ ha dovuto imparare ad amare/”. Dunque due sono gli elementi fondamentali: l’amore e il perdono. Ma sono conquiste difficilissime. Si deve perdonare sé stessi in primis e imparare ad amarsi. Questo senso di continua inadeguatezza, questo sentirsi sempre immeritevoli inevitabilmente influenza la vita, condiziona nelle scelte, fa fuggire davanti alle opportunità perché non ci si sente degni.


Ringraziando per averci accompagnati in questo percorso, ti chiedo di indicarci tre testi tratti dalla raccolta oggetto di questa intervista che ritieni particolarmente significativi o importanti, raccontandoci anche il perché.


E.L.:


(dalla sezione La bambina dai capelli rossi)


Le facevo gli scherzi a volte

la facevo ridere

oppure si spaventava

se le tiravo i capelli

piangeva «Così mi fai male».


Mi faceva gli scherzi a volte

ridevo

oppure mi spaventavo

se mi tirava i capelli

piangevo «Così mi fai male».


Soffrivamo il solletico

e si toccavano in segreto

i nostri denti azzurrini.


Quant’odio nell’amore. Quanto amore, nell’odio… scriveva Caproni. In questa poesia c’è come uno specchio misterioso, un legame giocoso ed infantile tra due donne, sorelle o amanti.


*


(dalla sezione L’altra bambina)


Le bambine che non sanno amare

sono animali che nascono ciechi

e restano appesi

a testa in giù

somigliano ai pipistrelli.

Ti rompono le ossa giocando

come nel buio sbattendo

l’una contro l’altra.


Le bambine che non sanno amare non saranno mai in grado di farlo, non obbediscono a quella unica grande legge interiore. Loro non crescono, sono come animaletti che si somigliano, provocano identiche ferite, bieche rotture, agiscono gli stessi abbandoni coatti, saranno incapaci di vedere per la vita.


*


(dalla sezione L’uomo nero e le bambole)


La prima bambola che ho fatto

è stata mio padre

ma senza quei baffi

era mio padre e non mi voleva.


Coperto di api ripeteva

«Quando meno te lo aspetti sparirò».


I primi due versi provengono da una intervista ad AyanoTsukimi artista giapponese che ha voluto ripopolare con centinaia di bambole il villaggio dove era nata Nagoro, ora The Valley of Dolls, rimasto quasi interamente disabitato. Questa poesia si chiude con un avvertimento fatale, fornisce una leggibilità ancestrale a ciò che di violento e irreparabile accade nella storia. Tendiamo a spiegare ogni cosa che non siamo in grado di capire con la malvagità. Ma la realtà non è così semplice.


C.M.:


Non è facile selezionare tre testi dal mio ultimo libro per vari motivi. Prima di tutto perché già nella compilazione del libro ho incluso solo quei testi che ritenevo indispensabili. Considerata la tematica affrontata ho ritenuto necessario, infatti, per non cadere in retoriche e patetismi, non solo la sintesi poetica e l’asciuttezza del verso ma anche selezionare solo un numero limitato di testi che concentrassero la tematica e il sentire che la tematica nelle sue varie fasi affronta. Secondo motivo è che sono particolarmente legata ad ogni testo. Però la scelta è d’obbligo quindi vi propongo questi tre testi che in qualche modo rappresentano il passaggio dalla ferita alla cicatrice.


sentire quelle mani

sempre

scavare la pelle


il dolore nell’anima


camminare soli

guardare oltre


sperare nel vuoto

desiderare

non sentire più

quel fragore

che insanguina


dimmi tu - dimmi

ci sarà un giorno

il bianco velo della resurrezione?


*


non c’era sapone - niente acqua -

per lavare via

l’ombra sudicia sulla pelle

la pelle impaurita dalla carezza

che ha il volto mostruoso di satana


ma la bambola le dimenticherà

quelle mani sporche

che l’hanno portata nel silenzio

interno delle costole


il suo biancore immenso

rende luce tra quel nero

e l’avvolge nel suo stesso bene

quel bene ha per combattere

e quella pura essenza di bambina


niente reggerà il peso del mondo

- atomi più grandi delle molecole -

ognuno trova poi il suo riparo

quel luogo sicuro e sacro dove

non sentire


*


Quello che è stato è stato

il male è indietro


la vita ha vinto sulla vita

nell’interno la luce

ha dipinto di sole

la cicatrice


nessuno ha potuto offuscare

l’amore

quell’amore che cresce

nel mio grembo

e che ha il volto meraviglioso

del bene



Eva Laudace, nata a Vasto nel 1983, è ingegnere e fotografa. Vincitrice di InediTO-Premio Colline di Torino nel 2013 con Tutto ciò che amo ha dentro il mare (La Vita Felice, 2013) ha pubblicato inoltre i libri Sua altezza di baci (Capire edizioni, 2018), Stelle di sedicesima grandezza (Alla chiara fonte, 2019) e Le bambine dai capelli rossi (Capire edizioni, 2022). Suoi testi sono stati tradotti in spagnolo e portoghese e sono apparsi in diverse antologie e riviste tra cui Atelier, Post ’900, lirici e narrativi (Giuliano Ladolfi Editore, 2015) e Centrale di transito (Giulio Perrone Editore, 2016). Fa parte del Consiglio Direttivo del Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. Il suo sito è www.evalaudace.com


Cinzia Marulli è nata il 6 marzo 1965 a Roma dove vive e lavora. Organizza e coordina eventi e incontri culturali con la finalità di diffondere la poesia. È fondatrice e curatrice della collezione di quaderni di poesia Le gemme (Ed. Progetto Cultura) e del blog letterario ParolaPoesia. Inoltre è curatrice della sezione di poesia ispano-americana per le Ed. La vita felice insieme al poeta cileno Mario Meléndez e con la collaborazione della Fondazione Vicente Huidobro ed è collaboratrice della rivista cilena Altazor per la quale cura la rubrica “Nuova Poesia Italiana”. In Italia ha pubblicato i libri di poesie: Agave (LietoColle - 2011) con prefazione di Maria Grazia Calandrone; Las mantas de Dios (Progetto Cultura - 2013) in edizione bilingue italiano–spagnolo con traduzione di Emilio Coco e prefazione di Mario Meléndez; Percorsi (La Vita Felice - 2016) con prefazione di Jean Portante; La casa delle fate (La Vita Felice 2017) con post fazione di Marco Antonio Campos. Nel 2021 è stato pubblicato in Spagna il suo libro di poesie “El sentido blanco de las nubes” per le Edizioni Valparaíso con traduzione di Emilio Coco.

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