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  • Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Le Giovani Interviste di Alma: Anna Ruotolo

Continuiamo con Anna Ruotolo lo spazio di "Le Giovani Interviste di Alma", dedicato alla messa a fuoco del pensiero e della poetica di giovani autrici e autori talentuosi.



«La materia prima è il vissuto dell’autrice che narra gli accadimenti con prosa elegante, intensa e coinvolgente: storie, eventi, incontri, amori più o meno impossibili, emozioni, sensazioni che ogni persona può riconoscere e sentire vibrare dentro di sé. I frammenti narrativi brillano nella costel­lazione in cui sono inseriti e si richiamano l’un l’altro (con luce più o meno vivida a seconda della distanza fra loro) facendo di queste pagine una mappa di vita.»: così scrive Alessandro Ramberti nella prefazione a Le stelle dormono a Nord (Fara Editore, 2021), raccolta di racconti dove, in effetti, la parola diventa astro, fonte luminosa capace di fendere il buio e tornare a rischiarare le cose, rendendo meno complicata la continuazione della nostra percorrenza.

Credi ci sia anche questo tra i compiti della letteratura? Allo stesso modo tra poesia e narrativa?


Sì, credo che per tutto il tempo noi rielaboriamo. Si dice “elaborare un lutto”, per esempio, ed è vero: l’essere umano ha bisogno di realizzare, riflettere, comprendere. Il passo successivo, però, che a volte ci sfugge, è quello della rielaborazione costante. È un movimento che svicola dalle evidenze eppure accade: rielaboriamo continuamente quello che abbiamo vissuto attraverso la lente delle nuove esperienze, dei nuovi accadimenti, a volte – se siamo fortunati – aggiungendo consapevolezza o agendo secondo la conoscenza immagazzinata, altre volte andando a rianimare vecchi dolori o ferite i quali, comunque, non avranno mai la stessa sfumatura o lo stesso spessore di quando sono apparsi per la prima volta. Chi scrive poi, e qui dico il secondo sì, porta con sé questa rielaborazione senza nemmeno rendersi conto. Il più delle volte, questo movimento passa dalla poesia alla narrativa e viceversa, diventando l’una nei confronti dell’altra strumento per arrivare a una nuova sintesi dalla quale poi ripartire.


Questa appena passata eravamo nella mia piccolissima casa di Milano, co­moda per vivere nel numero di uno ma dove ogni spazio è stato calcolato, dal principio, anche per te. Non l’hai vista mai, e nemmeno in sogno.

Si svelava, pezzetto per pezzetto, e diven­tava più grande. Gli oggetti che mancano sbucavano da anfratti e coperture tirate via, lanciate in alto nell’aria.


Questo è un brevissimo estratto del racconto “Balena”, contenuto in Le stelle dormono a nord e qui si delinea con chiarezza quella cifra che, mi sento di dire, ti appartiene tanto nella scrittura in prosa quanto in quella poetica: la capacità di conferire a oggetti e luoghi un’identità così forte e carica di pathos che essi, al pari di un essere vivente, smettono di essere inanimati per partecipare totalmente e in prima persona alle vicende dei micromondi che tu così sapientemente sai costruire.

Cosa rappresentano, allora, per te oggetti e luoghi? Di chi si fanno portavoce?


Mi piacciono molto le case vissute, gli edifici antichi, i locali che contengono arredi di recupero: credo portino con sé delle storie, se vuoi vederle. Sicuramente è una questione di atteggiamento, è decidere di mettersi a osservare e poi in ascolto. Quando tocchiamo un oggetto o torniamo infinite volte in uno stesso luogo, pratichiamo una sorta di appartenenza a quelli, come se deliberatamente decidessimo di destinare loro una parte della nostra storia. E poiché luoghi e oggetti possono durare molto più a lungo di noi, possono incarnare una mappa parlante dove cercare e trovare indizi utili per conoscere le storie perdute nel tempo. Mi viene in mente il libro di Maria Grazia Calandrone, Dove non mi hai portata (Einaudi, 2022), in cui la scrittrice torna sui luoghi dove la madre mai conosciuta ha trascorso i suoi anni e poi i suoi ultimi momenti. Diventa, insomma, una rabdomante della parola nascosta, e poi dell’intento e della storia mancata, restituendoli in un romanzo.


Nella tua opera Telegrammi (’round midnight edizioni, 2016), impreziosita dalla traduzione in spagnolo di Jesús Belotto e dalla postfazione di Giovanna Rosadini, come anche il titolo lascia intuire, il verso si fa breve, la strofa corta e tutto è contenuto in poche parole, cariche, pregne, intense; in una società dove il verbum si muove tra assenza e abuso, ecco che la buona poesia ci ricorda l’importanza della corrispondenza significante/significato, il prisma valoriale del suono, l’articolazione del costrutto.

Quale ruolo riveste per te la ricerca della misura? Cosa, in Telegrammi, ha fatto rimanere in pari i piatti della bilancia?


Trovare una misura è il risultato di un processo dove provi a togliere ogni parola che si attarda a specificare, come se le altre che la precedono fossero troppo deboli per affermarsi da sole. Bisogna ridare alla parola forza e anche la sua dignità e per farlo occorre provare, almeno una volta, a dire tutto in poche battute. Non sempre si riesce, non sempre viene bene e, infine, non sempre è la soluzione giusta. Ma resta un esercizio di forza, una prova di equilibro che prima o poi dobbiamo tentare. Credo che in Telegrammi più la parola giusta si avvicinava al concetto, più la brevità abbia avuto ragione. Ma i piatti della bilancia sono andati in pari, spero, rinunciando a dire tutto, provando ad andare nel cuore del problema, sia di linguaggio che di significato. È stato un esperimento fatto prima fuori, nel mondo lavorativo e sociale, tra gli impegni e lo svago, testandomi sui famosi tre minuti che ti danno per parlare in una conferenza o gli iniziali centoquaranta caratteri dei primi tweet, o i due minuti di attesa tra una metro e l’altra, o quel minuto (ora diventato trenta) per registrare un messaggio in Messenger. La realtà aiuta moltissimo il pensiero e, dunque, l’espressione artistica, a patto che sia la seconda a trovare la sua voce e non la prima a ridurla a schema e paradosso.


Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti.

Partendo anche dai tuoi testi, contenuti nel volume di studio Distanze obliterate. Generazioni di poesie sulla Rete (Puntoacapo Editrice, 2021), qual è la tua posizione a riguardo? Come vedi il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?


Non possiamo ignorare che con l’avvento del web le poesie viaggiano a una velocità maggiore e, geograficamente, riescono a raggiungere luoghi prima troppo lontani e a creare tavoli di discussione. Parlo, prevalentemente, del lavoro contemporaneo, ma anche di quello già raccolto e antologizzato. È un punto interessante, questo, perché aprirebbe una riflessione sullo scenario di quanto, adesso, un testo riesce a completare il suo primo ciclo di apparizione e accettazione, prima di diventare archivio vivo ma dato. Anche se questo, forse, è un discorso a sé. Quello che mi sento di dire è che, certo, tutto è vissuto fuori dallo spazio sensibile ma non per questo meno funzionale. Forse si perde la sacralità dello scambio pienamente reattivo, perché schermi e avatar ci sollevano dalla responsabilità di somigliare a quello che scriviamo, semmai decidessimo di far aderire la nostra vita alle nostre parole. E dunque si fa più fatica ad arrivare alla misura delle cose, alla loro vera manifestazione. Ma, come ho detto in un’altra occasione, possiamo provare ad avere questo e quello (almeno questa è stata l’illusione di noi Millennials a inizio anni duemila) tentando lo sforzo di usare il web come se stessimo fisicamente in una piazza pubblica. Una qualche spiegazione della bontà di questa dimensione l’ho data nella risposta qui sopra, dove anche un lavoro letterario può (e finisce per) prendere spunto dalle piattaforme dove ogni giorno inseriamo dati, stimoli e tempo e anche dalla velocità con cui questo accade. Il limite, secondo me, è uno: non si può pensare la poesia soltanto in una dimensione così liquida e istantanea. Occorre, sempre e comunque, prendersi il tempo lineare per farla crescere e irrobustire, quel tempo speso tra le mura di casa, nella riflessione e nel silenzio, sopra i testi di altri autori, della critica, della storia delle opere.


Siamo nel 2023, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurito: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo.

Alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout-court, come inquadri l’argomento e qual è la tua opinione a riguardo? Soprattutto, prevedi un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo?


Io credo che la questione femminile sia ancora abbondantemente in cammino, ben lontana da una soglia di accettabilità tale da farci dire: possiamo rallentare, ci siamo quasi. È un passaggio che deve recuperare centinaia di anni di divario, nel cui solco si devono proprio ricostruire identità, diritti, uguaglianza, possibilità, pari opportunità. Ovviamente il mondo letterario non è esente da queste dinamiche in cui, solo negli ultimi anni, sento che veramente si è cominciato a rivendicare una vera e propria effettività. Il lavoro delle femministe e attiviste, intellettuali e scrittrici, del Novecento (Sibilla Aleramo, Anna Banti, Virginia Woolf, Simone De Beauvoir, Elsa Morante, Lalla Romano…) è un grande lascito ma ha bisogno ancora di essere rinfrescato, come il lievito madre. Oggi riconosco molte voci le quali, proprio attraverso la scrittura, fanno un lavoro di vera e propria informazione e sensibilizzazione, voci dove il romanzo diventa veicolo per affermare un’idea di donna completa in se stessa e dotata di una propria singolarità in quanto persona e non genere definito. Poi, nel mondo della poesia questa questione è una delle più spinose, prima di tutto perché la poesia difficilmente può essere catalogata come avviene per la letteratura negli scaffali delle librerie, fisiche e online, dove ahimè, esiste la famosa “letteratura rosa” che non è di certo lusinghiera per le lettrici donne, dove il messaggio che passa è un contenuto leggero, amoroso e di facile lettura, adatto al genere femminile. Il discorso è veramente lungo e complicato. In poesia, dicevo, difficilmente riusciremmo, pur volendo, a catalogare le opere in sezioni definite: anche nella poesia più categorizzata coesisterà sempre una matrice diversa, un contraccolpo che magari svicola. In questo senso, neppure ha modo e luogo di esistere una poesia femminile, se vogliamo intenderla come scritta da donne, perché la categorizzazione qui perde. Altra storia, invece, è la visibilissima presenza preponderante dei poeti uomini rispetto alle poete donne nelle antologie e, in generale, nelle vicende della poesia: il problema risiede nel solco che provavo, indegnamente, a identificare sopra. Occorre capire che veniamo da un retaggio culturale dove alla donna, e alle sue facoltà mentali e intellettive, era precluso un processo di creazione e divulgazione. Il risultato è un processo di antologizzazione e archivio fatto dagli uomini, sia scrittori che critici, dove la presenza femminile è apparsa come un’eccezione, quindi rare volte. Poi è apparsa Donne in poesia, antologia curata da Biancamaria Frabotta nel 1976, credo prima vera presa di coscienza di una marginalità che andava scandagliata e potenziata, fino a riequilibrare le cose. Ovviamente, questo bellissimo lavoro non ha scalfito le modalità raccontate poco più sopra. E questa modalità ha portato, poi, nel tentativo di riequilibrare la barra o continuare sul solco dell’antologia del 1976, a operazioni che ho salutato con grande entusiasmo ma che sono state svilite, nonostante non facessero altro che andare oltre la presa di coscienza di un margine da spostare verso il centro dell’attenzione e provare a utilizzare la stessa logica dell’esclusione praticata dalla poesia maschile ma a favore di quella femminile. E, mi permetto di dire, sulla base della qualità o, almeno, diversità di voci presente sul mercato e nel mondo letterario degli anni duemila. Mi riferisco all’antologia einaudiana Nuovi poeti italiani 6, a cura di Giovanna Rosadini. Ecco, quell’operazione a me è piaciuta perché ha un senso parallelo a quello che accadeva (e accade ancora) nei lavori antologici. Ovviamente si era subito sollevata una polemica verso l’assenza di qualsiasi voce maschile all’interno dell’opera. Può essere una critica giusta ma, sulla base dei numeri, perde. E quindi, in un tentativo di bilanciare il passato, ho pensato e penso ancora sia stata una buona operazione. Ovviamente, il dibattito è ancora aperto e, ultimamente, è Elisa Donzelli che ha ravvivato un discorso molto interessante attorno alla poesia scritta da donne post ’68 (un articolo interessante si può leggere qui, a firma di Letizia Giangualano: https://alleyoop.ilsole24ore.com/2022/06/21/donne-poesia-cose-successo-alle-generazioni-68/). Insomma, da un lato occorrerebbe riflettere seriamente sulla partecipazione femminile, dall’altro su quanto poco paga parlare di poesia femminile piuttosto che di poesia scritta da donne. Oltre questo, abbiamo poi questioni legate al gender molto più ampie, che abbracciano identità di genere diverse, anche queste valutate più alla luce dell’appartenenza a una categoria che rispetto al testo e ai contenuti. Mi piacerebbe che si arrivasse a parlare di poesia in maniera più fluida. Eppure, prima di arrivarci, questi passaggi, seppure fastidiosi, incompresi, parziali e strumentali sono necessari.


Ti chiedo di scegliere tre tue poesie e di riportarle qui per le lettrici e i lettori di Alma.

anghelos


Che rientri da questa terra

per i segreti delle porte

che quasi mi dormi accanto

è scritto nel rumore della pioggia

nel tremito aguzzo delle acque.

Più dentro è il chiodo di non saperti qui

vederti andare come certe domeniche d’inverno

anche quando è il dono del mondo che ci unisce,

il fondo delle cose a crescerci di neve.


(da Secondi luce, LietoColle 2009)


*


Ti ho ripiegato una poesia piccolina. È per una tasca. Resiste al timore, al coltello alla morte, alla banderuola a qualche cosa, infine, che separa per sempre.


Te he doblado

una poesía pequeñita.

Era para un bolsillo.

Resiste el tremor, el cuchillo,

la muerte, la bandera

alguna cosa, en fin,

que separa para siempre.


(da Telegrammi, (Telegramas) poesie in italiano e spagnolo, postfazione di Giovanna Rosadini, ‘round midnight edizioni 2016)


Gli indesiderati


Ogni mattina da quattro anni mi sono svegliata

con pane, pianto e caffè nell’acqua.

Queste maglie stinte e le mani freddissime.

E il sogno che mi premeva nel duodeno

la domanda asprissima se esistesse almeno

una preghiera diversa per te e per tenerci calmi

meno bestie e meno urlanti in un unico cerchio di fuoco.

Amore mio, io per ogni secondo insieme aggiusterei il volano

delle esatte parole del salmo. Quella preghiera per i diseredati

gli indesiderati, i poveri stolti del cuore quali siamo.

Ma, continuando come cuccioli nella tana,

la felicità non è né di questa terra né dell’altra.


(inedito)


Anna Ruotolo ha pubblicato Secondi luce (LietoColle 2009, nota a cura di Elio Grasso), Dei settantaquattro modi di chiamarti (Raffaelli 2012, prefazione di Gianfranco Lauretano), Telegrammi/Telegramas, poesie bilingue italiano/spagnolo (’Roundmidnight 2016, traduzione a cura di Jesús Belotto, postfazione di Giovanna Rosadini) e Le stelle dormono a nord, raccolta di brevi racconti (Fara Editore 2021). È presente in varie antologie poetiche, si segnala: La generazione entrante. Poeti nati negli Anni Ottanta (Ladolfi 2011, a cura di Matteo Fantuzzi e con una prefazione di Maria Grazia Calandrone). Suoi testi sono apparsi in «Poesia» di Crocetti, «Capoverso», «Poeti e Poesia», «Italian Poetry Review», «Gradiva» (con una introduzione di Giancarlo Pontiggia), «La Clessidra», «UT» e in blog e magazine online. Un testo tradotto in spagnolo da Jesús Belotto è pubblicato nel num. 4 della rivista internazionale «Poe +» e alcuni testi tradotti in rumeno, a cura di Eliza Macadan, nella rivista «Poezia», poi confluiti nell’antologia LIDO uscita in Romania per i tipi di Editura Eikon di Bucarest, che riunisce le poesie di alcuni poeti italiani contemporanei. Ha collaborato, scrivendo recensioni, con le riviste «Poesia», «Atelier», «La Clessidra» e con blog letterari.

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