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“L’abruzzese fuori sede”: intervista a Gino Bucci

Immagine del redattore: Alessia BronicoAlessia Bronico

Gino Bucci è l’ideatore della pagina Facebook “L’abruzzese fuori sede”, nata nel 2014, che negli anni ottiene grande successo. Come ti è venuta l’idea?


A caso, nonché a casa; mi trovavo a Roma insieme ad altri due ragazzi abruzzesi, uno di Popoli, uno di Pescocostanzo. Loro magari riportavano prodotti tipici (i gamberi di Popoli, i mostaccioli di Pesco), io riportavo le scatolette di tonno. Ho iniziato a scoprire un Abruzzo differente da quello in cui sono cresciuto; amando scrivere, amando mia nonna e il modo di parlare, ho aperto un blog sull’Abruzzo per avere uno spazio in cui divertirmi, inizialmente.


Gino Bucci oltre a “L’abruzzese fuori sede” ha più personalità o più personaggi, chiamali come preferisci o come più gli s’addice, ce li racconti o è un segreto?


L’unico personaggio che mi viene appioppato è il torbido Pericle Pazzini, nativo di Morricone, pur essendo per metà di Manoppello e passando le estati a Follonica. Diciamo che, se io fossi Pericle, direi che il suo modo di “fare poesia” è quello più vicino al mio animo: consiglio a tutti di leggere le sue cose sulla pagina “Le Avventure di Pericle Pazzini”, ha dei contenuti molto migliori di quelli de “L’abruzzese fuori sede”.


Nella tua pagina celebri l’Abruzzo in tutti i suoi aspetti, rendi visibile il territorio, ci ricordi le sue tradizioni, ci fai venire l’acquolina in bocca elencando e fotografando pietanze. Chi è “L’abruzzese fuori sede”?


Una persona sicuramente onesta e genuina, che scrive a sentimento senza capanze né forzature. Parlo di un luogo solo quando penso di poter aggiungere qualcosa a quel posto, quando sono convinto di poterlo rendere interessante agli occhi di più persone. Mi piacciono i posti che non vogliono piacere. Mi piacciono le storie senza una vera storia all’interno. L’amore per l’Abruzzo è venuto fuori negli anni, grazie alle persone che mi hanno dimostrato un affetto anche inspiegabile. Adesso, grazie a loro, posso dire di amare e conoscere la regione: parlarne ora è più facile e bello.


Molte persone ti scrivono per condividere le proprie storie, quali sono quelle che più ti hanno colpito?


Come ti dicevo, è difficile per me rispondere in maniera “logica”. Seguo l’istinto e il sentimento. La storia di una signora che esce di casa e va al bar a prendere un caffè macchiato freddo, spesso, può ispirarmi più di una avventura epocale fra Turrivagliani e Boston. Quesse è, non ho molto altro da dire. Appena mi arriva un messaggio capisco se quella roba fa per me, oppure no. Di solito ci azzecco, credo.


Rime toscibili esce nel 2022 per i tipi di Ricerche&Redazioni ed è la tua prima pubblicazione. Un testo ibrido tra versi e prosa in una lingua che non può dirsi propriamente dialettale. Remo Rapino, prefatore del libro, parla di «lingua meticcia» e ancora scrive: «un geniale percorso sui sentieri della dialettologia». Tu che diresti della tua lingua e quando hai deciso, non di scrivere il libro, ma di pubblicarlo?


Ho deciso di pubblicarlo quando mi è stato chiesto di farlo, sinceramente. Certamente dopo una lunga revisione di tutti i testi (parrebbe esserci un solo refuso: “Schiavi d’Abruzzo” scritto con l’apostrofo, ‘nzia mai, mi pento, si scrive “Schiavi di Abruzzo” senza toscere e senza apostro). La lingua del libro, al di là delle esagerazioni del grande Remo, è una misticanza di dialetti abruzzesi meridionali. Partendo dal mio – un dialetto comunque teramano – ho innestato su questa base altre parole prese da un po’ tutta la regione. Il mio modo di guardare ai dialetti abruzzese è libero: per me sono un serbatoio dal quale pescare parole e costrutti.


Il titolo Rime toscibili è composto da un nome e un aggettivo, alla prima parola tutti i lettori sapranno dare un significato univoco, sull’aggettivo gli abruzzesi saranno avvantaggiati e quindi diamo una mano: toscibile sta per? Ci vuoi anche parlare delle intenzioni/ambizioni che hai nei confronti di questo neologismo?


Inizialmente fu “intoscibile”, una parola ben formata in italiano derivante dal modo di dire dialettale “’nzi tosce”, non si tossisce, non è possibile manco tossire (su una determinata questione). Quindi un sinonimo di “indiscutibile”, ma con un’accezione di senso ancor più potente. “Intoscibile” (con il suo avverbio “intoscibilmente”) divenne virale sui social e non solo: ormai viene usata (steme quasi a pazzià) nel parlato quotidiano. ‘Sta cosa mi fece squacquarellare, e quando sentii parlare del successo di “petaloso”, volli tentare di concretizzare la questione scrivendo alla Crusca: “intoscibile” meritava il dizionario italiano. Non mi risposero, andai pure a Pescocostanzo dal mitologico Professor Sabatini, ma nulla da fare. Quando mi sono trovato a dover dare un titolo al libro, ho pensato subito di schiaffarci “intoscibile”; essendo però io poco propenso a parlare bene di me stesso, ho optato infine per “toscibile”, discutibile. Sono “Rime toscibili” in questo senso: tu puoi toscere in merito, dire che fanno ribrezzo, e io mi sto zitto, stapposte.


Il tuo libro è intoscibilmente (indiscutibilmente N.d.R.) divertente ma anche vivo, emozionante, dalla struttura solida e consapevole. Insomma, Gino Bucci gioca ma non è un dilettante. Perché la poesia?


Dire “poesia” un poco mi disturba, in realtà. Penso che la poesia sia un’altra cosa. I miei sono testi metrici in rima che, indubbiamente, hanno una loro tradizione alta, però nel mio caso li sento più vicini ad un mero gioco letterario. Mi diverte molto “accordare le sillabe dei versi” (cito Gozzano non a caso); è come se fosse il sudoku per me. Scrivendo in questo modo da tanti anni, leggendo parecchie raccolte di questo tipo da sempre, ormai vado quasi in automatico: sembra una pazzità, ma spesso, anche nella prosa, “penso” le frasi in endecasillabi, per dire. Quando si raggiunge questo tipo di pensiero, poi la cosa diventa davvero divertente. La poesia, quella naturale, ispirata, dirompente, forse abita in altri luoghi rispetto ai miei.


Che importanza ha avuto per te la rete e quindi anche l’utilizzo dei social, come potresti dire che ti hanno aiutato? Cosa ti offrono, cosa ti lasciano e cosa ti tolgono?


Sono stati fondamentali, i social, i quali hanno fatto anche cose buone. Senza la pagina non mi avrebbero mai contattato per pubblicare un libro del genere, senza la pagina non avrei mai avuto modo di conoscere l’Abruzzo e la sua gente così profondamente. Ho appreso tantissime cose grazie agli utenti, questo è innegabile, anche perché leggo davvero ogni singolo commento. Sulla pagina si è creata una bella comunità virtuale di gente tendenzialmente gentile: per me è un piacere poter continuare a viverla.


Gino Bucci scriveva anche prima della nascita de “L’abruzzese fuori sede”? E scriverà ancora?


Certamente, scrivevo filastrocche già alle elementari. SemBre fatto, ‘nzomme. Continuerò di certo anche perché, in soldoni e in qualche soldo, scrivere è pure il mio lavoro (giornalista, copywriter) e altro non credo di poter fare nella vita. Poi mi piace, scrivere.


Ci lasciamo con una poesia?


Ti lascio un testo in onore del Gran Sasso, tendenzialmente inedito, magari verrà inserito nel prossimo libro toscibile.


Gran Sasso


Scoppato, triste, con lo sguardo smorto,

mi prendono per scemo tutti quanti;

mi dicon “sei un mediocre” e non han torto,

mi sputano finanche quei passanti.


Però una cosa buona dai la tengo:

ho visto il Monte Corno mille volte;

e se lo vedo ancora non trattengo

le emozioni arruciulate, capovolte.


Cercandoti di sera su a Cerqueto,

vivente quel presepe memorando;

sei bella quasi quanto Crognaleto,

il fuoco di Nerito scoppiettando.


Ti guardo e mi s’appiccia una candela,

ti penso da vicino e da lontano;

con te soggiornerei a Pietracamela,

mangiando poi vegano lassù a Fano.


La vista da Casale San Nicola,

il Corno grande ancora mi stupisce;

quella cascata sgrizza coca cola,

che puzza sembre fiurì dova pisce.


Ti raccontavo di quell’altra parte,

Castel del Monte, Assergi, Barisciano;

Calascio, la sua Rocca, Tornimparte,

poi L’Aquila che torna piano piano.


Salire lentamente sulla cima,

di certo mi farebbe sentir vivo!

Carissima ti è nota già la rima:

che c’è di meglio dei Prati di Tivo?


Mi sciolgo come fossi il Calderone,

dinanzi alla montagna nostra cara;

ti pongo solo un’ultima questione:

conosci lo splendore di Cerchiara?


Comprendi la potenza del Camicia?

Sbauttisci innanzi al Pizzo Cefalone?

Si scorge anche la sede pontificia

guardando un poco oltre il Paretone.


Seduti ad un baretto teramano,

io ti dicevo queste cose amene;

tu mi fissavi con lo sguardo strano,

gelandomi già il sangue nelle vene.


“Mbapito te l’ho detto e lo ripeto,

a me non piace proprio ‘sto Gran Sasso;

io preferisco, senza alcun segreto,

il mare, dove almeno mi rilasso”.


Restai di stucco come castellana

ceramica che soffre ma non cede;

dal cuore mio si distaccò una frana,

San Gabriele già vede e provvede.


Io t'amo, te l'ho detto e sta parlato,

ma questa tua opinione cambia tutto;

mi sento già un po' meno innamorato:

ti piace almen la sagra del prosciutto?


Tu mi guardasti proprio come il verme

che mangia quel buon cacio pecorino;

io già marcetto solo restai inerme,

volsi lo sguardo verso l'Appennino.


Ci siam lasciati senza più ritorno,

tu andasti al mare giù a Martinsicuro;

rimpianti mo toglietevi di torno:

Gran Sasso unico amore, te lo giuro.



Gino Bucci

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