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Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Intervista ad Anna Maria Farabbi

Questa è l'intervista che Federica Ziarelli e Alessandra Corbetta hanno fatto ad Anna Maria Farabbi, a partire dalle sue ultime pubblicazioni in versi, fino al suo rapporto con il tempo e con il suono, la sua visione su poesia & Rete e molto altro.


L'intervista si chiude con un inedito che Farabbi regala ad Alma e a tutti i suoi lettori.


Anna Maria Farabbi

In Abse (Il ponte del sale, 2013) lei scrive: «Sono nata in un unico destino, coniugo il verbo amare». È questa una dichiarazione intensa di quello che appare essere per lei il primigenio senso esistenziale, una direzione di passo rispondente ad una chiamata fatale.

In che maniera l'amore si innerva nella sua poetica, e quanto e come la sua poesia riesce ad attualizzare questa vocazione all'amore? (F.Z.)


Amare è un verbo concreto. Con creto. Impegna alla creta. Alla coniugazione con la creaturalità terrestre in un’apertura interiore che ci sfonda il proprio confine esistenziale verso l’oltre e l’altro. Contemporaneamente, impone un incessante lavoro relazionale con l’io profondo, con il vuoto generante, con il tu, con il noi. Scrivo noi riferendomi a tutte le dimensioni della comunità elementale: minerale, vegetale, animale che sia.

Il mio canto è in una poetica che si permea su questi cardini. Poetica che è politica. E’ la mia postura. La mia dientità cantata e esposta al mondo. Quanto e come e se io effettivamente riesca ad attualizzare … non credo sia io in diritto di rispondere. Il corpo del mio canto canta e si presenta e risponde di sé stesso in questa natura. In me, c’è poi una lavoro grande nel portare l’opera degli altri, con attenzione concentrata ostinata tenace, mi riferisco a quelle artiste e pensatrici che sono state sommerse motivatamente. In questo senso ho curato e tradotto e partecipato alla pubblicazione (anche im edizioni postume autorizzarete) di diverse scrittrici.

Soprattutto, aggiungo, un fare verso creature in sofferenza, recintate, accantonate, marcate con rassegnazione, extra comunitarie in un certo senso: sordi, ciechi, carcerati, individui con grave handicap psichico, tossicodipendenti, disabili, anziani, anoressici e bulimici. Il mio rapporto con loro, sempre con molto studio e rispetto e in assenza di giudizio, e sempre attraverso il canto, comprende la loro patologia ma la oltrepassa, crea il ponte da ombelico a ombelico. Tutto questo è poetica e politica e coniugazione della cellula nominale amore. Con nessun sentimentalismo né retorica.


Esiste un tempo, quello illuminato dalla fiaccola dello stupore infantile, nel quale certamente non è la parola a fotografare ciò che della realtà viene percepito, in cui non esiste sintassi dialettica né costruzione grammaticale complessa quanto, piuttosto, emozione, sensazione e appunto, meraviglia. Ecco, nella sua poesia, in particolare nella poesia contenuta nella raccolta Talamimamma (Terra d'ulivi, 2014) io avverto una fermissima fedeltà a un linguaggio emozionale che cerca di mantenere intatta la fusione sacrale e primigenia fra percezione e parola.

Conferma questa mia idea? Prova a spiegarci cosa è per lei questo connubio? (F.Z.)


La capacità di mantenere interiormente, e alimentare, la ricezione epifanica, lo sconcerto, la scompaginazione, l’urto del dolore o della gioia come leve di crescita, improvvisi rovesciamenti. L’ammissione umile di non aver mai tutti gli strumenti necessari per … ma anche non voler radiografare, separare, l’esperienza in sé. In talamimamma, il baricentro esistenziale è abbassato. Le tempie sono ridotte al minimo. Mi fa piacere che esprima questa sua interpretazione. Che rispetto e apprezzo. Aggiungo: soffiare nel canto l’emozione impone una calibratura, una misura lirica di contenimento altrimenti tutto si corrompe e sfoca in un sentimentalismo edulcorato, privo di potenza.


Potremmo dire che la sua poesia è anche profondamente sinestetica, dal momento che in essa tutti i sensi hanno un ruolo fondamentale nel percepire e dunque descrivere la vita cosmica, creaturale. Ma c'è un senso che sembra dilatarsi più degli altri nel suo corpo poetico ed è quello della ricezione uditiva, il trovarsi all'ascolto di un silenzio bianco, del particolare silenzio nevoso.

Cosa cerca o cosa trova il suo orecchio in questa apparente mancanza di suono? L'aggettivo “sonoro” riguarda l'udire o contiene più ampiamente il verbo “sentire”? (F.Z.)


Grazie di queste domande. Sono anni e anni che attraverso questo occhiello. Nel verbo sentire, che include il verbo udire, esiste ciò che chiamiamo semplificativamente e abusivamente, silenzio. Il silenzio non esiste. La sonorità ci abita. La abitiamo fin dalla nostra prima dimora uterina. Siamo distratti crescendo. Non siamo educati a coglierla. Anche il mio studio sulla sordità e il mio lungo colloquio con i sordi continuano in questo approfondimento (Ascoltando il battito cardiaco nella sordità, Terra d’Ulivi, 2019). Sta per uscire Il canto dell’altalena per Pièdimosca edizioni in cui rientro nei significati del silenzio e del suono, abbattendone la distinzione e narrando la mia esperienza all’interno della camera anecoica dell’Università di Ferrara Questa riflessione, questa direzione di viaggio esistenziale, poetico, politico, è inevitabile in poesia, secondo me.


A tredici anni sono uscita di casa

perché mio padre

non voleva che scrivessi poesie.

Avrei dovuto essere normale pratica e mite.

Da allora camminando mi sono chiesta

l’utilità se davvero esiste una mandorla atomica

nutriente nella poesia.

E se il mio orto interiore

un solo verso lavorato anni e anni

può barattarsi con l’espressione intima

di una qualunque altra creatura.

Che sia davvero un bene un viaggio sacro un polmone.

Per questo ho studiato tanto le scritture degli esseri

non solo umani l’analfabetismo

anche quello delle ergastolane di San Vittore

il labirinto auricolare e le energie tattili dei ciechi

il linguaggio dei segni e il profondo

ricettivo dei sordi

la notte nelle tempie fosforiche dei matti.


Questa creatura poesia è organica. Direi a mio padre così.

Ha una natura congiuntiva e irrimediabile.

Intensifica e implode. A volte schizza ori.

Gli direi di amarmi

con tenerezza conciliata ormai:

so liquefare un’ascia

assimilando il fiume.

Con l’umiltà di creare niente.


In questa poesia, dal titolo Diario di una figlia poeta, tratta dalla raccolta Abse, lei prova a descrivere l’arte poetica come se a chiederle “cos’è?” fosse suo padre; e, nel farlo, racconta del viaggio intrapreso per trovare una risposta, che l’ha condotta fin dentro l’analfabetismo e le sbarre di un carcere.

Se al posto di un genitore ci fosse un o una giovane a chiederle cosa sia oggi la poesia, cosa risponderebbe? (A.C.)


Grazie della domanda. Mio padre davvero ha cercato di cementare la tremulazione della mia interiorità. Più o meno consapevolmente. Ma mio padre biologico è anche il volto di questa società che massacra continuamente, schernisce, devitalizza la poiesis nel senso più profondo. Mi è capitato sì di rispondere a diversi ragazzi su questo interrogativo.

Per me è intimità intensità essenzialità ritmo. Nel canto.

Cantare significa scegliere pochissime esatte parole estraendole dal pozzo infinito della nostra lingua. Lavorare interiormente e socialmente, nel fiato e nell’inchiostro. nel e con il verbale e il non verbale. Saper tacere vivificando l’assenza scelta della parola. Spodestare il cervello e far scendere il baricentro del proprio corpo. Entrare nel vento.


Nella raccolta La casa degli scemi (Lieto Colle 2017), accanto alla Grande Guerra che si interseca con il terremoto di Arquata, lei sceglie di usare la sua penna soprattutto per ridare luce alle problematiche dei malati di mente, in riferimento alle loro condizioni di vita e alla loro gestione, ricontestualizzando il tema della morte e del dolore all’interno di una cornice fortemente etica.

Quanto è importante, anche alla luce di quello che sarà la nostra società dopo la pandemia, che la poesia mantenga questo tipo di connotazione? Avremo ancora la fortuna di imbatterci in un Bruno pronto a porsi e a porre le giuste domande, come «mi chiedo quante guerre l’uomo inventa / per separarsi da sé stesso e dalla creanza.»? (A.C.)


Per me è si, sempre. Questa da sempre è la mia poetica e politica. Essere responsabili della lingua che portiamo in bocca e in corpo.


Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti.

Qual è la sua posizione a riguardo? Come vede il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web? (A.C.)


Sono domande che esigono risposte articolate e complesse. Mi definisco sorridendo preistorica, con il significato profondo del mio rapporto con l’origine, che rimane il nucleo fondante della mia esistenza. I modi della comunicazione sono modi. Non è la destinazione né l’orientamento del viaggio. Certamente la rete può creare lunghezze di ponti, moltiplicarli, ma anche pone il rischio mortale di uscire dai significati della corporeità, dal calore del fiato. Creare cioè una realtà virtuale sostitutiva e non complementare. Provocare una famelicità autoreferenziale e consumistica. Noto un abuso diluviale della rete con una parola svilita, ridotta a chiacchiericcio. Che il mezzo, quindi, resti mezzo. Che sia io nella parsimonia di porgermi quando ho sostanze da offrire.

Sulla sua ultima domanda, rispondo che il futuro della poesia sarà la consistenza del nostro lavorare lento, segreto finché non compiuto. Onesto.

Ho molta preoccupazione per questa frenesia inquinante che scambia il mezzo per il fine. Ripeto, propria del consumismo.


Siamo nel 2020, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurita: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo.

Anche alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout-court, come inquadra l’argomento e qual è la sua opinione a riguardo? Soprattutto, prevede un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo? (A.C.)


Mi presento: sono una poeta eretica, erotica, organica. Il mio corpo femmina è la mia unità di misura. Femminista. Da sempre, come dicevo, lavoro nel pensiero della differenza. Nel criticare una nominazione, un uso della lingua improprio, ridotto, maschilizzato. La poesia americana delle donne negli anni 60, Adrienne Rich, Margareth Atwood, Anne Sexton tanto per fare qualche nome ancora insegnano e trovano in noi molto moltissimo da imparare.

Per quanto riguarda il dibattito di cui accenna… trovo che rispetto agli anni settanta ottanta oggi sia nettamente esangue. Personalità maestre come Ida Magli, Adriana Zarri, Carla Lonzi, Joyce Lussu, Luisa Muraro, tanto per fare qualche nome, sono in ombra. Se un dibattito esiste deve essere affrontato in modo interdisciplinare. Su tante tipologie espressive, dentro cui esiste anche la poesia.

Non è tanto applicare suddivisioni … quanto osservare e valutare quanto noi donne riusciamo a vivere con totalità aperta la lingua e il nostro corpo esprimendolo in poesia. Quanto gli uomini ancora gestiscano la direzione delle case editrici, gli spazi culturali, e naturalmente, come dice lei, la curatela delle antologie. Quanto siano le poete che hanno sconfinato dal canone con irruenza e per questo siano poste a lato o in ombra densa.


La consuetudine delle interviste di Alma è quella di andare a frugare nei cassetti di ogni autore per scovare un inedito.

Nei suoi ne ha uno da condividere con noi? Gliene saremmo molto grati. (A.C.)


futuro del m’io niente


in ogni notte come questa scampo dal furore

andando per i campi a sperperare il mionulla

che tra un passo e l’altro si sparge a pula

in ogni impronta trascrivo i segni animati della mia incandescenza

e mi congiungo interiormente a ciò che è anonimo

ai semi alle ossa ai minerali del giurassico alle stellezze

che precipitando nel fango lo brillano

la poesia è il mio concreto niente


(da ninna nanna, opera inedita)




L'intervista si chiude con un inedito che Farabbi regala ad Alma e a tutti i suoi lettori.

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