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Intervista a Claudio Damiani

Questa è l'intervista che Alessia Bronico ha fatto a Claudio Damiani, a partire dalle sue ultime pubblicazioni in versi, fino al suo rapporto con Beppe Salvia e Arnaldo Colasanti, la sua visione su poesia & Rete e molto altro.


L'intervista si chiude con un inedito che Damiani regala ad Alma e a tutti i suoi lettori.


Claudio Damiani (Ph. Dino Ignani)

Marco Lodoli nella prefazione a Poesie (Fazi Editore, 2010) scrive: «Damiani qualche volta sogna un’eternità che comprenda il prima e il poi, l’ora in cui ancora non eravamo e quella in cui forse ci ritroveremo senza più dolore: si intuisce che è un desiderio cristiano che si scontra con una più convinta visione classica, dove l’aldiquà e l’aldilà sono ipotesi poetiche che servono semplicemente a rafforzare l’accettazione dello scorrere perenne del presente».

Che rapporto ha con il tempo Claudio Damiani?


Il tempo è il mondo, lo spazio in cui viviamo. La poesia è sempre un tentativo di capire, cioè di racchiudere, contenere questo spazio invisibile.

A proposito delle parole di Lodoli, quando dice: “l’ora in cui ancora non eravamo”, devo dire che a rileggerle ora mi appaiono profetiche dal momento che il libro che ho appena finito di scrivere e uscirà fra non molto si intitola “Prima di nascere”, e è tutto su questo tema del “prima”, e la sua connessione ovviamente col tempo della vita, e col “dopo”.


Cieli celesti è la raccolta che lei pubblica nel 2016 per i tipi di Fazi Editore. In esergo al libro inserisce versi di Beppe Salvia tratti da Cieli celesti, una sezione di Cuore (Rotundo, 1988) da cui trae il titolo del lavoro. In ogni suo libro c’è, in qualche modo, sempre una dedica a Beppe Salvia, anche in Endimione, che è la sua ultima raccolta poetica uscita per i tipi di Interno Poesia nel 2019? Perché proprio i versi di Salvia?


Perché Salvia ha rivoluzionato la poesia contemporanea, ridandogli lingua e mondo, staccandosi dal ‘900 e dall’ermetismo, e ricollegandosi, tramite Pascoli e D’Annunzio, agli antichi padri.

E poi è stato per me un grandissimo amico, una persona fraterna, e la sua morte, a soli trent’anni, un lutto incolmabile.


Con Beppe Salvia e Arnaldo Colasanti nel 1980 fonda la rivista Braci, titolo proposto da Salvia e che racchiude una pluralità di significati. Quali?

L’intento della rivista è quello di mostrare la poetica delle nuove generazioni e questo mi spinge a una domanda: che ruolo ha avuto Braci nella poesia di quegli anni e come è cambiata la poesia?


Secondo me deve essere ancora capito quello che ha significato Braci. È stato un ritorno alla natura, e alla lingua, non gratuito, ma necessario. La lingua è apparsa come qualcosa di vivo, è riapparsa. Non siamo stati noi, è stata lei. Io penso perché era stata trattata male, e s’è arrabbiata.

Nel titolo, trovato da Salvia, c’è il senso di una distruzione ma anche di una rinascita. Le ceneri di una desertificazione, ma, sotto la cenere, c’è il fuoco (che noi sentivamo come fuoco della lingua, della tradizione), la cova, nel tempo azzerato del dopostoria, di un futuro.


Endimione potrebbe definirsi un diario onirico, un racconto tra sogno e realtà, un andare tra immaginario e reale.

In copertina c’è una sua foto in cui tiene gli occhi chiusi: Claudio Damiani è Endimione?


Forse sì, ma credo di essere anche, almeno un po’, la Luna.

Per quanto riguarda “diario onirico, racconto tra sogno e realtà” sono molto d’accordo”. Anche se più che il sogno mi interessa il sonno (e mi rifaccio in qualche modo al Keats di Sleep and poetry, e Keats tra l’altro aveva scritto un bellissimo Endymion…).


Molte volte la vita è sofferenza,

altre volte ci sono stati dei mattini luminosi,

dei risvegli, c’era nebbia e si saliva

come su strade di montagna

dove il cielo era sempre più azzurro

e si sentiva come una chiamata, un appello,

come se tutti fossimo chiamati in un punto

verso quelle nuvole, al di là di loro

e c’era poi una donna, non saprei dire chi fosse,

se piangeva o sorrideva, una donna

che piegava il capo con dolcezza.


Mi pare che in questa poesia, come in altre, ci sia una riflessione sul tempo, a pag. 59 ad esempio troviamo scritto: «tempo interminabile». Potrebbe darci una chiave di lettura di questi versi tratti dalla sezione “Ti tengo la testa tra le mani” della raccolta Endimione? Che rapporto ha col tempo Claudio Damiani e che spazio occupa nella sua produzione poetica?


Direi che il problema del tempo occupa tutto lo spazio della mia poesia, e anche oltre.

Per quanto riguarda la chiave di lettura di quella poesia, posso dire che il tema dell’ascesa verso la luce riguarda tutto il libro, e in particolare l’ultima sezione, che è un camminare verso l’alto su una strada bianca notturna illuminata dalla luna e, al tempo stesso, stranamente, è giorno pieno, c’è il sole. È un camminare verso l’amata e, al tempo stesso, con l’amata, mano nella mano.


Lei scrive: «La mia osservazione è a occhio nudo / ma dovrei dire a orecchio nudo / perché è più l’orecchio che adopero / o forse tutti i sensi insieme» (Endimione, Interno Poesia 2019).

Cosa osservava prima dello scoppio della Pandemia e cosa osserva ora?


Le stesse cose. Anche prima non sapevamo niente. Qualcuno forse pensa che noi siamo davanti alla natura e la osserviamo. Ma in realtà noi siamo dentro di lei e è lei che ci osserva.

Endimione nel mito è, oltre che un pastore, un astronomo. Osserva il cielo, cerca di capire l’universo. Ma è osservato dalla Luna, che si innamora di lui.

È un amore, il loro, a distanza (tra l’altro Endimione dorme sempre). Ma ogni amore, anche quello più realizzato e felice, è a distanza. E questo volevano dirci i provenzali iniziatori della poesia europea, col loro amor de lonh (amor lontano), e questo volevano dirci anche Dante e Petrarca.


Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti. Qual è la sua posizione a riguardo? Come vede il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?


Penso che prima era più difficile reperire i testi, adesso si può trovarli molto più facilmente. Il problema però è sempre lo stesso: leggerli.

Detto ciò, ognuno ha il suo tempo. Anzi, diciamo meglio, ognuno è il suo tempo. E ogni tempo ha la sua tecnologia. Anche il pennino e l’inchiostro erano una tecnologia. E anche prima della scrittura la poesia esisteva. E quella poesia ancora la leggiamo, anzi non possiamo farne a meno.


Siamo nel 2020, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurita: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo. Anche alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout-court, come inquadra l’argomento e qual è la sua opinione a riguardo? Soprattutto,

prevede un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo?


Il Rinascimento italiano, a partire da Petrarca, pone al centro l’uomo, come essere infinito. Ma con uomo si intendeva non il maschio, ma l’umanità, ossia maschio e femmina del genere umano. Se leggete Ariosto lo capite. Era un sogno però, un’anticipazione, che adesso sta diventando realtà.


La consuetudine delle interviste di Alma è quella di andare a frugare nei cassetti di ogni autore per scovare un inedito. Nei suoi ne ha uno da condividere con noi? Gliene saremmo molto grati.


Sì ho un inedito sulla pandemia:


Tutti quelli che muoiono in questa guerra virale

sono come i morti insepolti degli antichi

lasciati ai cani sul campo di battaglia,

non poterono i familiari lavare i loro corpi

ungerli e piangerli e preparare il rogo,

trasportati di notte su camion militari

come sacchi di spazzatura in altri cimiteri.

Ma noi sappiamo che la loro battaglia fu eroica,

combatterono fino all’ultimo sangue

un corpo a corpo senza risparmio di colpi,

alla fine caddero facendo risuonare

con fragore la loro pesante armatura.

La loro vita è incisa nel cimitero del tempo

a memoria perenne, e la loro tomba è un altare.

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