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  • Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Editoriale Poesia & Rete (appuntamento n°7)

Continua, con questo settimo incontro, l'editoriale su Poesia & Rete, a cura di Alessandra Corbetta, un progetto trasversale alle pubblicazioni del blog che proverà a monitorare, attraverso interventi di diversa natura, lo stato delle interrelazioni tra il linguaggio poetico e le dinamiche del Web.


Chi volesse segnalarci studi o ricerche su questo argomento o desiderasse contribuire ad arricchire con competenza il dibattito, può farlo scrivendo a redazione@almapoesia.it, specificando in oggetto “Editoriale Poesia & Rete”; tutto il materiale pervenuto verrà sottoposto a lettura e quello ritenuto più interessante e valevole verrà proposto all’interno del progetto.


L'ospite di oggi è Roberto Chiapparoli con il quale, in questa intervista curata da Alessandra Corbetta e a partire dal suo Techno Bit (Puntoacapo Editrice 2017), abbiamo approfondito queste tematiche.


Nella tua raccolta Techno Bit (Puntoacapo Editrice 2017), come sottolinei anche nella nota che apre l’opera, parti dalla considerazione che la rivoluzione digitale, con l’ampia portata di cambiamenti indotti, abbia determinato anche una trasformazione del linguaggio, in termini sia di significante che di significato, motivo per il quale recuperi la poetica futurista di inizio ‘900 come oggetto primario di confronto.

In che modo si è attuata e si sta tutt’ora attuando questa modificazione linguistica in riferimento alla poesia contemporanea? Si è già creato, da questo punto di vista, un punto di non ritorno?


Definire come si è attuata e come si sta attuando la modificazione linguistica nella poesia contemporanea è un’operazione impossibile, credo. Come svolgere un’autopsia su un corpo vivo. Peraltro nel mondo contemporaneo ritengo sia impossibile riuscire ad avere una visione davvero a 360 gradi di una qualsiasi realtà. Sicuramente è in atto una trasformazione incredibile. A volte ho la sensazione stia finendo l’epoca della scrittura. Cosa che probabilmente non sta succedendo e non succederà. Ma siamo entrati in una nuova epoca, penso. Questo sì. Prima della scrittura abbiamo abitato la sonorità della lingua parlata. Il suono, il ritmo, la musicalità aiutavano a ricordare, capire e trasmettere quanto veniva espresso. Ma soprattutto essa era gesto e azione contemporaneamente, più che significato, e le opere arrivateci erano per lo più collettive, o quanto meno non erano automaticamente attribuite a un autore, per lo più epiche guerresche se pensiamo alle tradizioni occidentali, o sfide al divino in altre epopee, quali quella di Gilgamesh. Poi è arrivata la scrittura, abbiamo iniziato ad archiviare memoria. Mi sembra di poter dire la religione abbia utilizzato per molto tempo la scrittura come strumento per la diffusione del proprio credo e della propria morale salvo poi, dal momento in cui le persone hanno avuto accesso al leggere e allo scrivere, quando i caratteri stampa hanno sostituito gli amanuensi, restare indietro e iniziare il lento processo di secolarizzazione mentre il sapere scientifico acquisiva predominanza.

Oggi l’esplodere dei social media in piena epoca dei mezzi di massa mette in crisi il sapere scientifico stesso. Le opinioni individuali espresse al di là di qualsiasi controllo delle fonti ci stanno portando fuori da quel metodo di indagine sul mondo da un lato e fuori dalla logica linguistica dell’aut aut dall’altro. Chiunque oggi vive una situazione di smarrimento dove ogni affermazione è dubitabile e dubitata, rendendo impossibile qualsiasi precaria verità. Siamo nell’epoca dei fatti alternativi. Chiunque vive la frammentazione dell’esperienza quotidiana tra un reale difficilmente modificabile e un virtuale all’apparenza switchabile, ma in realtà al contempo fotocopia e punto di accesso al reale: la possibilità di accesso a tutte le conoscenze sul web e la totale impossibilità di una visione globale. La negazione del linguaggio, il necessario aut aut, perde pregnanza, e anche la morale, di conseguenza. Stiamo da un lato tornando al piè veloce Achille, alla caratterizzazione in positivo, multipla, politeistica. Esplodono le serie televisive, si continua a cantare la morte del romanzo e della poesia, sempre più confinate in nicchie di appassionati. Contemporaneamente esplode la sonorità della poesia recitata e mai come oggi si studia e si vive l’arte. Forse dalla sonorità dell’oralità passando attraverso la vista nell’epoca della scrittura stiamo entrando in un mondo audio-visuo-tattile di icone significanti e contemporaneamente de-significanti.

A Venezia, quest’anno, Kapoor esporrà il suo nero totale, oggetti piatti se visti da lontano ma in realtà tridimensionali, la luce sottratta a negarli. Come Kapoor sta provando a fare nella tridimensionalità portando all’eccesso la sparizione del rappresentato operata dal quadrato nero di Malevic, bisogna sperimentare forme poetiche volte a ripercorrere le strade delle avanguardie di inizio secolo per esistere come arte e poesia nel mondo che quelle hanno contribuito a generare. Ecco, il mio è stato un tentativo di fare questo. Riutilizzare forme poetiche tese a spezzare la forma poetica classica impiegando lo strumento dell’attuale rivoluzione tecnologica come mezzo per generare nuove implicazioni. Mentre la sonorità e il caos caratterizzanti la rivoluzione tecnologica di inizio ‘900 dovevano necessariamente portare al disordine sulla pagina (pensiamo alle Parole in libertà di Marinetti), oggi, vivendo in una società costruita su quella frammentazione dell’esperienza, non possiamo non notare come tale frammentazione si basi su precise disposizioni di singole informazioni. Peraltro questi calcolatori ordinati, a differenza di macchine e aerei, non si possono così facilmente smontare né se ne può così facilmente comprendere il significato. Ecco, credo sia importante da queste informazioni ordinate riuscire a rendere conto in poesia della frammentazione e della dubitabilità della vita reale.


La citazione di Carl Sagan che poni in esergo e che recita «Viviamo in una società profondamente dipendente dalla scienza e dalla tecnologia, nella quale quasi nessuno sa qualcosa di scienza e tecnologia» rimanda alla teoria, sociologicamente codificata, secondo cui le affordance delle piattaforme rendono questi strumenti user friendly, facilmente maneggiabili cioè dai loro utilizzatori, sebbene, il più delle volte, a questa abilità manuale non corrisponda minimamente una conoscenza delle dinamiche che sottostanno e che regolano la realtà digitale.

Quali sono i rischi che questo gap continua a generare e dei quali la maggior parte degli utenti continua a restare inconsapevole? Che tipo di interventi occorrerebbe figurare per tentare di ridurre questo spazio cavo?


Non saprei come ridurre questo spazio cavo. E forse non si dovrebbe neanche. Quando guardo il nostro uso dei social credo non possa essere differente. Sicuramente per le implicite affordance delle piattaforme, ma non solo. Sicuramente i mezzi di comunicazione di massa nel tentativo di ordinare ulteriormente il mondo secondo la versione propagandistica della logica dell’aut aut, hanno anche contribuito a disarticolare tale ordinamento mostrandone involontariamente il funzionamento. Oggi, chiunque, quale che sia il suo lavoro o il suo livello di istruzione, sa rappresentarsi la verità come qualcosa di non oggettivo. D’altronde viviamo in un mondo estremamente complesso di verità impossibili, con una iper specializzazione imperante. L’approccio alla realtà resta sempre parziale pur essendo immersi in una realtà virtuale che mira a raccogliere la totalità dell’esperienza umana. Oggi, con i social media, ancora di più. Siamo buttati nel qui e ora. Da soli. Come monadi davanti a uno schermo. Tutto diventa emozione dell’istante. Le dicotomie ordinanti perdono presa perché tutto e il contrario di tutto è a portata di mano. E noi, come utenti, perdiamo sempre più interesse a osservare le dinamiche sottostanti. Sono rette dal dualismo della negazione. Mentre come utilizzatori di social media, gratuiti, funzioniamo per adesioni in positivo nel qui e ora, senza i rinvii a cui saremmo obbligati nella realtà quotidiana, concreta.

In qualche modo, che non mi è ancora del tutto chiaro, ci stiamo avvicinando alle istanze del corpo, anche se sembra ce ne stiamo allontanando. Proprio nel momento in cui, per la prima volta, il materiale tecnico ha superato in massa il materiale biologico. Ma queste contraddizioni sono in linea con l’impossibile verità odierna, con la parcellizzazione dell’esperienza. La storia dell’Occidente è la storia del tentativo di domare i corpi. Di consegnare alla mente il predominio. Socrate, ci è stato raccontato, muore tranquillo perché finalmente si libera della prigione del corpo. Ora abbiamo riempito di oggetti il mondo. Trasformato ogni cosa in informazione. Smaterializzato l’esperienza quotidiana, soprattutto collettiva. E assistiamo al ritorno del corpo. Come adesione in positivo e non in negativo. Come folle idea di vincere la morte. Ma anche come post-umana integrazione tra macchina neuro-integrata e corpo. È un’epoca viva, interessante, e non è detto non possa essere interpretata come una maledizione per chi la vive (d’altronde una maledizione cinese suona proprio così: che tu possa vivere in tempi interessanti). Un’epoca che potrebbe liberare il pensiero dalle gabbie dogmatiche. Che forse permetterà di pensare quanto attualmente impensabile. Noi, come generazione, possiamo solo cogliere questo aspetto e naufragarvi dentro. La storia di queste sintesi o di una qualche rimonta della logica duale la scriverà chi verrà dopo di noi. Credo affronteremo questo mare di informazioni come abbiamo affrontato quello vero. Riusciremo a navigarlo come oggi solchiamo gli oceani. Ma per riuscirci dovremo sacrificare all’annegamento alcune generazioni. Ma questo lo si può dire pensando in termini di genere umano. Di prove ed errori. Di retroazioni. Di memoria filogenetica. Dice molto di come siamo.


In Techno Bit, con grande lucidità, tu tocchi alcuni dei punti chiave associati alla pervasività del digitale; ne scelgo tre: memoria, identità, ibridazione, e ti chiedo di commentarli, facendo riferimento ad alcuni testi presenti nella raccolta e contestualizzandoli nei tre frame più ampi che li contengono, ovvero tempo, rapporto tra Sé e Altro, realtà aumentata.


Questa è una domanda davvero densa, grazie. Spero di non dilungarmi troppo e smarrirmi nel cercare di rispondere.

Provando a leggere qualche libro che parla di fisica mi sono imbattuto in una descrizione di un evento sub-atomico interessante, credo fosse in Dirac. Un elettrone riassorbe un fotone ancora non emesso. Il tempo come lo conosciamo noi in quel mondo di particelle non esiste. Eppure quel mondo è la base di cui siamo fatti e di cui è fatto il reale quotidiano che esperiamo. Nasciamo, cresciamo, invecchiamo e moriamo. E non è mai capitato si siano manifestate queste fasi di vita in ordine cronologico differente. Ecco, l’emergere di questo ordine temporale avviene in contemporanea all’emergere di questa realtà dalla realtà sub-atomica, almeno questo è quanto ho capito. Il frame del tempo affiora allora come determinante ed estremamente significante per noi, materializzandosi nella memoria, la traccia di questa scansione cronologica. Ora, credo la Rete, potenzialmente infinita banca dati de-storicizzata (unicum che raccoglie la potenziale totalità dell’esperienza umana), e lo smartphone (strumento per eccellenza di connessione tra la Rete e la realtà concreta, fisica) stiano agendo sulla nostra percezione della memoria e del tempo. L’esperienza, sempre più mediata, archiviata e forse successivamente esperita viene molte volte caricata nel mondo virtuale dove passato e presente convivono e si mescolano, quasi a destrutturare la scansione temporale (questo peraltro è un aspetto che andrebbe approfondito, quando una foto è postata viene davvero in qualche modo esperita? E da chi? Da chi l’ha scattata? O da chi la incontra online? E che dire del luogo, della situazione rappresentata nella foto?). Contemporaneamente i media ci ricordano quanto avevamo postato tempo prima. Rinnovando in qualche modo la scansione, ma quasi togliendoci dalla cabina di regia. Da psicologo immagino possibili terapie per la riemersione mediatica di contenuti rimossi. Da lettore di fantascienza nella mia adolescenza immagino i possibili usi di tali ricordi. Per la prima volta nella storia umana il problema non è non ricordare. Abbiamo addirittura sviluppato una legislazione in merito al diritto all’oblio. Ecco, qualcosa sta cambiando nel nostro rapporto con la memoria e con il tempo (pensiamo anche alla cancel culture, non a caso sviluppatasi ora: il voler riscrivere i romanzi classici eliminando i termini che possono infastidire il lettore contemporaneo, in sostanza appiattendo tutto sull’attualità del presente), compito dell’arte e della poesia credo sia giocare con queste trasformazioni per abitare la nuova realtà e per aprire possibilità e percezioni alternative.

Ma quando si modifica il rapporto con la memoria si entra a gamba tesa nella costituzione dell’identità. Tema, quello dell’identità, peraltro già destabilizzato da questa coesistenza di una doppia realtà. Floridi, da una prospettiva filosofica, lo ha affrontato con la categoria dell’Onlife. Ma a livello individuale essere immersi nell’infosfera oltre alla realtà quotidiana, concreta, sta agendo sulla percezione di sé stessi e sulla vita sociale. Si potrebbe quasi dire la Rete abbia stravolto il nostro modo di pensarci e di incontrarci, nel bene e nel male. Anzi, penso, la categoria morale debba essere rigorosamente espulsa da queste considerazioni. Non è compito dell’artista o del poeta. Però è interessante notare come nel mondo reale permanga un approccio all’altro basato sulla negazione (elemento appartenente al linguaggio, alla parola, non alla natura) mentre sulla Rete, sebbene in prima analisi si vedano le possibili amplificazioni di queste modalità di identificazione, si aprono possibilità differenti di identificazioni multiple in positivo. Ora mi è più facile frequentare chat, stanze twitch, gruppi nei quali mi identifico per quanto sento di essere e non per quanto non sono. Rende più libera l’adesione alla propria identità (e non è un caso sia entrata in crisi l’idea di genere oggi e non nel ‘68).

Credo emerga, già da quanto accennato finora, l’impatto della retroazione e della susseguente ibridazione su di noi. Qui penso sia fondamentale la nozione di limite. L’essere umano è divenuto tale circa 2,5 milioni di anni fa, quando ha preso in mano una pietra appuntita per aiutarsi a cacciare. È l’utilizzo tecnico di uno strumento ad averci reso umani. Quel gesto ci ha fatto oltrepassare un limite. Quel gesto ha permesso all’uomo di modificare la propria esperienza e di generarsi altri limiti da superare. Ora abbiamo di fronte, raggiungibili, dei limiti inimmaginabili sino a pochi anni fa. Il corpo, questo spettro che trapassa, questo medium che siamo e ci trasforma nell’interfacciarci con la realtà esterna e con la nostra coscienza (qualunque cosa essa sia) può essere modificato. Alcuni artisti stanno lavorando in questo senso, penso a Neil Harbisson e alla sua antenna a infrarossi, ma per ora restando nell’ottica di un intervento per meglio sopperire a deficit di qualsiasi genere. Un leggero passo in più rispetto a un trapianto. Ma cosa succederà quando ci impianteremo una coda per sola necessità estetico-emotiva? Ecco: stiamo arrivando a poter modificare il corpo in modi prima impossibili, il piercing del futuro potrà aprirci a retroazioni e ibridazioni sinora inimmaginabili. E cosa succederà se davvero si arrivasse a un meta-verso di molteplici orizzonti? Ma come potrebbe essere il meta-verso? Un’esperienza di intrattenimento con elementi di confusione esperienziale ora neanche immaginabili? O resterà nel solco della televisione e dei social che lasciano la singola persona isolata a interfacciarsi con una finzione?

E ancora, se sconfiggessimo la morte? Qui immagino ci sarebbero persone pronta a firmare immediatamente e altre che inorridirebbero. Posizioni, direi, entrambe legittime.


Tra i vari elementi che caratterizzano questa tua raccolta, due si pongono, anche dal punto di vista visivo, con grande immediatezza al lettore: uno specifico uso dello spazio-pagina da una parte, la traduzione dei testi in inglese dall’altra. Emerge chiaramente l’alta significanza che tu attribuisci a questi fattori che si configurano – e la nuova dimensione Meta lo ha delineato in maniera ancora più nitida – come orizzonti di senso perennemente aperti e maneggiabili.

Che relazione esiste tra il bianco del foglio e il vuoto spaziale avvertito? La promessa della Rete relativa alla riduzione delle distanze fisiche si è davvero attuata? Togliere il disordine post Babele coincide con una volontà di democratizzazione linguistica?


Innanzitutto, credo la Rete non abbia mantenuto appieno le sue promesse, sia di democratizzazione dell’esperienza di vita, sia di riduzione delle distanze. E’ nata con intenti libertari, ma è rimasta soggiogata dalle logiche commerciali e capitalistiche. Tutto è rientrato nella logica del profitto. E dell’innominabile accordo tra gestori di servizi e noi utenti. Vendono i dati raccolti su di noi e non ci fanno pagare in denaro i servizi offerti. E finché non guarderemo anche la pagliuzza negli occhi di noi utenti anziché solo la trave delle affordance delle piattaforme, non riusciremo a cambiare la situazione. Se dai la colpa ad Amazon per la crisi del commercio tradizionale, ma non guardi alla nostra pigrizia che incita all’ultimo miglio e ai difetti di efficienza del sistema commerciale tradizionale, non riuscirai mai a comprendere la portata del fenomeno.

In sostanza abbiamo creato una realtà virtuale partendo dai dati di quella reale, quasi fotocopiandola nelle sue manifestazioni commerciali, ma con efficienze molto più elevate perché si limitano al massimo gli imprevisti del reale. Ma oltre a questo aspetto la rete ha amplificato le nostre possibili esperienze. Sicuramente ha dato la parola a molte più persone e ha permesso a molti di avere accesso alle informazioni. Da questo punto di vista si può dire che davvero ha democratizzato l’accesso alle informazioni, alla possibilità di esprimersi e di aderire in positivo al proprio senso di identità. Ma forse proprio per questa offerta si ha la percezione di vuoto. Viene naturale il pensarsi non esistenti se non si abita la Rete. Ma al contempo, credo essere nella Rete sia anche come lo sparire della goccia nel mare. Come il bianco del foglio, la Rete offre potenzialità infinite, come il bianco del foglio può atterrire chi si trova di fronte. Sicuramente, però, sta modificando il linguaggio. Sia per la scrittura, spezzata, rotta, frammentata (le mie risposte alle tue domande mal si addicono alla fruizione online), sia per la rottura della logica della negazione fondante la realtà. Oggi non basta più la parola. Sono le immagini, sempre più in linea con la realtà dei mezzi di comunicazione di massa, ma con l’aggiunta che chiunque ha sempre a portata di mano uno strumento per fotografare e postare. A pensare oggi al cavallo di Troia, quanti post avremmo di selfie mentre lo si costruisce, ci si nasconde dentro, si esce di soppiatto nella città dormiente e si massacrano le persone? Come sarebbe scritta l’Iliade oggi? La parola, forse, sarebbe un’appendice. Ma, credo, sempre necessaria.

Per quanto riguarda la poesia visiva, lo spazio-pagina è parte integrante della poesia. È una forma poetica aperta ad altre dimensioni oltre a quella linguistica. Nello specifico per raccontare la trasformazione in atto ho voluto usare solo le parole, nella tradizione della poesia concreta. Perché le parole utilizzate nello spazio-pagina possono amplificare il proprio significato. In particolare mi sembra destrutturino la logica della negazione insita nel linguaggio. Le dissonanze proposte in alcune poesie, inserite in un contesto visivo, permettono di uscire da tale logica, di soffermarsi sulle potenzialità trasformatrici di tale accoppiamento. I significati possono auto-amplificarsi aprendosi nello spazio. E volendo affrontare il tema della rivoluzione digitale ho articolato l’occupazione dello spazio in modo tale da rendere subito evidente l’aver utilizzato il computer per la loro composizione. Volevo immettere il lettore visivamente nell’argomento. Peraltro, ripeto, è interessante come proprio dalla riduzione informatica della logica linguistica si stia sviluppando un percorso umano di allontanamento da tale logica, a proposito di inattese retroazioni. I testi nella pagina a fianco sono da interpretarsi come chiavi di lettura, possibili e non esaustive, del testo visivo. Un tentativo di invogliare il lettore a giocare con le assonanze o le dissonanze. La traduzione in inglese era necessaria. Volendo fare un’opera visiva con le parole della contemporaneità, molte delle quali non tradotte in italiano, ho ritenuto utile tradurre anche inglese le chiavi di interpretazione.

Personalmente non penso sia mai esistita una volontà di democratizzazione linguistica, peraltro non avrebbe molto senso. E credo sia assolutamente fondamentale non perdere la frammentazione linguistica attuale. Abbiamo già perso troppe lingue, e tra queste metto anche i dialetti. Ogni lingua agisce sul modo di pensare e di relazionarsi con il mondo circostante in maniera differente. Esse, nel rappresentare le istanze delle culture che le hanno forgiate, retro-agiscono sulle culture stesse e le modificano. Ogni lingua ci dice del diverso approccio di un uomo rispetto agli altri e all’ambiente che abita. In realtà ritengo sia importante capire se l’attuale trasformazione linguistica, non più basata sulla scrittura, ma sempre più multi-sensoriale, stia ampliando le possibilità espressive di ogni cultura o se le stia guidando verso un’uniformità espressiva. Ma ora siamo agli esordi di questa rivoluzione. Non sappiamo neanche se si imporrà come forma espressiva. Dobbiamo viverla. Consapevoli nel suo luogo di attuazione, la Rete, l’autorialità perde pregnanza. Quando un qualcosa viene postato non è più tuo. Come ha già detto, meglio e ben prima di me Kenneth Goldsmith, quando pubblichi qualcosa su internet chiunque può riprendere il tuo contenuto e farne altro. Da questo punto di vista stiamo tornando verso l’oralità dei primordi.


Alcuni tuoi testi sono confluiti nel volume Distanze obliterate. Generazioni di poesia sulla Rete (Puntoacapo Editrice, 2021) in cui, come Alma Poesia, abbiamo provato a indagare la complessità del rapporto tra poesia e Rete, favorendo una prospettiva di analisi transgenerazionale.

In riferimento al tuo gruppo anagrafico di riferimento, quello dei nati negli anni Settanta, quali punti di continuità hai trovato con gli altri autori? Nel complesso, quale idea ti sembra traspaia da parte di chi scrive poesia oggi rispetto al dualismo sovracitato?


La poesia non può, oggi, non parlare di Rete. Come non può non parlare della luna, dei sentimenti, di un pallone. La poesia deve parlare delle esperienze di vita dell’uomo. Ciascun poeta deve applicare il proprio prisma deformante alla realtà che lo circonda. La poesia è immersione in quanto ci è attorno. È lo smarrirsi in quanto ci è attorno. Allora, forse, bisogna chiedersi come si può ancora essere poeti in un mondo che è caratterizzato da una costante generazione di smarrimento. Come disorientarsi nel disorientamento? Buttandosi nel visuale? Tornando alla metrica? Tuffandosi nella poesia parlata degli slam? Scrivendo instant poetry online? Penso si possa ancora essere poeti. E credo tutte le forme poetiche possano ancora essere utilizzate. E sì, ci saranno belle poesie e brutte poesie, quale sia la forma utilizzata. È più difficile forse. Bisogna smarrirsi nello smarrimento. Smarrirsi nel particolare per riemergere con qualcosa che forse non può più essere l’universale, considerato che nella realtà generata dalla Rete tutto è universale ma è pensato, esperito e vissuto come particolare. Ma credo la poesia oggi sia particolarmente viva e la Rete possa aiutarla a riemergere dall’oblio generalizzato in cui è caduta. In fondo continuare a fare poesia, quando da un secolo se ne canta la morte, è già di per sé un atto poetico, non trovi?

Per quanto riguarda il volume Distanze Obliterate penso possa rimanere nel tempo. Lo vedo come un’antologia dell’annegamento. Lo vedo come un fermo immagine di questo annegamento. E sicuramente l’uso fatto dai singoli poeti delle parole della Rete, dice molto su di loro e sul loro prisma deformante. In generale, però, mi sembra in tutte le generazioni emerga forte il tema del corpo. E questo non mi stupisce, perché, credo, proprio lì si giocherà la partita importante nel mare di informazioni. Sino a che punto potremo trasformare in informazioni il nostro corpo? La sua concretezza? Ecco, si tratti di protesi macchiniche interconnesse o meta-versi futuristici, come si intrecceranno impellenze materiali e smaterializzazione dell’esperienza di vita?

Per quanto riguarda i punti di continuità con i poeti della mia generazione, non sono un critico e credo si debbano mantenere ben separate la fruizione estetica di una poesia e la fruizione critica. Mi limito quindi a dire questo: rispetto ad altre generazioni siamo equidistanti. Abbiamo vissuto senza la rete, ma in età non avanzata ne abbiamo avuto l’impatto. Mentre le generazioni precedenti possono anche non viverla, noi non possiamo. Ma rispetto alle generazioni successive, in continua oscillazione tra rifiuto e constatazione di una realtà nella quale si è immersi, abbiamo un termine di paragone. Ecco, forse, siamo la generazione che può porsi più domande.


Ti chiedo, per concludere, se hai un inedito recente, sempre riferito a queste tematiche, da volere commentare e condividere con noi.


Mi sto interrogando molto oggi su quanto è stato fare poesia nell’era dell’oralità, nell’era della scrittura e oggi. Inizialmente mi sembra la poesia mirasse a immergere l’individuo entro l’ambiente in cui viveva. Successivamente, con lo svilupparsi della logica duale, arte e poesia si sono poste quasi in opposizione alla realtà, all’ambiente di vita. Direi come antitesi tese non tanto a una sintesi quanto più a facilitare la percezione dell’ambiente stesso. Oggi la situazione è più complessa. Siamo in una situazione mediana. Mi sembra vi siano forme d’arte indirizzate verso l’aprire percezioni e altre più mirate a immergere gli spettatori nell’ambiente. Sarebbe bello riuscire a trovare una sintesi tra le due modalità. Queste riflessioni mi accompagnano ogni volta che scrivo un testo. Ma ancora non so dove sono.

Ci stiamo muovendo nella perdita di pregnanza delle distinzioni tra soggetto e oggetto, tra pubblico e privato, sempre più rivolti a dialogare con assistenti vocali che non con altre persone, sempre meno in contatto con la natura (vissuta come paesaggio e non come tale, e, da agricoltore, posso garantirti vi è un’immensa differenza). A volte ho la sensazione che uno degli elementi chiave di quest’epoca sia il tema del binario. Tiene in sé molteplici letture. È un tema immersivo. Il linguaggio binario dell’informatica, banalmente (ma se diventeranno realtà utilizzabili da noi tutti i computer quantistici molto meno banalmente). L’idea di non avere altre vie da percorrere se non seguire dove ci conduce il binario (ricordo una lettura di molto tempo fa, credo fosse in uno dei primi libri di Baricco, un magnate inglese affascinato dalla nuova invenzione che si fece costruire una ferrovia nella sua tenuta). Nella vita pratica, concreta, con la velocità che la contraddistingue e le innumerevoli implicazioni che la connotano, è sempre più difficile scegliere vie alternative e sempre più facile rischiare di essere sbalzati fuori. Nella vita virtuale, dove invece ci specchiamo continuamente nelle nostre molteplici identità, siano esse partecipazioni a chat, profili di applicazioni o chissà quale altra forma di rispecchiamento inventeremo domani; ma anche la continua replica del mondo prodotta in ogni istante e rilanciata nel virtuale.

Per concludere aggiungerei solo che sto continuando a sperimentare le potenzialità della poesia visuale e contemporaneamente ho abbandonato il verso libero a favore della metrica per quanto riguarda la forma poetica più classica.


non più vestibili i destini altrui

affidiamo a voci elettroniche

rapide richieste da esaudire

pronti a un futuro d'autorità:

nel nostro dialogo quotidiano

anche il tostapane a porsi assistente

siamo uomini in dimensione binaria


*


un elicottero per consentire

quieto emergere della natura:

gli orsi a ripetere loro stessi

in paziente attesa di una preda

e incuranti dei nostri sguardi

mediati da più precisi obbiettivi

a ripeterne posizioni e slanci


il tempo immoto dei fotogrammi

a produrre multipli d'assoluto


Roberto Chiapparoli (Tortona, 1974) ha conseguito una Laurea in Psicologia, collaborato con il Centro Frantz Fanon di Torino e pubblicato (con Simona Mandirola) un estratto della Tesi di Laurea. Ha pubblicato Traiettorie di Luján (Edizioni Ensemble 2014); Geometrie del sentire e dell’abitare (Ladolfi Editore 2016); Techno Bit (Punto a capo Editrice 2017); Maya, please come back home (Artist Matter n°1, Hans Braumüller and SdK 2019); Dialogo con il realismo terminale, in AAVV, Dove va la poesia? Riflessioni sul presente (Puntoacapo Editrice, 2018); Intervista su visual poetry (Tam Tam Bum Bum, n°1, gennaio 2019). È fondatore del laboratorio di poesia Parole in un bicchiere a Tortona.

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