Valentina Demuro
8 giu 20214 min
La poesia di Gabriella Grasso oltrepassa i confini attraverso un moto continuo, li rende fluidi, margini che si compenetrano e influenzano come per osmosi. Già attraverso il titolo della sua raccolta, Quale Confine (Edizioni Kolibris 2019), siamo portati a interrogarci sulla natura del limite. La mano distesa non è un gesto-segno che si staglia chiuso nella propria forma, bensì uno slancio per l’altro, per altrove «La mia mano / è distesa / colomba bianca nell’aria / librata nell’atto / di partorire un pensiero»
I confini sono permeabili, sono ponti di contatto; persino i termini utilizzati appartengono spesso alla sfera della permeabilità e portano intrinsecamente il concetto di scambio, «l’ascolto, il racconto / il migrare e l’incontro / saranno per noi / il solo modo di stare al mondo»
Il concetto si può estendere anche al panorama naturale che permea l’opera, in particolar modo nella sezione Tra l’albero e il cielo, perché la natura si fa antropomorfa, fusa nelle caratterizzazioni dell’uomo, ed è compartecipe della vita di quest’ultimo. Si erge una rosa altera nella sua spinosa e distaccata altezza o il dolore vive nelle crepe della terra che si spacca, addolcito solo dalla presenza della ginestra, quasi di leopardiana memoria. Le strade sanno farsi albe di prospettive nuove o ricettacolo di ricordi, un paesaggio interiore denso di memoria. Al ricordo si guarda anche con nostalgia, recuperando una sfumatura pascoliana, come suggerisce Chiù che compare tra i versi. La frontiera del tempo non è mai un confine invalicabile.
Tutti i capitoli dell’opera sembrano procedere per contrasti (Tra me e te, Tra l’albero e il cielo, Tra il falso e il vero, Tra il concreto e il mistero, Tra ieri e domani, Tra il vetro e le mani) attraverso cui sviluppare una dicotomia. A bene guardare, però, il fulcro dell’attenzione è spostato su quello che si frappone tra gli antipodi (come suggerisce la preposizione), sulla la ricerca del vero, oltre il segno definito delle forme e degli estremi. Si affronta anche il rapporto con i social e con le nuove forme di comunicazione che spesso si rivelano stranianti. A questo proposito trovo indicativa la scelta della tradizione nel recupero dell’incipit classico con invocazione alla Musa e, soprattutto, alla figura del contadino in Doppio Proemio, per la richiesta di verità e autenticità). Nell’autrice si compie una riflessione ontologica intima e personale che assume anche carattere universale, rompe gli argini e guarda al contenuto, non pone limiti ma indaga persino lì dove l’umano implica anche tutto il proprio mistero, nello splendere anche nell’errore e nella debolezza, nella capacità di essere adesso e insieme altrove, in un continuo cammino, «Il figlio dell’uomo / è in continuo vagare sotto i cieli del mondo».
Quale confine
Quale confine
tra me e te
quale contorno
alle sagome e ai pieni
quali steccati
ai nostri terreni
Se tuo figlio
è ungherese
e nel mio
scorre sangue ghanese
ed in fondo
stiamo al mondo
gemelli siamesi
tra noi
e lo spazio che è intorno
Quale distanza
tra gli oggetti
di questo universo
se il tempo
è un circuito soltanto
e l’oggetto
una sola
tra le tante
possibilità
L’interfaccia rimane
come liquido limes
dove scorre l’accordo
tra i ritmi di battiti altri
e fluisce il dialogo
tra le partiture
dove l’onda è armonia
Ogni luogo diventa
creazione e memoria
e dentro la storia
le persone diventano luoghi
nel cui movimento rivive
il confondersi e il ritrovarsi
Le radici diventano frutti
e di frutti si ciba ogni uomo
Quale sfondo
se l’ascolto e il racconto
il migrare e l’incontro
saranno per noi
il solo modo di stare nel mondo
Foglio di cielo
Foglio di cielo
in terra disteso
tra frasche e bitume
a suscitare forme
balenare colori
e sfumarli in pensieri
incostanti
in scorie e in rimpianti
sei un invito a restare
a non fuggire più
e a contemplare
il palinsesto dell’anima
le sue pagine logore e
rare
Libero
La mia mano
è distesa
colomba bianca nell’aria
librata nell’atto
di partorire un pensiero
e dargli la forma
mettendolo al mondo
lanciandolo
solo
nel cielo
nel volo
della sua e della tua
libertà
Gabriella Grasso è nata a Catania nel 1971 e vive ad Acireale, dove insegna lettere nella scuola secondaria. Si è occupata di linguistica e di LIS, Lingua dei Segni Italiana, su cui ha pubblicato alcuni contributi (Zanichelli, 1998, Edizioni Del Cerro, 1999). Cura la rubrica Limoni, all’interno del blog letterario «Bibliovorax», con note di lettura a testi poetici; ha collaborato con il blog «Letteratitudine» e con la rivista «Lunarionuovo». La sua opera prima, Quale confine, pubblicata nel dicembre 2019 per le Edizioni Kolibris (Ferrara), ha ricevuto un attestato di merito al Premio Montano 2020 e il premio della critica all’Etnabook 2020; è stata inoltre oggetto di recensioni e di note di lettura in vari spazi letterari («Poetarum silva», «Provincia letteraria», «Le Parole di P.Tricomi», «Almerighi wordpress», «The Book Advisor», «Scrittura Viva», «Poeti del Parco» e «Iris News»). Due poesie del libro, tradotte in spagnolo e in inglese, sono inserite nell’antologia digitale In Canto. Un suo inedito ha vinto il primo premio al Sonetto d’argento-Premio Jacopo da Lentini 2020.