«Per rifondare una cattedrale verde»: recensione a "L'indifferenza del cinghiale" di Pietro Berra
Viviamo occupando spazio, raramente abitando un luogo. Se uno spazio è un’area limitata sulla terra, non sempre è anche un luogo e infatti perché uno spazio diventi tale è necessario che si vada costruendo un rapporto tra l’individuo e l’ambiente circostante, come insegna la filosofa norvegese Annikenn Greve che di spazi si è occupata in uno studio del 1996. I versi di Pietro Berra raccolti ne L’indifferenza del cinghiale. Poesie e visioni della quarantena (I Quaderni del Bardo Edizioni, 2020) insieme agli scatti di Mirna Ortiz Lopez, raccontano con la forza dell’esperienza vissuta in prima persona proprio questo processo tramite cui è possibile trasformare uno spazio in un luogo e imparare così ad abitarlo, in una relazione che ha a che fare tanto con l’interiorità quanto con la fisicità del proprio corpo. Questi versi, sebbene nascano dalla quarantena, provengono da un germoglio che la precede di molto e senza il quale nessuna parola sarebbe fiorita così come ora possiamo leggerla. Sono passati nove anni infatti da quando Berra ha deciso di andare a vivere nei boschi che circondano la sua città, Como, su una mulattiera che sale verso il cielo. Lo dichiara esplicitamente nell’introduzione a questa raccolta, citando Walden, ovvero Vita nei boschi di Henry David Thoreau con una dichiarazione che è tanto personale, quanto poetica (e proprio in uno di questi componimenti arriva il geniale incipit «il personale è poetico»): «Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, affrontando solo i fatti essenziali della vita, per vedere se non fossi riuscito a imparare quanto essa aveva da insegnarmi e per non dover scoprire in punto di morte di non aver vissuto».
La quarantena, la prima, che abbiamo vissuto come un inverno della nostra esistenza, è per il poeta invece il ricco momento del raccolto. Chiudendosi la possibilità di un contatto con l’altro, si è aperta l’occasione di un ritorno al sé e ai luoghi dove questi trova pace: i 200 metri di alberi e arbusti che, inconsapevoli della fredda solitudine dell’uomo, continuano la loro esistenza. E accanto a questa esplorazione intima e interiore se ne affianca presto un’altra. Nel momento in cui le porte di casa si aprono, ma lo sguardo subito incontra nuove barriere che impediscono il contatto diretto con l’altro, le solitudini si riversano negli spazi inesplorati del bosco e una nuova umanità è portata a riscoprire la natura accanto a cui si era abituata a scivolare inconsapevolmente. È a questa umanità che si rivolge la parola di Berra, che, uscendo di casa o sbirciando dalle finestre, tra i rami degli alberi, anticipa con un quesito chiaramente esplicitato all’inizio della raccolta ogni possibile verso: «Siamo ancora capaci, mi sono chiesto, di muoverci non in branco? Di cercare strade personali, sentieri lungo cui camminare in compagnia dei nostri pensieri e niente più?» Il ritmo di questi versi infatti sembra essere costruito proprio sul rumore dei passi di chi si mette in ricerca, tanto l’io, quanto l’altro che l’io osserva. Questo suono è un’affermazione di identità chiara, una presa di posizione contro la minaccia dell’indistinzione di chi accetta di limitarsi a occupare e consumare spazio. Ogni passo detta il ritmo del nucleo quieto di ciascun essere umano, rivelandosi così come il centro di un divenire che, negli occhi del poeta, si mostra speranzoso, laddove il desiderio di fare ritorno alla natura fa capolino in un momento di acuta crisi. Abitare e camminare sono d’altra parte i verbi chiave per l’interpretazione di quest’impresa poetica: narrazione di un’abitudine personale acquisita e canto di una miracolosa riscoperta da parte dell’altro, ora lettore ora attore dei versi. Berra racconta così con passione come abitare un luogo sia anche una questione di memoria: «Bisogna avere il coraggio di guardare / sottoterra, riconoscere quelli / che ci hanno preceduti. / Accettare di seguirli.» Per intessere con lo spazio che ci circonda una relazione fondata su un rapporto di reciproco scambio, ci dice il poeta, bisogna conoscerlo. È necessario, sembrerebbe di poter dire, saperne chiamare per nome gli abitanti che ci fanno da coinquilini. «Buongiorno viole mammole / buongiorno aglio selvatico / buongiorno ortiche baciate / da un’ape audace / e solitaria come me. / Buongiorno pietre acquasantiere / che conservate il nettare del cielo / negli incavi scavati dai miei progenitori.» Dare il nome – e ricordarlo – è una faccenda importante: permette all’esistente di prendere dimora dentro alla nostra coscienza, oltre che nello spazio circostante. L’importanza di assegnare un nome alle cose è questione fondante della poesia di Berra che con i suoi versi esplora anche la dimensione del linguaggio come casa dell’uomo. Un ambito di ricerca questo a sua volta esacerbato dalla crisi della pandemia, che ci ha mostrato senza dubbio un’ipertrofia di comunicazione, spesso e volutamente ambigua. Ecco allora che lo sguardo d’amore verso il territorio diviene in questa raccolta sguardo di scavo verso la parola, a un tempo casa dell’interiorità e suo mezzo di espressione. «E allora diciamo grazie / a quel gran lavoratore del poeta / impegnato in un estenuante labor limae. / Perché il poeta non lima solo le sue unghie / ma quelle dell’umanità» Il rispetto con cui Berra fa delle parole il suo strumento per raccontare la sua casa va di pari passo col sentimento di sacralità che emerge dalle fotografie scattate da Mirna Ortiz Lopez, presenti alla fine della raccolta. La natura ritorna così a essere grazie a queste parole e a queste immagini un luogo di sacralità arcana, come quando, ai tempi degli antichi greci, si consideravano gli alberi santuari e i boschi luoghi sacri, inviolabili grazie a un rapporto di scambio e non di consumo con l’ambiente. «Io non abbraccio gli alberi / ma guardo le cime dei noci /che si sfiorano sulla soglia di casa / come si guardano Dio e Adamo / sulla volta della Cappella Sistina. / Io non abbraccio gli alberi / li prego.» Il miracolo dell’abitare un luogo poi, racconta il poeta, è osservare come esso sia capace di agire su di noi tanto quanto, se non più di quanto, noi stessi agiamo su di lui: «Abito il bosco da nove anni, ma lui / da molto prima mi abitava. / Dalla nascita, forse.» Ritorno alla natura e ritorno alla parola, in una parola ritorno a casa. Ma una casa, questa, che come la lettura suggerisce è luogo di semplicità, cui non si arriva se non mettendosi per strada, spingendo lo sguardo tra le cime degli alberi, ritornando a essere vivi su una terra amica e amici di una terra viva, non più sudditi di città estranee e stranianti. La strada che passa tra gli alberi, che porta dalle soglie delle nostre case dentro a una casa più grade e comune, è il luogo buono per eccellenza. «La legge del bosco / prima dei decreti degli uomini / mi aveva abituato a camminare / da solo sui sentieri.» È l’utopia che diviene eutopia in un tempo distopico, perché è lì – lo abbiamo scoperto in questi mesi – che è possibile un incontro vero con sé stessi, con l’altro e col mondo in cui viviamo. «Cammineremo tutto il buio / che ci è stato concesso. E arriveremo alla punta spartivento / in tempo per vederci sorgere / soli.»
Casa
Tra consumatori e consumati
pareva dividersi il mondo.
Io ero nella esile schiera dei secondi
divorato da uno sbattermi in giro
per consuetudine e sopravvivenza.
Ora ho ritrovato il mio teatro
dove le pareti parlano la lingua dei poeti
e i pavimenti rispondono con quella,
ben più complessa, degli insetti.
Ogni giorno metto in scena
il gioco della vita. Non sono
previste repliche fino al giorno
della dipartita.
Conoscersi è un bit
A mia moglie Mirna e a Pedro Salinas
che ci ha fatti incontrare
Il personale è poetico.
Il cellulare la nostra macchina
per scrivere, la penna d’oca
del terzo millennio.
C’è un mondo nel display
e scorciatoie ardite per raggiungere
l’altra faccia del pianeta.
Personalmente credo in ciò che vedo
soprattutto in quei segni
che chiamiamo scrittura.
Mi incanta il sentiero che collega
il cuneo dei sumeri al tuo T9.
Conoscersi è un bit.
E noi ci siamo conosciuti
nella distanza abissale che separa
due emisferi, ci siamo amati
nelle parole che vedevamo
dalle nostre finestre
nelle cime degli alberi
che accarezzavano lo stesso cielo
che affondavano le radici
nella medesima terra
e tenevano assieme i nostri antipodi
come un gancio intraplanetario.
Il personale è poetico
e poeticamente vi possiamo dire
che la distanza nell’amore
è direttamente proporzionale
alla fiducia che si deve dare
al sogno che si è capaci di sognare
alla poesia cui non possiamo rinunciare.
Duecento metri
Oggi ha piovuto, finalmente.
Il bosco risorge intorno a casa
e profuma come un santo.
Io esco dal sepolcro e mi stupisco
di quanta vita incontro
nei miei duecento metri.
Buongiorno viole mammole
buongiorno aglio selvatico
buongiorno ortiche baciate
da un’ape audace
e solitaria come me.
Buongiorno pietre acquasantiere
che conservate il nettare del cielo
negli incavi scavati dai miei progenitori.
E dopo tutto questo date almeno
legittimità al mio chiedervi
se la metropoli alveare
davvero serve agli uomini
per vivere meglio
o non piuttosto al re di turno
per meglio possederli.
Nato a Como nel 1975, è giornalista, dal 2013 responsabile de «L’Ordine», supplemento culturale domenicale dei quotidiani «La Provincia di Como» e «La Provincia di Sondrio». Ha collaborato per dieci anni con il settimanale «Diario» diretto da Enrico Deaglio. Ha pubblicato ventidue volumi tra poesia, narrativa e saggistica. Come poeta è stato tradotto in inglese, spagnolo, rumeno, polacco e bulgaro. Collabora con festival letterari e cinematografici, due dei quali ha contribuito a fondare (ParoLario e Lake Como Film Festival). Coordina il Premio internazionale di letteratura “Alda Merini” e presiede l’associazione Sentiero dei Sogni, con la quale promuove progetti legati alla scoperta e valorizzazione dei territori attraverso la narrazione, creando sia eventi periodici (come le Passeggiate Creative) sia sistemi permanenti di interazione tra l’uomo e il paesaggio (la Lake Como Poetry Way e il Parco Letterario “Da Plinio a Volta. Viaggio nelle scienze umane”). Con I Quaderni del Bardo ha pubblicato in precedenza le sillogi: Ode al vento. Una historia de antípodas (2015) e Atlante salentino. Geografie poetiche di una terra estrema (2018). Il suo sito è www.pietroberra.it.
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