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Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Le Rubriche di Alma: Alma & Anedda (I Appuntamento)

È uscito a settembre per Garzanti, all’interno della storica collana I Grandi libri, con prefazione di Rocco Ronchi, Tutte le poesie di Antonella Anedda, definitivo coronamento di un percorso singolare nel panorama poetico italiano. Un’uscita che ha dato occasione all’autrice di tornare sui testi, soprattutto sulle prime raccolte, modificando una lingua che era già coltello.

Il libro raccoglie tutte le sei raccolte dell’autrice: Residenze invernali (Crocetti, 1992), Notti di pace occidentale (Donzelli, 1999), Il catalogo della Gioia (Donzelli, 2003), Dal balcone del corpo (Mondadori, 2007), Salva con nome (Mondadori, 2012) e Historiae (Einaudi, 2018).

Per comprendere la poetica di Antonella Anedda, partirei con il suo esordio, che segna fin da subito una svolta ontologica dell’io poetico sul finire dello scorso millennio. La ricerca, in Residenze invernali, è quella di un’estasi laica della non trascendenza, un’opera che è «quasi miracolo» come la definì Amelia Rosselli. Residenze invernali è un libro sulla protezione della realtà che è singolare contrasto fra vivi, malati e morti[1].

Con una premessa di Arnaldo Colasanti, riconosciuto subito come libro folgorante, «Una lingua così aperta resta sorprendente; e lascia una pausa nel lettore, un'immediata e profonda intimità, pur senza riconoscimenti», in Residenze Invernali Anedda gioca su un tentativo che rimane un suo leitmotiv: la volontà o, meglio, la capacità, di manifestare un io-soggetto in prima persona femminile a cui richiede una capacità contemporanea di sguardo e di ascolto. Ma è anche un io con impennate improvvise, con scorci, effetti di straniamento che richiedono un’attenzione suppletiva.

Il pattern poetico si reitera e concresce nella stessa direzione: si entra in un testo apparentemente affabile, improvvisamente bisogna sciogliere dei nodi testuali che sembrano richiede più impegno, segue la vita dei dettagli e a un certo punto a questo io, capace di sguardo e di ascolto, viene chiesto all’improvviso di farsi da parte, di rinunciare a se stesso: questa è la scommessa di quei nodi stranianti: “Non parlavo che al cappotto disteso /al cestino con ancora una mela /ai miti oggetti legati /a un abbandono fuori di noi /eppure con noi”.

Come fa un io che viene interrogato (anche sulla sua identità sessuale è un io sessuato e non angelico), un io capace di sguardo, ascolto, ma anche capace di sottrarsi alla dimensione psicologica e a quel fondo di autobiografico, a rimanere in equilibrio? Parliamo di questo in Residenze Invernali, di un esercizio di equilibrismo e sottrazione. Di una lingua che si fa coltello in questa duplice capacità dell’io di straniarsi dal lato della psicologia, ma capace di scorcio e di sguardo negli elementi metereologici del ghiaccio, della neve e dell’inverno.

Residenze invernali è un libro iniziatico e iniziale, e ciò consiste, concludendo, in due aspetti: la libertà assoluta del lettore e la complessità delle polimetrie in gioco. Forme e oggetti si mostrano prima limpidissimi nella loro collocazione e poi d’un tratto sono scoperti a un’esperienza insieme inevitabile e sottile. Come ha detto anche la stessa Anedda a proposito, «Se qualcosa può fare il linguaggio è sterrare di volta in volta uno spazio all’interno del quale nulla sia superfluo, uno spazio mite, come un recinto dove gli oggetti e gli esseri respirino gli uni accanto agli altri, abbiano durata e luce»[2].



Ora tutto si quieta, tutto raggiunge il buio.


Non parlavo che al cappotto disteso

al cestino con ancora una mela

ai miti oggetti legati

a un abbandono fuori di noi

eppure con noi, dentro la notte

inascoltati.


(p.19, Anedda. Tutte le poesie, Garzanti, 2023)


Conta i frutti senza splendore

stella e autunno. L’urto

delle caviglie fino al buio.


Ti avrei amato di fianco

col brivido del marmo

su cui scende il coltello


Sbarre dentro catini

rovescio di bastoni.


Metallo e legno.

Ciò che si affila e resta

verticale. In verticale

dove nulla è rovente,

non desiderio

ma chiusa disciplina di soldati

che provano lo scatto nei cortili,

un povero frammento salito dalle foto

strette solo negli occhi.


Per servitù

che abbassa il ricordo ad un’impronta

così per te io bevo

conservando la sete

senza inclinare il mento

legandomi le dita una ad una

tra loro

in molte nozze

ora che i nostri nomi sfiocano distesi

marmo rovi e inverno


(p.54, Anedda. Tutte le poesie, Garzanti, 2023)


[1] Cfr. In dialogo. Intervista ad Antonella Anedda, a cura di P. Artale, «L’Ulisse di Lieto Colle», 1, 2006, pp.145-149: 145: «Le poesie di Residenze invernali sono nate da un’occasione: il figlio di un’amica ricovera-to in ospedale, e dalle immagini del contrasto tra vivi e morti nel camposanto di Pisa. Scrivendo (con quel miracolo assolutamente terreno che è la scrittura) sentivo che in quello spazio si affollavano letture del passato, immagini e oggetti che credevo dimenticati, trovavano una concretezza, un luogo: per questo il titolo “residenze” … Rispetto ai tentativi precedenti quella poesia (per me) aveva un senso, dava realtà alla realtà» [2] A. ANEDDA, Recinti, «Poesia», VII, 75, luglio-agosto 1994, p. 63



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