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  • Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Le Giovani Interviste di Alma: Lorenzo Fava

Continuiamo con Lorenzo Fava lo spazio di "Le Giovani Interviste di Alma", dedicato alla messa a fuoco del pensiero e della poetica di giovani autrici e autori talentuosi.



In Vile ed enorme (Arcipelago Itaca, 2022), già a partire dal titolo imposti quella contrapposizione dicotomica che sarà poi uno dei nodi di congiuntura di tutta la raccolta, animata da una tensione volta, appunto, a tenere insieme gli opposti; ciò che nell’immaginario saremmo portati ad associare al termine “vile” viene infatti accostato a “enorme”, che rimanda a tutt’altra sfera semantica.

Da dove deriva e dove vuole condurre questo dualismo aggettivale? Chi o che cosa è, allo stesso tempo, “vile ed enorme”?


La scrittura in versi è il modo che ho di leggermi nell’animo, nella psiche, nel cuore. Credo che scavando profondamente dentro se stessi si possa avvicinare quanto, nel sentire, é comune all’umanità tutta. Vile ed enorme è un sintagma di uno dei primi testi del libro, il nome che ha accostato è “sogno”. Credo siano due condizioni, estreme, di chi vive sentimenti ed eventi percependone l’impatto sull’umore. Sono stato felice in maniera esagerata per piccole cose, nella mia vita, ma sono stato anche molto male. Vile ed enorme sono due disegni sovrapposti, sono io che, scrivendo, li separo. Cerco di decifrare dove sia il bene e dove il male, facendo i conti con la mia fallibilità, ma anche con la mia vocazione, lo slancio vitale che è in tutti noi, e che ognuno va cercando.


Alessio Alessandrini, nella sua prefazione a Vile ed enorme, scrive che quello che tu rappresenti in questa raccolta è «un canto smisurato ed agonico, infinito; sotto le mentite spoglie della poesia e del suo ordine metrico, (la quartina in primis), quello che recita è una preghiera incessante.»; in effetti il verso diventa qui strumento per superare la finitudine dell’io e anche del tu, arco teso per far sì che la freccia giunga oltre il senso della fine e continui a vagare dentro il mistero, prima di conficcarsi da qualche parte.

In che modo l’esperienza umana si coniuga con questa estenuante e, al contempo, vitale ricerca del sé e dell’oltre-di-sé? Quale compito spetta, nello specifico, alla poesia?


Riprendo in parte quanto sopra, poiché credo il motivo che muove alla scrittura sia alla base della direzione che l’espressione poi segue. Direi che, se la poesia è stata il mio modo di leggere me stesso, con quello stesso criterio ho affrontato la realtà, o almeno l’ho fatto per molti anni, a partire da quando ho iniziato a leggere poesia. Tu poni giustamente la questione “poesia” in maniera separata, dato che nel nostro vivere sono gli eventi, nel bene e nel male, a formarci. Di affrontare una malattia e conoscere il dolore o, al contrario, di raggiungere un traguardo ed essere gioiosi non tutti hanno la stessa percezione, ma credo che la vita sia con la poesia in un gioco di specchi che rende complesso capire come si coniughino fra loro. È il cortocircuito, a mio avviso, che è tra l’altro alla base del titolo di cui sopra dicevamo. La poesia è una questione da tutto e niente in perenne lotta e ricerca, ecco perché credo (ma sono, ahimè, lontano dal verificarlo, e forse non ce la farò mai) possa essere un modo valido di leggere la realtà che ci circonda. Sul fatto che invece sia un buon modo di conoscere almeno se stessi, invece, posso esserne abbastanza certo: per me lo è stato.



È la calma dell’algebra a dettare

tempi e partiture, a chiudere i segni

e spalancare ferite. Avverto

segni di cedimento in ogni dove:

perché non ci sia nulla di inespresso

che non abbia posto lassù,

abbi qualcuno a cui dire qual è stato

il nome che ha esploso ogni poesia

con tutta la violenza della luce.

Questo testo, tratto da Lei siete voi (Lieto Colle, 2019), include alcuni termini che rimandano a concetti reiterati continuamente dentro la raccolta: il nome, che assume in altri componimenti anche la forma di parola o di voce; l’algebra e l’impellenza di ricorrere, in qualche modo, a un sapere scientifico capace di misurare e quantificare; la ferita, emblema di spazio aperto da cui entra ed esce il dolore.

Vuoi commentarci questi tre elementi, spiegarci in che modo interagiscono e declinarceli nella loro propulsione ad andare verso l’altro?


L’algebra e in generale la sfera matematica credo siano modi di dare un ordine a cose che altrimenti si confonderebbero. Il motivo per cui, pensandoci ora, credo i termini matematici fossero ricorrenti nei testi di quegli anni è che allora cercavo di capire come funzionasse il meccanismo della composizione e algebra, denominatori, sottrazioni, angoli e vertici fossero i concetti che più mi permettevano di esprimermi in maniera sincera e originale, fedele a me e al mio modo di scrivere del periodo. La ferita, anzi oserei dire le ferite, sono quelle che per tanto tempo ho visto indagandomi, scrutandomi all’interno. Tutti ne abbiamo, di questo sono convinto: io ho sempre cercato di non essere la ferita di qualcun altro. Riguardo al nome, non so: possiamo dire che il nome è la nostra parola per antonomasia. Credo nel complesso questi lemmi comunque ricorressero molto nel mio pensiero, la composizione dei versi poi cercava una formula linguistica per farli suonare, dar loro una forma, la sola grande questione cruciale su cui mi interrogo da più di dieci anni.


Vorrei spostare la conversazione sul discorso relativo a poesia e Rete, di cui Alma è attenta a raccogliere testimonianze. Sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti.

Qual è la tua posizione a riguardo? Come vedi il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?


Io credo la poesia dovrebbe dire qualcosa che riguarda tutti, nessun escluso. Io, ora che me lo chiedi, in maniera forse estremamente ingenua credo che la rete sia un mezzo; non tanto un argomento, perché la sua lettura sarebbe impossibile da chi, banalmente, può non essere iscritto ad un social, il che ovviamente non ha nulla a che vedere con la poesia. Va dato atto ad internet di aver aperto strade a riviste eccezionali che chissà se sarebbero state permesse dalla carta. Ma ripeto, la questione secondo me rilevante a proposito è: come far sì che il pubblico della rete si districhi nel mare magnum che viene proposto? Come far sì, ai tempi di internet, che una persona che usa Instagram riconosca la bellezza? La poesia, quella vera e altissima, “l’albatro con le sue ali di gigante spalancate”, se mi permetti la semicitazione, sono convinto sia sopravvissuta a cose ben peggiori che essere fraintesa per quella che fa cinquecentomila like su Instagram. Quello su cui secondo me è necessario spingere, ora più che mai, è la fruizione consapevole della lettura di una frase o di un verso, che hanno connaturata una complessità che forse non si è ancora pronti a decifrare. Le cose cambieranno inevitabilmente nel corso dei decenni.


Siamo nel 2022, eppure il dibattito intorno alla questione del gender in poesia sembra non essersi ancora esaurito: da una parte ci si continua a chiedere se, in effetti, la poesia possa averne uno o se, in quanto arte, prescinda da qualsiasi suddivisione a riguardo; dall’altra l’inevitabile constatazione della prevalenza di poeti uomini nelle antologie scolastiche e pure nel panorama poetico contemporaneo.

Alla luce della preponderanza che il tema del femminile sta assumendo nel dibattito odierno tout-court, come inquadri l’argomento e qual è la tua opinione a riguardo? Soprattutto, prevedi un’evoluzione verso altre traiettorie per un futuro prossimo?


Sia letto chi merita. Io, che non posso esimermi dal vivere questi anni e a questi solo sono confinato, credo che la categoria sia quella umana, il genere di chi scrive e legge non mi interessa. Se qualche scellerato decidesse di avere occhi di riguardo per un uomo perché maschio o per una donna perché femmina, o si intromettesse il genere dell’autore nelle griglie di giudizio estetico su un testo, credo che il motivo andrebbe rintracciato in una scarsa intelligenza - se non una rancorosa malafede - da parte di chi legge e giudica. Certo, se si volesse limare lo scarto che giustamente sottolinei fra le antologie che, nel corso della storia, hanno compreso gli uomini più che le donne bisognerebbe fare, per un bel po’ di tempo, antologie solamente al femminile, come pure sono state proposte. Ma nemmeno questa mi pare una soluzione del tutto lecita. Non si può scegliere il sesso alla nascita, ma grazie al cielo abbiamo oggi, tutti, la possibilità di diventare chi siamo, ciò a cui più corrispondiamo. Io auspico solo che nessuno sia costretto ad essere ciò che non sente di essere. E che i lirici trovino le parole per dare forza alla bontà anche nelle questioni di genere.


Ti chiedo di scegliere da Vile ed enorme tre testi e di riportarli qui per le lettrici e i lettori di Alma.


La sola cosa che hai a cuore

è la sincerità dell’intento. T’infuria

chi ha occhi sulla luna e non morde

dall’alba un nuovo sole.


*


Dio interloquisce per un attimo

e la parola è libera di volare.

Pronuncia oltre il confine del pensabile,

siede a margine con gli ultimi,

ha imparato la bontà dai cuori

degli sconfitti, dalle menti più lucide

il massimo della calma, dalle mani

dei veri la faccia della vittoria.

Ne ha memorizzato i lineamenti

come la storia fa con gli eventi,

ha imparato da mille ripetizioni

l’arte del respiro. Del perdono

ha fatto una scultura gigantesca,

ha cavato il marmo dalla nebbia

e ne ha prodotto un uomo buono.

Domanda qualcosa che precede

lo zero, il punto ultimo di chi ha

il passato di fronte.


*


Avrai detto qualcosa più del rimpianto,

uomo che dipendi da una vertigine

e dal suo fulcro, la tua vita non sarà

passata invano, alla fine avrai inghiottito

veleno e ambrosia, distrutto il sosia

di te stesso che sei stato, avrai imbrattato

muri eretti di vergogna, non sarà tua

la morte muta che hai visto in faccia,

avrai luce come da una stella, vedrai

fin dentro la selva, un gorgoglìo di terra

verrà su dal magma, sarà stato tuo

il canto di un sordo, il volo sopra la sera

di un albatro, non rimarrà la polvere,

solo la memoria di un gesto comparato

al silenzio, a forme che ottennero

l’ascolto.


Lorenzo Fava, nato ad Ancona il 12 giugno 1994, vive a Macerata dove lavora come giornalista. Nel 2019 ha pubblicato, per LietoColle, Lei siete voi. Collabora con l’associazione culturale “Licenze Poetiche” e dirige la rassegna di incontri “Conversi” alla biblioteca della poesia di Macerata. Sue poesie sono apparse su diversi blog e riviste online tra cui “Inverso”, “Atelier” ed “Avamposto”. Vile ed enorme è la sua seconda raccolta.

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