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  • Immagine del redattoreMartina Toppi

Le antichità di Alma (appuntamento n°5)

UN AMORE DI FRATELLI: DIOSCURI OVVERO I CAVALIERI DEL CIELO


Gli antichi li avevano soprannominati “i cavalieri del cielo” perché nei momenti di maggiore difficoltà erano soliti invocare il loro aiuto e alzare gli occhi verso le stelle per scorgere il loro intervento benefico. Eppure i Dioscuri non erano certo noti per essere stati dei prodi cavalieri, anzi, per quanto entrambi fossero stati valorosi eroi, la loro storia è passata di generazione in generazione grazie a un evento che nella sua straordinarietà ha qualcosa di estremamente umano. Castore e Polluce – sono loro i protagonisti di quest’ultima puntata delle Antichità di Alma dedicata alle stelle - più che eroi, più che cavalieri, più che salvatori erano due fratelli.


LE ORIGINI DI UN MITO: FRATELLI SEPARATI ALLA NASCITA


Alceo fr. 34 Voigt


Venite qui, lasciate la terra di Pelope,

forti figlioli di Leda,

apparite con cuore benevolo, Castore

e insieme Polluce,

voi che sulla vasta terra e su tutto il mare

galoppate sopra cavalli di zampe veloci

e facilmente liberate i mortali

dalla morte lacrimosa

balzando sui pennoni delle navi

da lontano brillate lungo le sartie

e nella notte cupa portate la luce

sopra la nera nave.


In questo frammento del poeta greco Alceo – vissuto tra il VII e il VI secolo a.C. – i due fratelli Castore e Polluce vengono presentati al lettore insieme alle loro principali caratteristiche. Originari della terra di Pelope, il Peloponneso, dove furono fondati i giochi Olimpici, questi due giovani uomini innanzitutto sono ricordati per essere figli di Leda. La loro storia in effetti ha inizio da un fatto bizzarro, anche se non certo unico nella mitologia greca, che tocca in sorte a Leda: la donna era sposata con Tindaro, ma Zeus, follemente innamorato di lei e desideroso di sedurla, non era disposto a fermarsi di fronte al legame coniugale. Il mito narra allora di come il padre degli dei si fosse trasformato in un cigno, una creatura maestosa e dal morbido piumaggio bianco, capace di ammaliare la donna sulle rive del fiume Eurota, al punto da accoppiarsi con lei. A seguito di questo incontro, Leda avrebbe deposto un uovo contenente i suoi futuri figli semidivini: il luminoso Polluce e la splendida Elena. Ma, quella stessa notte, si sarebbe poi unita in amore anche con il marito Tindaro, re di Sparta, e da questa unione sarebbero nati altri due figli: i mortali Castore e Clitemnestra


TENEREZZA E LEALTÀ: IL LUMINOSO LEGAME TRA I DIOSCURI


Nel mito la coppia di fratelli viene spesso ricordata con due nomi differenti, talvolta sono i Dioscuri, ovvero i “figli di Zeus”, talvolta invece si parla di Tindaridi, i “figli di Tindaro”, quasi a voler rimarcare come per gli antichi fosse difficile concepire la loro natura intrinsecamente diversa e separata, vista la loro costanza nel comparire uno a fianco dell’altro nelle più disparate avventure. Sembrerebbe infatti uno strano scherzo del destino quello che, fin dalla nascita, forza una separazione tra due individui che invece non desiderano altro che passare insieme ogni istante della propria esistenza. E in effetti, nonostante nei miti compaiano sempre insieme – dalla missione di salvataggio della sorella Elena, che all’età di dieci anni venne rapita da Teseo, fino alle mirabolanti avventure a bordo della nave Argo, la prima imbarcazione della storia a solcare i mari - qualcosa di molto diverso li attende sulla soglia della morte. Se infatti Polluce, in quanto semidio figlio di Zeus, oltre quella soglia vede di fronte a sé le immense distese dell’eternità, per Castore invece la morte segna un confine invalicabile e gli mostra come i suoi anni altro non siano se non polvere in una clessidra, destinata prima o poi a esaurirsi. Una differenza non da poco, il cui peso tuttavia sembra farsi evidente davvero solo quando i due si trovano faccia a faccia con la morte e la sua azione irreversibile sull’esistenza umana.

Per narrare questa storia possiamo avvalerci delle parole di Pindaro, un altro poeta greco, vissuto tra il VI e il V secolo, che ai Dioscuri dedica una parte della sua Nemea X. In quest’ode composta in onore dell’atleta Teeo di Argo è il casato di quest’ultimo a offrire l’occasione per narrare la vicenda dei Dioscuri che in un tempo lontano furono ospiti di un antenato di Teeo. Dopo aver brevemente ricordato le origini mitiche dei due fratelli, Pindaro passa alla narrazione di uno degli eventi centrali della loro parabola mitologica: lo scontro con un’altra coppia di fratelli, Ida e Linceo, ovvero i figli di Afareo, re di Messene. La lotta tra le due coppie di fratelli nasce per questioni legate a un furto di bestiame, mentre altrove sarebbe stata una contesa amorosa a dar luogo alla lotta senza quartiere che porta alla morte dei due Afaretidi, l’uno ucciso da Polluce e l’altro fulminato da Zeus, ma anche a una ferita mortale inflitta a Castore da Ida.


Pindaro Nemea X, vv. 73 ss.

[…] Rapido tornò il figlio di Tindaro dal fratello Castore, e lo trovò


non morto ancora, ma che ancora esalava


tremando l’ultimo respiro.


Bagnando di calde lacrime le guance gemette a gran voce: «Padre Zeus, quale sarà la fine del mio lutto? Concedi anche a me la morte


insieme a lui, signore. Non ha più onori l’uomo privato dei suoi cari:


pochi fra gli uomini sono tanto leali nel dolore


da condividere la pena». Così disse;


e Zeus gli andò dinnanzi,


e pronunciò queste parole: «Tu sei figlio mio;


lui invece fu concepito


dal seme mortale dell’eroe che ebbe in sposa tua madre, ma io ti offro comunque questa scelta:


se tu ora vuoi fuggire per sempre la morte


e la vecchiaia odiosa, e abitare insieme a me sull’Olimpo,


con Atena e Ares dalla nera lancia,


questo ti spetta; ma se invece vuoi salvare tuo fratello,


e sei pronto a dividere alla pari con lui ogni cosa,


metà tempo vivrai con i morti sotto terra, metà tempo nei palazzi dorati del cielo».


Così parlò, e non ebbe dubbio alcuno Polinice,


ma subito riaprì gli occhi e ridonò la voce


a Castore armato di bronzo.


Nel narrare la scena commuovente che vede Polluce e Castore posti di fronte all’eventualità di una definitiva separazione, eco di quell’originaria nascita da padri diversi che ha segnato per sempre il loro destino, Pindaro usa un aggettivo essenziale: “è leale la stirpe degli dei (θεῶν πιστὸν γένος)”. La πίστις è la lealtà ma anche la fiducia che ne consegue ed è qualcosa che segna in ogni fase evolutiva il rapporto tra Castore e Polluce. L’epilogo della loro storia dunque non è altro che l’esito naturale di un rapporto profondo, costruito negli anni, alimentato di esperienze vissute sempre l’uno a fianco dell’altro, nella buona sorte perlopiù e ora, alla resa dei conti, anche in quella cattiva. A dimostrare la naturalezza del sacrificio di Polluce, che per Castore rinuncia all’immortalità, c’è la tranquillità con cui il padre Zeus lo accetta e anzi è egli stesso a proporgli quella soluzione che sa poter essere la più pacifica per l’anima del figlio. Scorgiamo così nei versi di Pindaro una tenerezza che pervade anche un personaggio spesso dipinto come duro ed egoista: in questo frangente Zeus è disposto a rinunciare ad avere eternamente al proprio fianco il figlio pur di non vederlo soffrire per tutta l’eternità nei palazzi dorati dell’Olimpo:


[…] Tu sei figlio mio;

lui invece fu concepito

dal seme mortale dell’eroe che ebbe in sposa

tua madre, ma io ti offro comunque questa scelta.


La tenerezza che avvolge il rapporto tra fratelli aleggia su di loro e raggiunge dunque l’inscalfibile padre degli dei che, colpito da questo rapporto così intenso e sincero, si apre alla possibilità e, invece che imporre al figlio l’ineluttabilità del destino, lo pone di fronte a una scelta, lasciandolo libero. La πίστις che lega Castore e Polluce è l’elemento che permette la conclusione magica, più che tragica, della loro storia, qualcosa che Polluce non avrebbe nemmeno osato sperare nel momento in cui provò a innalzare la propria preghiera a Zeus. Il fratello semidivino chiede la morte, in effetti, e se pensiamo a come gli antichi greci immaginavano l’aldilà – un luogo oscuro popolato dai fantasmi di ciò che un tempo era stato – difficilmente si può pensare che avesse in mente un destino desiderabile. Certo è però che per lui la morte era qualcosa di ben più accettabile di un’esistenza a metà, senza Castore.


[…] Non ha più onori l’uomo privato dei suoi cari:

pochi fra gli uomini sono tanto leali nel dolore

da condividere la pena.


Queste sono le parole con cui Polluce giustifica la propria richiesta a Zeus e tra di esse nuovamente la πίστις ritorna: la fiducia e lealtà che scorrono nel rapporto tra Castore e Polluce - un rapporto che è fatto di sangue, ma che supera la realtà terrena del sangue - sono tali da spingere il secondo a condividere la tragica fine del primo.Ecco allora che la soluzione di Zeus giunge in soccorso: se davvero i due sono pronti a condividere tutto, non solo Polluce dovrà morire, proprio come Castore, ma anche a Castore toccherà condividere qualcosa col fratello, ovvero la vita eterna. In questo modo i due fratelli separati biologicamente alla nascita diventano un unicum sulla soglia della morte. Un’esistenza a metà, dice Zeus nel descriverla a Polluce, perché metà del tempo io Dioscuri lo passeranno con gli dei, nell’Olimpo, e l’altra metà coi morti, nell’Ade. Ma nell’udire quelle parole il giovane semidio comprende che in realtà l’offerta che il padre gli sta ponendo di fronte agli occhi è quella di una vita piena, perché vissuta nell’intima tenerezza con il fratello amato.

Nel decidere di sacrificare metà della propria gioia pur di sollevare dalle spalle del fratello metà del suo dolore, Polluce è libero. Perché è questo che fa l’amore quando è vero e non ha confini: lascia liberi di allontanarsi. E soprattutto, come dimostra Pindaro con questi versi impregnati di delicatezza, un amore di questo tipo è così sicuro di sé da non lasciare spazio a dubbi e da riuscire a essere perfino contagioso.

Polluce non ci pensa due volte e di fronte alle parole di Zeus nemmeno verbalizza la propria decisione:


[…] Così parlò, e non ebbe dubbio alcuno Polinice,

ma subito riaprì gli occhi e ridonò la voce

a Castore armato di bronzo.


Dopo questi ultimi tre versi la voce del poeta si sospende, la sua eco risuona per qualche secondo prima di spegnersi ed è in questa infinitesimale frazione di tempo che il lettore di ieri, come quello di oggi, può immaginare cosa sia successo. Il corpo di Castore, ancora non deceduto ma non più del tutto vivo, giace a terra mentre un filo di fiato dalle sue labbra sale, supera la testa di Polluce e i suoi capelli sparsi sul petto del compagno di mille avventure, arrivando fino a Zeus e inebriandolo di una dolcezza che nessuna offerta votiva, nessun miele, nessun incenso potrebbero mai eguagliare. La tenerezza che scorre tra Castore e Polluce non è solo contagiosa, è visibile per chi nei versi di Pindaro prova a perdersi. Dopo le parole tuonanti di Zeus, il gesto di Polluce che leggiamo in questi versi è tanto silenzioso quanto potente: una mano che si allunga sul viso amato del fratello, sfiorandone i lineamenti uguali ai propri, ma che conservano in sé una vita unica e inimitabile. Le dita di Polluce sfiorano le palpebre appena chiuse e scivolano sulle labbra ancora umide di quell’ultimo respiro sospeso, mentre dentro di lui la scelta si fa definitiva. Ed ecco che Castore, armato di bronzo, l’eroe mortale che mai chiese per sé il dono dell’eternità, apre gli occhi, li fissa al cielo e dà corpo alla propria voce.

Che cosa possa avere detto o quali parole possano aver dato suono alla gioia di tornare in vita non ci è dato saperlo. Qualunque lettore abbia conosciuto in vita sua l’amore per un fratello o una sorella però può immaginare, nel profondo del proprio cuore, quale frase possa invece aver preso forma sulle labbra di Polluce nel vedersi infine e per sempre restituito il fratello.


STELLE, MONUMENTO DELLE NOSTRE POSSIBILITÀ


Nello scegliere la storia di Castore e Polluce come ultima tappa di questo viaggio stellare la guida non sono state tnato le costellazioni che infiammano il cielo, quanto piuttosto il valore di un racconto che dura nei secoli e la cui eco ci raggiunge nelle mura delle nostre case dove viviamo in presenza o nel ricordo di chi amiamo proprio come Polluce ha amato Castore. La vicenda dei Dioscuri potrebbe chiudersi così, come Pindaro ce l’ha consegnata, nella perfezione di un gesto che catalizza un amore eterno. Eppure, il mito ha ancora qualcosa da raccontarci sul destino dei due fratelli separati alla nascita e uniti nella morte ed ecco che proprio qui le stelle tornano a brillare su di noi:


Eratostene, Catasterismi 10

Si dice che costoro siano i Dioscuri. Cresciuti in Laconia, acquistarono grande fama e superarono chiunque nel dare prova di amore fraterno. Infatti non vennero mai a contendere né per il potere né per altro. Zeus, volendo conservare memoria della loro capacità di condividere ogni cosa, lì chiamò Gemelli e li pose entrambi nello stesso punto fra le stelle.


Sono Castore e Polluce le due stelle più brillanti della costellazione riportata nell’immagine all’inizio di questo articolo: Pollux è la stella più luminosa, dal colore arancione, pulsante di energia nel mezzo di un universo buio, e noon distante da lui c’è anche Castor, una stella dal bagliore bianco, famosa per essere un sistema multiplo costituito da ben sei componenti. Castor è una stella fatta di stelle, quasi come se la natura dell’universo provasse a ricordarci la ricchezza dell’esistenza di questo giovane uomo, con il quale Polluce era disposto a condividere qualsiasi cosa, persino la morte. Ed è il ricordo di questa condivisione a essere citato da Eratostene, nel brano qui sopra riportato, come la ragione principale per cui Zeus stabilità di porre un segno dei due fratelli nel cielo stello. Che siano stati i loro corpi a essere trasformati in stelle tramite un catasterismo o che il padre degli dei si sia limitato a trasmutare la loro storia in un elemento celeste è discutibile. Certo è però che la costellazione dei Gemelli trionfa nel cielo come un monumento in loro onore. E se a qualcuno di voi è capitato di imbattersi nel latino prima o poi nella propria vita, saprete che un monumento non è mai qualcosa di statico e freddo, come siamo abituati a pensare quando parliamo di statue di marmo. Un monumento è al contempo ricordo e ammonimento, qualcosa che resta e che restando ci parla, ci ammonisce, ci ricorda. Le stelle, anche se fredde e lontane, anche se fisse, non sono mute e nel dedicare ai i Dioscuri una costellazione Zeus segna un punto nel mito e una traiettoria nella storia, rammentandoci che in mezzo a centinaia di miti di fratelli rancorosi, fratricidi sanguinosi e odiose vendette, qualcosa si salva. Quella tenerezza infinita che lascia liberi di scegliere e che rende desiderabile anche un’esistenza a metà, tra vivi e morti, perché la pienezza non risiede dentro di noi ma va cercata altrove, là fuori, in altri volti e altre vite.

E le stelle fisse della costellazione dei Gemelli sono sempre pronte, fin dai tempi degli antichi, a ricordarcelo.

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