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  • Immagine del redattoreDiego Bertelli

«La parola amore se esiste è letteraria»: recensione a "Vera deve morire" di Julian Zhara

Vera deve morire di Julian Zhara (Interlinea, 2018) è di sicuro uno dei libri di poesia più interessanti di questi ultimi anni. Prima e unica pubblicazione di questo autore bilingue (Zhara è nato a Durazzo, in Albania, ma vive in Italia dal 1999), la raccolta è definita, o quantomeno va letta come se fosse un «canzoniere». Ciò consente di fare una considerazione preliminare sulla figura femminile che appare nel titolo e sull’ipotesi della sua reale esistenza. Dato che nel libro il nome della donna non ha di fatto alcun referente concreto, il richiamo petrarchesco evidenzia la funzione prettamente poetica di Vera. Si tratta di una possibilità, naturalmente, che si lega al «rimando palesemente shakespeariano» di Zhara e richiama, peraltro, un film del 2000, Romeo must die, rivisitazione cinematografica della tragedia veronese del regista Andrzej Bartkowiak. Quest’ultimo riferimento si esaurisce però sul piano della disposizione della frase, perché invece è un altro l’elemento da considerare a chiarimento della scelta autoriale di «ricostruire tramite poesie-scene il resoconto emozionale dello strappo tra chi narra e Vera». È questo un racconto di August de Villiers de L’Isle-Adam che prende il titolo dal nome della donna “protagonista” della narrazione. Lei, Vera, è la defunta amata del conte d’Athol, il quale a sua volta vive segregato per un anno nell’illusione — allucinazione — di averla ancora al suo fianco.


La compresenza di questi elementi in Vera deve morire mette da subito in rilievo la vocazione intertestuale, prima ancora che sentimentale e lirica, di un’operazione simile, e invita a un certo tipo di lettura. Se, come scrive ancora Zhara «Nella lingua dei tuoi antenati / la parola amore se esiste è letteraria», l’amore e l’eros sono il mezzo di un’operazione ben precisa sulla lingua e sul verso che ha l’intento di ottenere una composizione formale specifica. Per questo il poeta sente il dovere di fornire un chiarimento nella nota esplicativa alla raccolta: «L’istanza lirica che pervade questo canzoniere composto per lo più nel 2017, si sviluppa all’interno dell’area metrico-prosodica definita dalla triade Rosselli/Pascoli/Pavese. La metrica è per lo più libera, anche se è ingente il lascito della metrica accentuata teorizzata da Fortini ma tradotta dove Fortini stesso si era fermato: nella propensione all’oralità».

Se a leggere Vera deve morire si fa decisivo il rapporto tra scrittura e oralità (Zhara è legato alla poesia performativa e ai poetry slam, ma riporta la questione entro il solco delle formulazioni relative alla poesia orale fatte da Ong per giungere agli esiti contemporanei di un Colangelo o di un Frasca), è anche preoccupazione dell’autore insistere su un tipo di relazione diversa: quella che mette a reagire la lingua acquisita, ossia l’italiano, con l’albanese, lingua madre. Un testo della raccolta in particolare, Nella lingua dei tuoi antenati, propone al lettore un lavoro stilistico espressivo che lo stesso Zhara riporta nel solco della pascoliana Italy: «Nel sonno mi dici un po’ dopo, parli tanto / e che dico?, chi ti capisce, parli albanese, / mos ikë, mentre ti blocchi / nel disegno del tappeto, të dua, pa ty, / parli un tono più giù, tra un mese kam frikë / me kupton, po ti? […]» La declinazione di questa superlingua, che è anche reinterpretazione di una lingua del sogno, porta il bilinguismo di Zhara a risultati le cui ripercussioni non sono soltanto espressive, ma anche metrico-prosodiche. Il poeta cerca sempre un’accentuazione più che una misura, qualcosa che non possa prescindere da una forma ma che, allo stesso tempo, riesca a sfuggirle: quello che potremmo definire il sogno di libertà di un prigioniero dello stile (sensazione perfettamente riprodotta nella lirica Continuo ad aggrapparmi disperato ai tuoi fianchi). Entro questa dimensione ben delineata, Vera deve morire diviene senza dubbio il banco di prova per fare i conti con l’azione che l’albanese ha esercitato ed esercita più o meno consapevolmente sull’italiano, specie là dove il poeta “orale” si confronta con l’aspetto “condizionante” della scrittura.

Tuttavia c’è dell’altro, la parte forse più sostanziale, che prescinde dal resto ed esula dal mettere alla prova la tenuta espressiva della lingua o, viceversa, quella linguistica dell’espressione. Si tratta più semplicemente della forza che in Zhara informa i testi del libro, e la tensione conoscitiva che ne risulta: «Che geloso com’ero del tuo passato / di un uomo soltanto: tuo padre, / di te, delle altre, da prima, l’uomo / su cui hai modulato l’idea di uomo / nel lastricare il percorso di mimi / fuggendo o calcando l’immagine miliare, / i volti degli altri uniti a creare uno suo: sbiadito. / Di nessun altro sono mai stato geloso». Inizia così la poesia che mi ha spinto a parlare di Vera deve morire, a leggere il libro. Un corpo a corpo con gli indizi di una visione dell’amore che parte da sé stesso per portare a termine la costruzione dell’abbandono e della fine (Vera deve morire, appunto, ma non esiste). Sviluppandosi attraverso un alto tasso di letterarietà, che ha però una forte connotazione pop, la descrizione degli eventi, la scansione dei giorni e dei momenti, così come i riferimenti a certo «paesaggio industriale veneto», al «piano urbanistico» o ancora le citazioni musicali, fanno intravedere una continuità con il presente e permettono accostamenti, per esempio, con un autore come Francesco Targhetta. Zhara si muove così tra ritornelli dance (come nel caso di What is love? di Haddaway) e versi shakespeariani che riduce a un vero e proprio potpourri poetico. Penso in questo caso agli ultimi due versi della poesia conclusiva di Vera deve morire, dove Macbeth e Amleto si mescolano insieme e al posto di «urlo e furore» entrano in gioco fame e rumore: «Quel che rimarrà, di noi / sarà fame e rumore». Certamente l’intertestualità già citata del libro è uno degli elementi attraverso cui ricostruire il paradigma del bisogno e sviluppare il contrasto tra le parti in gioco, la dicotomia io-tu, in questo percorso del pensiero su qualcosa che non è successo ma di cui si fa, ad arte, la cronaca. In questo senso a una sezione come Probation (una settimana) è altrettanto indicativa dello sguardo fisso sull’invisibile che racconta giorno per giorno cosa accade. E qui si ritorna ancora a August de Villiers de L’Isle-Adam, all’elemento sentimentale intrinseco, al concreto aspetto dei fantasmi, della visione, ma anche a Petrarca, al personaggio la cui esistenza è funzionale a quella di colui che parla di lei, oggi, che la fa esistere nel passato, che la descrive assente nel presente, di cui immagina le ripercussioni future sullo speaker in the poem, il tutto con quel tanto di décadence che permette ancora di pensare che «l’opera d’arte serve / l’artista soltanto».


Ph. Dino Ignani

Julian Zhara è nato a Durazzo (Albania) nel 1986. Si trasferisce in Italia nel 1999 e attualmente vive e lavora a Venezia. È poeta, performer e organizzatore di eventi culturali. Nel 2014 partecipa con un progetto di spoken music a Generation Y, al MAXXI e nell’omonimo documentario andato in onda su Rai 5. Dal 2013 al 2016, cura assieme al collettivo Blare Out il festival Andata e Ritorno di Venezia e per Cà Foscari un ciclo di presentazioni e convegni. Nel 2016 gli viene assegnato il Premio Internazionale di Poesia Alfonso Gatto per i giovani; cura la direzione artistica del festival di poesia Flussidiversi/9. Sue poesie sono presenti in La poesia italiana degli anni Duemila di Paolo Giovannetti (Carrocci, 2017). Nel 2018 esce per Interlinea il suo primo libro di poesie: Vera deve morire.






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