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  • Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Intervista a Tommaso Di Dio

Questa è l'intervista che Alessandra Corbetta ha fatto a Tommaso Di Dio, una delle voci delle ultime generazioni più significative del panorama poetico contemporaneo. Hanno parlato dell'ultima raccolta dell'autore e della sua produzione in versi precedente, del rapporto tra poesia e Rete e di molto altro.


L'intervista si chiude con un inedito che Di Dio regala ad Alma e a tutti i suoi lettori.


Tommaso Di Dio (Ph. Riccardo Frolloni)

Innanzitutto grazie di aver accettato questa intervista per Alma Poesia.

È stata da poco pubblicata, per Interlinea, la sua nuova raccolta, Verso le stelle glaciali, e sono già uscite diverse recensioni e note di lettura a riguardo, ognuna con il focus posto su uno degli aspetti che la caratterizzano. Prima di entrare nel dettaglio, ci piacerebbe che ce la presentasse lei, mettendo in risalto quelli che sono, a suo avviso, i nodi fondamentali dell’opera.

Non saprei bene da dove cominciare. Verso le stelle glaciali è un libro che ha stupito prima di tutto me: mai mi sarei aspettato di mettere insieme poesie e riferimenti così distanti fra loro. Forse partirei proprio sottolineando la sua non omogeneità: è un libro costruito da materiali molto diversi (ci sono immagini, prose, poesie) che provengono da luoghi lontani della mia scrittura e della mia vita e che ho provato a raccogliere sotto una sola direzione. Potrei dire che il libro è costruito come una sorta di romanzo allegorico in quattro itinerari. Ogni capitolo è come se fosse un libro a sé: ha uno suo spazio tempo, un suo peculiare modo di costruire la soggettività e l'oggettività; ma ciascuno di loro porta il lettore a confrontarsi con il medesimo ostacolo. E così, uno dopo l'altro, i capitoli e i mondi si susseguono come se fossero legati da un filo che sta al lettore trovare, fino all'ultima prosa dove questo ostacolo diventa un trampolino per uscire, per andare al di là del libro stesso: il viaggio vero e proprio inizia proprio quando si finisce di leggere l'ultima pagina. Posso aggiungere che, contrariamente a quanto mi accade di solito, mi sono divertito moltissimo a comporlo. Ho provato ad andare al di là di una certa tendenza disforica di tanta poesia dell'ultimo secolo. Spero che il lettore si senta partecipe di questo slancio ironico.

Verso le stelle glaciali esprime la necessità di fare ordine tra le cose, di tracciare, o almeno tentare di tracciare, un percorso nello spazio che sia, prima di tutto, un percorso di senso. Ce lo dimostra il ricorso alle mappe, a geografi ed esploratori e anche il titolo che, seppur rivolto a una meta utopica o, comunque, non reale, indica una direzione, un movimento verso. In questa peregrinazione metodica non si sconfina mai nell’astrattezza, poiché tutto è sempre ancorato a un corpo che, insieme all’oggetto parola, resta un caposaldo del suo scrivere.

In quest’opera, qual è nello specifico il rapporto tra la tensione ad andare e scoprire un luogo e un tempo altro e l’essere materialmente nella contingenza spazio-temporale dell’hic et nunc?

Verso le stelle glaciali è un libro che si è costruito lentamente. La forma finale che ha raggiunto è dipesa poco dalle miei intenzioni e invece moltissimo da alcuni fatti che mi sono accaduti durante questi anni: dallo svolgersi imprevisto e imprevedibile di alcune relazioni. È come se fosse un precipitato, un concrezione a cui un tempo successivo ha dato ordine: un libro che non poteva che essere così, anche se mi sarebbe stato impossibile prevederlo. Non avrei mai immaginato di dover seguire un caro amico in coma e poi il suo lento risveglio; non avrei mai immaginato che una manciata di poesie che riscrivono il diario del primo viaggio di Colombo verso le Americhe sarebbero diventate, all'improvviso in un'estate, il modo per uscire da quel dolore e provare ad andare verso un nuovo continente di scrittura. Cosa tiene insieme questi due mondi? C'è l'ospedale e tutto quel dolore realissimo e poi c'è la gioia di inventare e costruire un mondo di fantasia a partire dalla storia di un viaggio nel Rinascimento? È come se con Verso le stelle glaciali avessi provato a costruire una meditazione sul rapporto fra la molteplicità inesauribile e insensata delle cose che compongono la nostra vita e il senso altrettanto profondo dell'unicità che ci portiamo addosso, in ogni cosa che facciamo: siamo un “io”, composto completamente da materiali che non sono “io”. Per dirla altrimenti, una coscienza fatta di materia. Come accade questa cosa? C'è un passaggio bellissimo in un racconto del grande Daniele Del Giudice, Nel museo di Reims (1988), che recita così: «Devo difendermi da quell'immaginazione che collega le stelle tra di loro, come i punti di una vignetta enigmistica, e fa dire “l'Orsa!” o “il Carro!”, mentre tutto nella realtà è staccato, disunito, non messo lì per assomigliare a qualcosa». Ecco, da un lato, anch'io con la poesia provo a difendermi da quel sogno che fa credere le cose legate insieme in un senso univoco, nondimeno, se si osserva con attenzione, dobbiamo ammettere che tutto è sì disunito, ma proprio in me e per me, adesso: tutto è legato insieme in un “qui”. E non c'è altro che “questo”, che esplode di momento in momento, in mille direzioni. Verso le stelle glaciali prova ad avvicinarsi a questa consapevolezza.

L’idea è che questo sorgere

non si arresti. Due donne: una è vecchia

e cammina curva

col braccio legato all’altra

che ad occhi chiusi perché cieca

alla prima, totalmente, si affida.

L’idea è che non smetta.

Che moltiplichi.

Facce strade. Ringhiere pentola piogge.

Un’altra poi, una ragazza. Con il ventre gonfio

è incinta. Ha i pantaloncini corti. Cammina

per la sua strada mentre mastica

verso una casa che non sa. L’idea

è che continui; che si sbilanci, si frammenti cada

in mille corpi e parole sogni

alzati gesti e bui

momenti fertili, stupidi. Guarda. Non c’è più niente

che ci tenga qui. Siamo

senza storia. Soli. Liberi.

Questa poesia a titolo di esempio per una considerazione: nonostante le grandi scoperte geografiche e le esplorazioni più celebri siano associate a figuri maschili, e quindi anche la sua opera, per il richiamo al tema, dovrebbe limitare il ricorso a quelle femminili, in realtà si assiste a una generosa presenza di donne, mai stereotipate, ma rappresentate sempre in pieno vivere e come foriere di vita.

Vuole raccontarci come si pone la scrittura di Verso le stelle glaciali, e più in generale la sua poetica, rispetto all’elemento femminile?

Suonerà un po' ridicolo, ma ti posso rispondere soltanto così: se ci sono figure femminili nella mia poesia è perché ci sono figure femminili nella realtà in cui mi trovo. Non posso prescindere dalla vita che mi circonda: tutto per me parte dall'osservazione, dall'incontro – anche brutale – con chi abita lo spazio in cui vivo. E per “spazio” intendo anche lo spazio delle idee, dei concetti e dei preconcetti che formano la realtà in cui siamo immersi, non meno denso e concreto dei “fatti”. Con questo intendo anche le differenze di genere, maschile e femminile che, in ultimo, sono soltanto una costruzione culturale. Di solito, il mio lavoro parte come se fossi un fotografo di strada: giro nel mio quartiere, guardo, osservo, prendo i mezzi pubblici, cammino; qualcosa mi colpisce, cerco soltanto l'inquadratura giusta per farla risaltare. Lo sforzo massimo è cercare di aderire con gli strumenti della scrittura alla scena: da qui il lavoro sul ritmo, sul lessico, sulla sintassi. Poi una volta che la scena è restituita, cerco di non cadere nell'idiozia di una presunta oggettività: inizio a “smuovere” il componimento affinché il lettore si renda conto che sta leggendo una composizione: nessuna ingenuità, nessuna innocenza. C'è sempre, inevitabile, una mente che compone, una storia, una soggettività. Per esempio nella poesia che hai riportato, ho inserito alcuni versi che spezzano l'immagine e che restituiscono al lettore un possibile lavoro di comprensione, ma non il risultato: quello deve scaturire dal lavoro del lettore. Una volta che questo processo si è compiuto, la presunta realtà da cui si è partiti può anche essere trasformata. Così alcune “donne” che ho incontrato nella realtà sono diventati “uomini” nelle mie poesie (è accaduto ovviamente anche il contrario), esclusivamente per ragioni ritmiche interne al libro. Non è la verità dei fatti ad interessarmi, ma la verità del processo, o per dir meglio ancora: il processo come verità.

Nella raccolta Tua e di tutti (Collana gialla Pordenonelegge, Lieto Colle 2014) la parola riveste un ruolo centrale, poiché è lo strumento con cui procedere alla nominazione delle cose e anche quello con cui tentare di sottrarsi al vuoto di senso. Il titolo, tra l’altro, lascia intendere un’idea di condivisione della parola o, meglio ancora, di comunione, in cui il verbum viene messo in comune e si fa comunicazione, nel senso etimologico del termine. Come descriverebbe questo percorso in versi che, attraverso il linguaggio, porta dal singolo agli altri, dall’uno a tutti?

All'inizio è il respiro. E il respiro non è di nessuno: è un niente che circola anonimo. È il vento di cui parla Pasolini nella sua stupenda poesia La presenza di Trasumanar e organizzar: «Il nulla era un vento». L'inizio della poesia è qui. Questa è la materia mobile su cui il poeta opera: questo nulla-vento, questo respiro anonimo e onnipresente, sempre direzionato e intenzionato, sempre però pronto a spostarsi, a mutare direzione, a trasformarsi, ad ingrottarsi nel corpo di qualcuno. In questo senso tutta la poesia è orale, ribadirlo è secondo me davvero ingenuo: parte dall'atto di interiorizzazione e esteriorizzazione del vento-nulla. Il punto è che questo atto biologico nella poesia diventa culturale: non possiamo fare a meno di respirare, ma ogni cultura costruisce il suo proprio modo di emettere il fiato e così articolare con questo nulla-vento quello che noi chiamiamo linguaggio. Da qui l'ambiguità che da sempre concerne l'atto di poesia: evento denso di significato, ma infine solo flatus vocis. Se la poesia è allora l'arte più povera di tutte (se respiri, puoi poetare), è nondimeno il luogo dove si riconosce, si mette in forma e si celebra questo nulla che scorre. Il poeta (cioè chiunque metta all'opera una poesia) è questo iato fra il dato naturale e il dato culturale. Da qui il ruolo millenario delle metriche, mille modi di mettere in forma e condividere quello che era già di tutti, ma non riconosciuto come di tutti e che la poesia restituisce, una volta tornito, come conoscenza collettiva (che da noi, in Occidente, non può prescindere dalla scrittura). Qui sorge l'idea della comunicazione. Anni di confusione ci hanno portato a pensarla come il trasferimento di un messaggio da un emittente verso un destinatario. Ed è sicuramente un modello molto utile per certi scopi: scopi economici, scopi semplificatori. Ma per la poesia, che è il regno della densità, proprio non funziona: la poesia è semmai un modo della comunione, una relazione corale e cosciente con la cultura di una certa comunità e con ciò che la limita e la eccede (una volta si sarebbe detto “con i suoi dèi”). Grazie alla parola della poesia, ci sentiamo “appartenere” a qualcosa e contemporaneamente “superati” da qualcosa. Tutto ciò non ha niente di mistico o di misterioso. Chi ha studiato un poco la storia dei riti, sa che nel rito (ovvero nell'azione efficace) tutto è una questiona di tecnica: è una consapevolezza che si genera mediante le parole solo se si costruiscono le parole in un certo modo e le se si sa leggere nel modo in cui si innesca il loro meccanismo. La poesia è questo strano meccanismo: una macchina che riproduce e restituisce il nulla-vento e genera la presenza, solo a patto di saperlo innescare: di averne il bisogno.

In una nota conclusiva a Tua e di tutti riporta i nomi di alcuni poeti dei quali ha ripreso, all’interno della sua opera, alcuni versi. Sono, nell'ordine: Alceo, Giacomo Leopardi, Clemente Rebora, Giovanni Pascoli, Thomas Stearns Eliot, Friedrich Hölderlin, Giorgio Caproni; qualcuno di questi è anche un suo maestro e cioè una di quelle figure che ha inciso significativamente sul suo percorso di formazione poetica? Ce ne sono anche altri?

Quando ci si immette nel flusso della scrittura, tutti coloro che ci hanno preceduto sono significativi. Nessun poeta è escluso. E ogni grande poesia, come Ezra Pound o Andrea Zanzotto hanno saputo mostrare al massimo grado, è l'avverarsi di tutte le scritture che ci precedono. Certo che alcune poesie mi sono state più vicine: i nomi che ho lasciato al termine di Tua e di tutti sono una traccia, una piccola autobiografia per interposta scrittura. Se dovessi aggiungere qualcuno, vorrei qui fare il nome di alcuni miei contemporanei, anzi coetanei: ho avuto la fortuna di incontrare nella mia generazione tanti scrittori, colti, appassionati, per cui la poesia era ed è una forma di vita, non solo un passatempo più o meno erudito. Fra tutti, mi piacerebbe ricordare Maria Borio, Carmen Gallo, Franca Mancinelli. Sono tre autrici che leggo e rileggo da anni, prima ancora che fossero edite, e verso cui nutro una stima immensa. Mi hanno aiutato non solo con le loro opere, ma in un dialogo vivo che dura tuttora, a costruire una consapevolezza e una fiducia verso la poesia che non avrei mai raggiunto senza la loro presenza.

La sua prima pubblicazione, Favole (Transeuropa 2009) vanta la prefazione di Mario Benedetti, grande poeta da poco scomparso. Vuole raccontarci il suo rapporto con lui e gli insegnamenti più importanti che le ha lasciato?

Difficile per me riassumere in poche battute quella che è stata per me una grande amicizia. Ti confesso che adesso non me la sento proprio: non mi è facile parlarne. Quella prefazione a Favole del 2009 è legata ad un ricordo per me molto bello, che ho già raccontato e non mi ripeto[1]. Se qualcosa mi ha lasciato Mario, per quanto riguarda la poesia, è il senso della frattura: insisteva spesso su questo punto. Non c'è poesia che non mostri una ferita nel linguaggio, una spaccatura, un'anomalia. La poesia è una forma di interruzione del discorso, un modo per toccare all'estremo l'afasia e poi provare a parlare, da lì; non è mai l'esibizione virtuosistica o concettuale di “parole in posa”. Provo a non dimenticarmi di questo, mentre scrivo.

Mentre in Tua e di tutti e in Verso le stelle glaciali la parola è del tutto strutturata ed esplicitata, in Favole, nonostante mantenga una funzione centrale, viene contornata da un alone di incertezza e di indefinizione. Lo stesso Mario Benedetti, nella prefazione, scrive infatti che qui «le parole diventano ombre».

Come spiega, nel passaggio da una raccolta all’altra, il suo viaggio con la parola?

Beh, fra un libro e il successivo molto accade. Sono tre libri completamente diversi, perché sono stato una persona diversa e il mondo in cui si collocavano era completamente altro. Favole è stato costruito nel 2008 e raccoglie solo in minima parte un universo di scrittura a cui avevo iniziato a dare forma nei quattro anni precedenti. Sono partito da circa 300 testi e dopo un lungo lavoro ne ho selezionati 14, uno in meno dello spazio disponibile. Ricordo una casa di Milano, nel quartiere di Porta Venezia, cosparsa di fogli A4 appesi alle pareti o gettati sul pavimento, sul letto: così costruivo la sequenza. Come un pittore la propria serie di quadri, correggevo, cambiavo, riscrivevo, buttavo. In quegli anni, cercavo una forma, un linguaggio che non fosse retorico. E per me era necessario azzerare, portare la lingua ad una sorta di opaca neutralità. Riuscire ad esprimere un senso di inermità con la parola della poesia: il suo essere lasciata sola, segno sperduto, testimonianza di un rapporto intimo io-tu che provava a mostrare «il nudo del viso». Per questo lì le parole «diventano ombre» e provano ad essere «senza esempio». Leggevo molta poesia francese in quegli anni. Tanto Paul Éluard e Guillaume Apollinare certamente, ero stato fulminato dall'incontro con Milo De Angelis e il suo Tema dell'addio e dalla lettura di Umana gloria di Mario Benedetti, ma è stato centrale anche un poeta tradotto poco in italiano, che è stato Thierry Metz. Il suo libro del 1995, Lettres à la bien-aimée, ma anche il suo bellissimo Le journal d'un manœuvre (1990) sono stati dei riferimenti. Lo lessi per la prima volta grazie ad una piccola edizione dal titolo L'uomo che pende (edito in Italia da Via del vento di Pistoia nel 2007). L'ultima poesia di Favole è una variazione da un testo di una sua plaquette del 2000: Sur un poème de Paul Celan. Al tempo invece di Tua e di tutti del 2014 avevo l'ambizione di costruire un vero e proprio libro, un organismo più completo e vasto, che funzionasse come un orologio cieco: un orologio senza quadrante. Pur senza una esplicita continuità tematica né formale, le parti del libro si susseguono con una logica ferrea, matematica, astratta. Ci sono voluti almeno tre anni per costruire la sequenza di quel libro e per limare i testi, togliendo con sempre maggior precisione ogni parte non essenziale. Anche qui moltissimo materiale è rimasto inedito. Sul passaggio fra Favole e Tua e di tutti vorrei segnalare due interventi critici che mi hanno aiutato molto a comprendere e a procedere oltre. Uno di Pietro Cardelli uscito sul blog Formavera[2] nel 2015, l'altro del 2014 di Bernardo De Luca[3]. Quando la critica letteraria diventa appassionato corpo a corpo come in questi due casi, l'autore scopre sempre qualcosa che lo aiuta a fare un passo oltre il già raggiunto. Non è un caso che, oltre che critici, sono due ottimi scrittori.

Con Favole e Tua e di tutti sento però di aver ancora giocato a carte coperte. È invece con Verso le stelle glaciali che credo di aver raggiunto una costruzione che mi soddisfa pienamente: è soltanto in questo ultimo libro che riesco a tenere insieme tutto ciò che mi guida nella scrittura. Lo considero un libro aperto, franco, che non gioca a nascondino con il lettore, anche se è ricchissimo di rimandi intratestuali, di svolte, di anse, di ritorni; volevo costruire un libro che sapesse coinvolgerlo dentro un'esperienza di cui fosse pienamente responsabile e complice, senza barare. È il lettore che deve decidere le coordinate del proprio viaggio: deve volersi perdere. Lo ha detto bene un altro poeta e critico che stimo molto, Pietro Russo, che al termine della sua recensione scrive: «ci viene dunque consegnata la missione di una vita»[4]. Come ho già detto, il libro inizia esattamente quando termina l'ultima sua parola.

Sebbene secondo la categorizzazione sociologica lei non possa essere anagraficamente considerato come un nativo digitale quanto, piuttosto, un migrante digitale, senz’altro è consapevole, e si trova tutti i giorni a tenerne conto, dell’influenza che la Rete ha avuto sulla poesia e viceversa. Spesso, il dibattito si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti. Qual è la sua posizione a riguardo? Come vede il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?

Sì, è difficile pensare che si è vissuti un'epoca in cui Internet non esisteva: per tutta la mia infanzia e adolescenza non ho avuto un cellulare. Certamente la mia generazione si è dovuta adattare con rapidità ad un susseguirsi incessante di device e media: dall'audiocassetta, al floppy, al CD, alle memorie flash, al Cloud. Passaggi che hanno riscritto completamente le coordinate della diffusione sociale dei testi, degli audio, dei video. Sicuramente la svolta si è avuta con l'avvento dei social, ovvero con quello che è chiamato “Web 2.0”, in cui tutti hanno avuto accesso alla “funzione autore” ed è diventato possibile condividere quasi qualsiasi “messaggio”, divenendo così “creatori”, ripetitori, snodi. Questo ha trasformato l'assiologia dei poteri. Dico alcune ovvietà: da un'idea di broadcast ad emittente unica (la radio e la televisione), si è passati ad una rete a nodi, pluricentrica, moltimodale, esponenziale, sempre più automatica (già si parla infatti di “Web 3.0”). Questo passaggio ha certo conseguenze epocali: da un lato un'apparente democratizzazione (tutti possono dire qualcosa e potenzialmente essere diffusi globalmente, ma ovviamente quello che dicono ha sempre meno efficacia), dall'altro però ogni ambito è richiuso nella bolla decisa dai propri algoritmi di preferenza. Per cui nella nostra vita in rete ci sembra di vivere circondati dalla presenza costante di qualcosa che è nella realtà molto meno presente, soltanto perché ci viene continuamente proposta dall'automazione informatica che sceglie per noi in base a quanto abbiamo giù scelto. La poesia è così ghettizzata fra i suoi nodi: come tutte le altre cose, è diventata una nicchia per appassionati. Ma lasciami dire che la cosa interessante è un'altra: ormai anche il cosiddetto “mainstream” è una nicchia come le altre, semplicemente più estesa. Si può vivere per anni senza avere la minima percezione dell'esistenza della musica di Beyoncé o di quella di Bob Dylan (come i miei studenti di scuola superiore che non hanno idea di chi siano), semplicemente perché nella propria bolla non esistono. Se un paio di decenni fa era ancora possibile descrivere i margini di un'immaginario condiviso, adesso molto meno: la società è frazionata, targettizata, esplosa. Se questa condizione sembra drammatica (e per molti aspetti lo è), mi sembra apra nondimeno alcuni spazi di azione. Innanzitutto permette di riscoprire un antico punto di forza della poesia: ovvero quella di legare insieme i disparati. Ancora oggi la poesia può attraversare più media rimanendo capace dei propri effetti e così può esporsi e trovare un passaggio proprio con chi non la pratica né la legge, per primi gli artisti che hanno maggiore consuetudine con i linguaggi audiovisivi. Pensate al dramma di un pittore: nell'epoca delle immagini instagram, la pittura dove va? La pittura vista dal vivo è un'esperienza completamente diversa dalla sua immagine. Così la fotografia. Insomma, la poesia invece può essere su schermo, su carta, in audio e in video e sempre rimane con la sua potenza. Ha così più chances di scavalcare i bordi integra e andare fisicamente nei luoghi dove altri linguaggi accadono. Secondariamente, nel tempo in cui tutti i testi sono vaporizzati nel cloud e diventano atmosfera e rapide immagini transeunti, la poesia rappresenta al contrario una forza centripeta. Ha dalla sua una straordinaria tradizione di concentrazione formale, di densità storica. Laddove tutti i testi slabbrano e si squadernano e rischiano senza forma di perdersi nel fluire indistinto, la poesia può invece ricordare il denso e il concentrato, il radicato, il punto dove non si può evadere dal corpo e dal respiro reale. Insomma, la poesia, quando non è ridotta al suo equivoco, ovvero a merce dai mediocri, quando è davvero una poesia di ricerca, ovvero scritta da chi è in ricerca, può essere davvero una contro-esperienza del contemporaneo, una Contro-parola, Gegenwort come scriveva Paul Celan: qualcosa che sposta dal proprio tempo, perché la poesia è sempre radicalmente altro dal tempo in cui accade: la poesia letteralmente produce la temporalità e così aiuta sempre a immaginare un altro futuro impossibile.

La consuetudine di Alma è quella di andare a frugare nei cassetti di ogni autore per scovare un inedito. Nei suoi ne ha uno da condividere con noi? Gliene saremmo molto grati.

Grazie per le vostre domande. Sì, vorrei condividere con voi una poesia inedita che ho ripescato nei miei disordinatissimi file archivio. È stata scritta nel 2014. Spero che vi piaccia. Un saluto e a presto!


*

Hanno acceso nuove luci in cortile.

E questa mattina ho visto

due uomini vestiti che dormivano

in una macchina da mesi abbandonata e ricoperta

da foglie vecchie e terra. Lì vicino, poi

c'era il corpo di un piccione, l'erba,

una cancellata verde, il mangime gettato mentre veloce

la gente andava a lavorare. Avevano le mani

strette all'inguine; e dormivano. Hanno acceso

nuove luci in cortile, ora si vede tutto

più chiaramente. Ma l'erba no, la terra no; la cancellata

verde e la macchina, il mangime no e le foglie no

ciò che è vicino è ciò che ci è più lontano

le mani strette all'inguine, invisibili

raccolte nel sonno. Ognuno di noi

è qui, ora; indifendibile.

[1] http://www.leparoleelecose.it/?p=38029& [2] https://formavera.com/2015/02/04/la-ricerca-dellesperienza-un-percorso-nella-poesia-di-tommaso-di-dio-1/ [3] https://www.academia.edu/11447410/La_ricerca_dellesperienza._Su_Tua_e_di_tutti_di_Tommaso_Di_Dio [4] https://www.lestroverso.it/tra-lio-paleografico-e-il-fuori-la-mente-mondo-di-tommaso-di-dio/

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