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Intervista a Paolo Febbraro

Aggiornamento: 6 giu 2020

Questa è l'intervista che Diego Bertelli ha fatto a Paolo Febbraro, figura poliedrica di intellettuale contemporaneo. Hanno parlato della variegata produzione di Febbraro e della sua amicizia con Seamus Heaney, dello status quo della poesia e di molto altro.


L'intervista si chiude con un inedito che Febbraro regala ad Alma e a tutti i suoi lettori.


Paolo Febbraro

Vorrei partire da un episodio del libro di racconti I grandi fatti (Pendragon, 2016). Si tratta della discussione tra Proust e Kafka che il personaggio narrante, sorpreso di trovarseli sotto casa mentre esce per andare a un appuntamento, tenta di carpire convinto che i due stiano parlando di chi è il «più grande scrittore del Novecento». Tomasi di Lampedusa — come Francesco Orlando ricordava spesso — avrebbe suddiviso così: il primo «scrittore grasso» e il secondo «scrittore magro». Lei da che parte pende?

Per quello magro, decisamente! Kafka ha quella prosa ordinaria e trasparente che regge tutti gli enigmi. Non ha bisogno di sbracciarsi o gesticolare stilisticamente. L’arte letteraria, secondo me, è proprio questo: avere dentro un magma e farlo intuire senza che esso erompa dal cratere. In una citazione tratta da Plutarco, e nella traduzione di Giorgio Colli, Eraclito afferma: «Il signore, cui appartiene quell’oracolo che sta a Delfi, non dice né nasconde, ma accenna». In più, credo di poter dire che la limpidezza, in letteratura, è legata al pudore, e la misura alla vergogna. Alla fine di un’adolescenza in cui non avevo letto quasi nulla, Kafka fu tra i primi autori con cui cominciai.

Ancora un accenno alla prosa dove dialogano Proust e Kafka. L’ultimo scampolo di quella conversazione, che la voce narrante riesce sì e no a capire, è vago ma anche significativo. Sembra infatti che uno degli scrittori dica «quel cretino». Difendendo l’idea che non esiste letteratura senza forza conoscitiva e considerando il suo interesse per la figura dell’idiota, dello sciocco — cui peraltro ha dedicato un saggio importante, L'idiota. Una storia letteraria (Le Lettere, 2011) — volevo chiederle qual è, in letteratura, la funzione conoscitiva di quest’ultimo e come si può essere tali senza finire a fare davvero la parte dei cretini.

Nella visione dell’uomo e del personaggio che ha mosso il saggio, l’idiota è il contrario del cretino. Forse il cretino è chi vuole far parte del mondo perché ritiene di essere importante, o decisivo. L’idiota, invece, etimologicamente è “l’uomo privato, che fa per sé stesso”. Si ritira dal mondo per diventare lo specchio in cui quello può vedere le proprie deformazioni. E ritirandosi dal mondo, ne conosce perfettamente gli ingombri e le punte di lancia. Il cretino è l’uomo dell’attualità; l’idiota – per informarsi al meglio su quanto è accaduto il giorno prima – sfoglia il libro della Genesi, o La ginestra di Leopardi.

Ovviamente, è facile che all’idiota finisca per essere attribuita la parte del cretino. Infatti, del mondo egli capisce molto di più e al tempo stesso molto di meno degli altri. È un tipo abbastanza intrattabile. Per fortuna, nella sua purezza – alla Bartleby, per esempio – è quasi sempre un personaggio letterario, non una persona.

Dopo aver menzionato un libro di prose e uno di critica, veniamo invece alla poesia, di cui ricordiamo, tra gli altri, due volumi: Il Diario di Kaspar Hauser (L’Obliquo, 2003) e la recentissima auto-antologia, El bien material (appena uscita in Spagna presso Asociación Cultural Zibaldone). Lei esordisce proprio come poeta, sebbene da subito in congiunzione con un impegno culturale più ampio, che si è espresso attraverso forme e generi diversi, dalla prosa, in cui si cimenta con narrazioni brevi, apologhi e scrittura aforistica, all’attività di critico e saggista. C’è un legame tra queste parti della sua produzione? E, più in generale, quale ritiene sia il ruolo della poesia e del poeta oggi? Come si sono evoluti — se di un’evoluzione si può parlare — questo genere e questa figura?

Essere anche un critico spero possa aiutarmi a rileggere le mie poesie prima di pubblicarle. Quando scrivo versi, a volte mi capita di essere immediatamente sicuro che si tratti di un componimento buono o cattivo; ma spesso non è così. Scrivere è un atto di ispirazione, ma pubblicare è un atto intellettuale: nel rileggere, bisogna capire non tanto cosa volevi dire tu, ma cosa riesce a dire la poesia che realmente hai scritto; e quindi se quella cosa vale la pena divulgarla. Scrivere versi coinvolge tanti strati di noi stessi, tanti livelli di narcisismo, ed essere anche un conoscitore di quanto scrivono gli altri mi aiuta a essere “oggettivo”, a trattare le poesie da poesie, e non come prolungamenti del mio Io, che come tale può legittimamente non interessare a nessuno. Certo, non è facile, è un lavoro che non riesco a compiere da solo: per questo, faccio leggere i miei versi ad amici migliori di me per avere aiuto.

Il ruolo della poesia oggi? È quello di esistere. Anche in un momento storico in cui scrivono quasi tutti, i poeti veri continuano a essere pochi, e anche a loro capita di esserlo in non molte poesie. È un bel mistero.

Quanto all’evoluzione della figura pubblica del poeta, è vistosa. Direi con un paradosso che il suo sparire è appariscente. Fino ai Romantici, i poeti venivano letti da mille persone, le uniche che sapevano leggere, che ne avevano il gusto e l’esperienza. La società di massa ha promosso altri valori: la leggibilità, il realismo, il rispecchiamento, l’evasione, la polemica sociale. In Italia, fra il 1945 e il 1960, qualcuno – come Pasolini, ad esempio – ha creduto di poter agganciare la figura del poeta a tutto questo. Ma dopo quella data hanno prevalso le controspinte, i nuovi mortificati crepuscolarismi, i nuovi formalismi, le nuove avanguardie. Moltissimi hanno cercato di trovare una dimensione nell’autoironia, nell’innovazione tecnica o nella restaurazione dell’“aura” poetica. Tutti percorsi che non m’interessano. Inutile lamentarsi, sperimentare sottovuoto o sfilacciare il proprio Io rimpicciolito, o automatizzato. Scrivere poesie non è obbligatorio, non fornisce più alcuno status. Noi italiani lo sappiamo almeno a partire da Leopardi. Ma questa è la sfida più alta: nella sconfinata libertà di poter scrivere qualunque sciocchezza, al di fuori da ogni “controllo” estetico e morale da parte del pubblico, il vero poeta si pone – quasi in solitudine – l’obiettivo di meritare la poesia, dialogando con le tradizioni che riesce a far rivivere. È l’unico modo per vincere il senso della fine che ci assedia.

Il suo più recente libro di poesia, La danza della pioggia (Elliot, 2019) è un’opera variegata, in cui si diramano molti argomenti e temi, i quali a loro volta sono declinati secondo prospettive diverse, da quella storica a quella antropologica, teologica, relazionale, tanto per citare le più importanti. Lei, da parte sua, l’ha definito anche un libro «ampio di stili». Qual era il suo intento quando l’ha scritto e quale il progetto che lo ha retto?

Quando ho scritto le singole poesie naturalmente non avevo alcun intento complessivo. Però dentro di me sapevo, nel corso degli anni, che ne sarebbe venuto fuori un libro ampio e variegato, come lei ha detto. Sono sempre stato molto eclettico, ma credo che la maturità sia proprio questo: riuscire a tenere dentro di sé molto spazio, molto tempo, molte interazioni, nel modo più attraente possibile. E dico attraente non solo nel significato di piacevole e gradito al lettore, ma anche nel senso che ogni parte del libro dovrebbe gravitare attorno alle altre, in un sistema reciproco e diversamente coerente. Mi piace molto l’idea di costruire non raccolte di poesie, ma opere poetiche, i cui “significati aggiunti” mi sfuggono.

Lei è stato amico e anche traduttore di Seamus Heaney, su cui ha scritto un volume importante, Leggere Seamus Heaney (Fazi, 2015). Che cosa ricorda di questa amicizia e qual è, se ce ne è stata una, la lezione che ha imparato da questo gigante della poesia, sia personalmente sia in veste di traduttore di una parte della sua opera?

Ho amato Seamus Heaney per la sua simpatia, per la sua armatissima umiltà, per la naturalezza del nostro rapporto. Come poeti e insieme critici, poi, abbiamo avuto una buona intesa, frenata dalla mia relativa goffaggine nell’inglese parlato. Attraverso la sua poesia, che ho preso a conoscere davvero solo a partire dal 2009, quando ci siamo incontrati, ho sentito più profondamente il paesaggio e la storia d’Irlanda, che erano già entrati prepotentemente nella mia vita grazie a mia moglie. Tuttavia, devo ammettere che come autori siamo molto diversi. Una volta gli dissi che, se lui era un poeta virgiliano (poeta del gesto che educa e rammemora, della terra parlante), io sento di essere un poeta lucreziano (agonistico, limpidamente catastrofico). In entrambi, però, credo ci sia il sentimento “organico” della natura, come qualcosa d’immenso in cui siamo inseriti, senza accampare diritti e domini. Un’altra cosa che ho imparato da lui è l’avventura della traduzione poetica: da quando l’ho conosciuto, tradurre ed essere tradotto hanno avuto molta più parte nella mia vita di scrittore.

Se dovesse compiere una pur sommaria genealogia poetica, quali sono stati i suoi modelli letterari e gli autori su cui si è formato?

È una gran domanda! Ricordo che alle scuole medie avevo un libro di Epica che s’intitolava Armi eroi popoli. Già il titolo mi dava una certa esaltazione. Lì ho imparato a memoria i versi tradotti da Monti su Achille che duella con Ettore e lo uccide. Prendevo le parti di Achille, non perché trionfava, ma perché lo faceva sapendo che per questo sarebbe presto caduto a sua volta. Poi, sulle pagine di quel libro, non sfuggii al fascino dell’Ulisse dantesco. Ma questa è la preistoria. Più in là diventarono importanti il Furioso, il Tasso lirico, Foscolo, Leopardi, certo Pascoli. Durante il primo anno di università feci la conoscenza del Bateau Ivre di Rimbaud, di Umberto Saba e sull’antologia poetica di Mengaldo incontrai per la prima volta i versi di Giorgio Caproni, che amai a lungo e che di fatto mi hanno dato l’avvio. Mi sono molto divertito (e ho molto meditato) con Palazzeschi. Ma da ragazzo lessi molti drammi teatrali: una mia fantasia era quella di diventare un drammaturgo. Beh, in fondo forse lo sono diventato, se si leggono Il Diario di Kaspar Hauser e le tante mie poesie fra virgolette. Decisivi, fra i classici, Eraclito, Tucidide, le Baccanti di Euripide, Lucrezio. Nella prosa, Diderot, Stendhal, Dostoevskij, Melville, Sciascia, Primo Levi. Fra i saggisti, Michail Bachtin e diversi poeti-prosatori. A compilare questo elenco, mi chiedo se in esso non ci sia già parecchio eclettismo.

Lei vive a Dublino, in un modo che sembra quasi un gioco paradossale, perché è costretto a passare quasi tutto l’anno a Roma. Che rapporto ha con queste due città e a quale si sente di appartenere di più, biologicamente e culturalmente?

Già, come scrivo nelle mie note biografiche vivo a Dublino ma trascorro trecento giorni l’anno a Roma. Sono due città diversissime, e il discorso sarebbe lungo. Roma mi dice, quando cammino per il centro, che il passato è passato solo per illusione. I monumenti dell’antichità mi appaiono tronfi e pretenziosi, ma mi danno anche il sentimento di una enorme compassione, una devozione dolorosa, assolutamente “contemporanea”. Tuttavia Roma è anche un luogo ampiamente squallido e degradato: sono pochissimi i quartieri in cui trovo la bella nudità del semplice, del dignitoso, dell’essenziale. Roma per me è un continuo esercizio nell’arte di essere altrove. Persino nel calcio faccio il tifo per l’Inter! Dublino al confronto è una città-giardino: verde, ventosa, rossa di mattoncini, urbanisticamente timida nei confronti dei grandi agglomerati. Purtroppo sta peggiorando, la speculazione infierisce. Ma resta la città in cui “vivo”, e non abito.

Un’ultima domanda, stavolta legata alla sua attività di critico con uno sguardo attento alla poesia.

Come si legge in una sua nota bio-bibliografica, «ha lungamente collaborato con saggi e recensioni all’Annuario di poesia fondato e diretto da Giorgio Manacorda, che poi ha curato dal volume Poesia 2006 all’ultimo, Poesia 2012». Ormai prossimo è il volume Poesia allo stato critico. Saggi e interventi (Inscibboleth, 2020). La domanda è provocatoria: qual è il suo giudizio sulla poesia contemporanea, se dovesse riassumerlo con tre aggettivi?

Sono molto attento alla poesia euro-americana, soprattutto anglosassone, che leggo, traduco, recensisco. Gli italiani li sto da tempo lasciando andare, sotto i quarant’anni è buio fitto. Non si può essere il critico militante per tutte le stagioni. Del resto, non leggo moltissima poesia, amo i libri di storia, di saggistica letteraria, di divulgazione scientifica, alcuni narratoti stranieri. Purtroppo – mio difetto – sono quasi del tutto cieco di fronte alla narrativa italiana degli ultimi vent’anni. Forse, se avessi più tempo… Ma è una giustificazione che non regge. Fra i poeti italiani viventi, ne prediligo una decina. In generale, il problema di oggi è editoriale: i migliori non vengono promossi, restano dietro le quinte.

La consuetudine di Alma è quella di andare a frugare nei cassetti di ogni autore che intervistiamo per scovare un suo inedito. Nei suoi ne ha uno da condividere con noi? Gliene saremmo molto grati.

Grazie a voi. Scelgo un poemetto assai recente, scritto a fine febbraio 2020 e intitolato Epoca. È una delle cose più sorprendenti che abbia prodotto, soprattutto se ci si fa ingannare dal tono memorialistico della prima strofa. Anche qui spunta Ulisse, non solo quello dantesco.

EPOCA

Da ragazzino, con la sorella,

giocavano a chi fra loro

trovasse le foto di animali,

specie se selvaggi,

più belle, grandi o definite.

Le confrontavano e vinceva

chi avesse una bestia splendida

e rara a pagina intera

ma senza barare, niente zoo,

soltanto colta nel suo habitat.

Graditissimi i grandi felini

e l’animale-totem il leone.

Il colore ai punti sul bianco e nero.

Si disputavano i numeri smessi

della rivista settimanale

che il padre già antico e sedentario

sceglieva per i suoi reportage

da continenti lontani

e loro a ritagliare per primi

il ghepardo nel teleobiettivo

l’orango fraterno e grottesco

l’iguana sassosa.

Due tesori personali

scambio di doppioni

scala di valori.

Chiusa più tardi per vendite scarse

la rivista si chiamava, per sempre,

Epoca.

Longtemps, je me suis couché de bonne heure

Si dice che Voltaire corrispondesse

con un abate nato esattamente

il giorno successivo al suo.

Così che quando il religioso

lamentava per missiva o di persona

le accuse che il filosofo scagliava

contro santa madre chiesa

il grande Candido celiava

«Mio caro abate, vedrete domani

quando anche voi avrete

la mia età»

The Sun came up upon the Left

Come mangime per i grossi animali

da allevamento

è bene che la farina d’insetti

sostituisca gradualmente

quella di pesce.

Questione d’impatto ambientale

seguir virtute e canoscenza

Non è affatto certo

che Yahweh sěbā’ōt

corrisponda all’espressione

Dio degli eserciti

tute e canoscenza

Il corpo dei mammiferi è interrotto

da numerosi pertugi

pieghe anfratti e curvature

segno palese d’insufficienza

bisogni e gioie

e par che sia una cosa venuta

di cielo in terra

Dovemmo cavalcare a lungo

il mio cavallo e io

anche se devo ammettere

che solo il cavallo cavalcava

e io lo cavalcavo

avendo letto libri e giornali

To strive, to seek, to find, and not to yield

Ormai vecchio Aristotele

compiute Fisica Metafisica Politica

Etica Poetica Retorica

si ridusse a rileggere Omero

Gallia est omnis divisa in partes tres

Gastronomia è chimica

miei cari cuochi

senza la chimica vi aspettano disastri

in cucina

L’aumento del reddito pro capite

è direttamente proporzionale

al numero di obesi ipertesi anglofrancesi

te e cano

Solo in apparenza

il 4-3-3 è un modulo

più offensivo

poiché nella fase di non possesso

implica che le due ali retrocedano

a dar man forte al centrocampo

blindando le fasce laterali

le ali retrocedano

Oswald non fu il solo a sparare

la mafia italiana

la diaspora cubana

i servizi segreti

i militari e l’industria

i razzisti del Sud

un complotto gigantesco

My name is Bond.

James Bond

Ich bin ein Berliner

Il saggio buddhista Nāgārjuna

nelle sue Strofe della Via di Mezzo

affermò (ma forse è più saggio

dire “emise, “lasciò trapelare”)

che nulla in realtà è a sé

che non esiste alcuna sostanza

e che tutto ha costituzione relazionale

ma forse del mio dir poco ti cale

Dio è morto! gridò Zarathustra

Anche Zarathustra

mormorò l’ometto

fatti non foste

«Comandante, sto captando un segnale»

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