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  • Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Intervista a Giovanna Rosadini

Aggiornamento: 30 set 2020

Questa è l'intervista che Alessandra Corbetta ha fatto a Giovanna Rosadini, a partire dalla sua ultima raccolta fino a conversare sul significato oggi delle antologie, dei rapporti tra Rete ed editoria e molto altro.


L'intervista si chiude con un inedito che Rosadini regala ad Alma e a tutti i suoi lettori.


Giovanna Rosadini (Ph. Samantha Faini)

Partiamo da Frammenti di felicità terrena (Gialla Oro Pordenone Legge-Lieto Colle 2019), sua ultima pubblicazione, che raccoglie tutta la sua produzione poetica, da Il sistema limbico (Atelier 2008) fino a Fioriture Capovolte (Einaudi 2018). Mi ha molto colpita l’idea di intitolare un’opera che raccorpa e riordina optando per il sostantivo “frammenti”, che rimanda invece a un’idea di spaccatura e di divisione. Eppure, la frammentazione, che lei riferisce alla felicità terrena, è vocabolo tipico della società contemporanea, dove a essere frammentate sono le identità, le relazioni e l’esperienza del mondo.

Vuole accompagnarci nel percorso che ha condotto (o che l’ha condotta) a riunire tutte le sue raccolte, partendo dal dirci perché questo rimando alla frammentazione e seguitando fino alla ragione degli inediti in prosa, inclusi in Frammenti di felicità terrena, che segnano, forse, una nuova traiettoria della sua scrittura?

Frammenti di felicità terrena nasce dalla proposta fattami da Gian Mario Villalta, promotore di Pordenonelegge, e Michelangelo Camelliti, editore della collana Gialla legata al festival, di compendiare e riordinare la mia produzione poetica in un volume che la illuminasse, includendo anche una parte di inediti, di una luce e un senso nuovi. Ecco dunque che, trattandosi di una scelta operata sulle singole raccolte, si intuisce già un primo significato per la parola “frammenti”, trattandosi di singoli testi prelevati, per la loro perdurante significatività, al fine di comporre un percorso esemplificativo della mia poetica. Non solo: il titolo allude anche al processo creativo e al tempo che gli è dedicato, inteso come pluralità che indica momenti di particolare realizzazione e compimento personale ed esistenziale, in un tempo, che è quello della vita (con particolare riferimento alla contemporaneità in cui siamo immersi), che è sempre plurimo, a seconda dei diversi ruoli che ricopriamo, sia sincronicamente che diacronicamente.

Infine, c’è indubbiamente il riferimento alla sezione eponima di inediti in lasse prosastiche (o, sarebbe più corretto dire, quella che ha dato il nome al libro), una raccolta di momenti ed episodi della mia infanzia particolarmente vividi e lieti. Perché, sì, ho avuto un’infanzia felice, che è stata il serbatoio da cui ho attinto per superare i momenti di grande difficoltà che mi si sono presentati nella vita. Frammenti come tessere di un mosaico che è sempre possibile ricomporre.

Fioriture capovolte (Einaudi 2018) crea, da subito, l’immagine di qualcosa che procede à rebours: un fiore con la corolla nel terreno e il gambo all’insù o una nascita esplosiva (da intendersi come l’in bloom inglese), che al posto di dirompere verso l’esterno, implode. In effetti, è come se lei ci facesse sedere dietro le quinte dell’esistenza per mostrarcene il suo lato più profondo, direi, meglio, il più autentico, costringendoci a togliere quella patina pesante di conformismo e finta serenità, per rimetterci in contatto con il valore della sofferenza e la ricchezza che da essa si può ricavare. E ricordandoci che anche ciò che fiorisce poi, concluso il suo ciclo, è destinato a reclinarsi, a capovolgersi appunto. Dal fiore, allora, alla clessidra, che terminata la sua sabbia, deve essere girata per poter ricominciare a fare la conta al tempo.

Può, la poesia, intervenire in questi rovesciamenti continui a cui il vivere ci costringe? Lei, con Fioriture capovolte, che risposta ha provato a dare a questa domanda?

La domanda riassume molto bene i possibili significati del titolo, che non è univoco e consente diverse interpretazioni, anzi le incoraggia, direi, con la sua allusività aperta e paradossale. C’è chi, come l’amico Tiziano Scarpa, in un curioso quanto involontario parallelismo con l’immagine evocata dal mio titolo ha scritto in una sua poesia (“Il giardiniere del re”, in Le nuvole e i soldi) di piante capovolte, corolle interrate e radici all’aria; c’è chi ha visto nel titolo l’allusione al capo reclinato dei fiori in autunno, e quindi a una equivalente stagione della vita; voi avete addirittura evocato un’implosione… Un autore che amo molto, Yehuda Amichai, ha scritto: “Vedi, anche noi compiamo rovesciandolo/il cammino dei fiori:/da un calice iniziare tripudiante di luce,/scender giù con lo stelo sempre più cupo,/arrivare nella chiusa terra e attendere un poco,/e finire, radice, nel grembo, nell’oscuro.” Questo è senz’altro uno dei temi che attraversano la mia poesia, il coraggio necessario ad affrontare la vita, con le prove che ci presenta e le sfide che ci pongono le relazioni profonde con l’altro, pur nella consapevolezza di una inevitabile estinzione: “Germogliare, sapendo di poter illividire” è un verso del mio Il numero completo dei giorni. E la poesia, certamente, interviene in questi continui rovesciamenti del vivere, come testimonia in particolare la seconda sezione del libro, intitolata “Lo spazio bianco”: bianco come il colore dell’indistinzione e del lutto in Oriente. Sono poesie che intendono dar voce a quel rovescio dell’esistenza in cui chiunque può ritrovarsi intrappolato: ansia, depressione, senso di perdita e di inappartenenza, ciò che ci accade quando la vita pare non corrisponderci più. In molti mi hanno detto di essersi ritrovati, con effetto catartico, nei miei versi, cosa che una volta di più mi ha convinta del ruolo che può avere la poesia nella vita delle persone. Se, come ha detto Harold Bloom, il poeta è “colui che mette il suo immaginario al servizio del lettore”, è anche vero che la poesia ci dona le parole per comprendere sentimenti e stati d’animo universali.

Ti sento in ogni punto del corpo

trasformato in vertigine, proteso

a dirsi nella nuova lingua delle sue

piccole bocche spalancate, compreso

già nella forma dell’intero – ricolmo

ed effuso in un mistero di tuono, grato

del dono. Possiedo sentieri, percorro

stanze invisibili dove alberga l’attesa,

creatura indifesa – e sarai tu, soglia

di millenni, sfregio,

la mia ricompensa.

In questa poesia, facente parte della prima sezione di Fioriture Capovolte, intitolata «Il mare fuori stagione», ricorrono tre elementi che accompagnano poi, di fatto, tutta l’opera: il corpo, che si fa tramite concreto per esperire la forma della vita nella sua quotidianità; l’assenza, alla quale efficacemente rimanda la sensazione di vertigine; l’attesa e la sua capacità di far stare in bilico, come a cavallo tra una cosa e l’altra, tra un dentro e un fuori, tra il prima e il dopo.

Vuole spiegarci come questi tre elementi si presentano e si relazionano in questa sua raccolta e poi, più in generale, nella sua produzione poetica?

Tutto passa nel corpo e attraverso il corpo, e questa connessione concreta col bios, con l’esistente e l’esperienza viva, è un portato, in questa fase storica (dalla seconda metà del Novecento in avanti), che caratterizza in modo particolare la scrittura femminile, e in cui mi riconosco. Assenza e attesa sono entità complementari, nel senso che l’una implica l’altra; l’assenza, che può tradursi anche come mancanza (da cui il desiderio, in particolare quello amoroso), innesca l’attesa – di una epifania, di una rivelazione, di un compimento di cui il corpo è, sempre e comunque, il baricentro.

Per quanto riguarda Fioriture capovolte, direi che nella prima sezione, “Il mare fuori stagione”, predomina il tema dell’attesa, riferita a un coinvolgimento amoroso; nella seconda, menzionata sopra, quello dell’assenza (laddove il prevalere di una condizione di dolore e sofferenza implica mancanza di gioia e carenza di sentimenti positivi); nella terza e nella quarta, con le loro incursioni a ritroso in epoche precedenti della vita (infanzia, adolescenza, la giovinezza degli anni universitari veneziani), tutti e tre gli elementi sono presenti e intrecciati. Così come lo sono in “Unità di risveglio”, il mio diario in versi del risveglio dal coma e dei successivi riabilitazione e ritorno a casa: sull’elemento primario e centrale del corpo devastato e ritrovato si innestano quello dell’assenza (la perdita del corpo precedente, la memoria da ritrovare, le persone care da rivedere) e dell’attesa (la speranza di guarigione, il ritorno alla normalità). E senza dubbio il mood dominante nella mia raccolta d’esordio, Il sistema limbico, è un’attesa rivolta a una rinascita creativa e sentimentale, mentre Il numero completo dei giorni si tiene in equilibrio tra riferimenti a corpi mitici e ancestrali e proiezioni/contaminazioni con realtà personali e coeve, e assenza/attesa della rivelazione divina…

Antologia significa ‘selezione di fiori’ e quello che ci aspetterebbe, di fronte a questo tipo di testo, è una scelta accurata e motivata di autori e relativi componimenti che, nel suo insieme, ci dica qualcosa di preciso e, magari, di diverso dal già detto. Oppure che segnali una nuova tendenza, in riferimento alla variabile anagrafica o territoriale.

Osservando il proliferare di antologie degli ultimi anni, molti ritengono però che sia sempre più difficile individuarne una rappresentatività che vada oltre il gusto, il credo o le personali amicizie di chi ne ha la curatela.

Nel 2012, sempre per Einaudi, lei ha curato l’antologia Nuovi poeti italiani 6, proponendo i testi di dodici poetesse.

Le chiedo: di quali parametri si è avvalsa allora per la scelta? E cioè, in altre parole, cosa ritiene di fondamentale importanza per una curatela antologica? Reputa rilevante che ci sia uno scarto anagrafico tra chi seleziona testi e nomi e i nomi selezionati, o non è un dato influente perché l’antologia sia meritevole? Quanto detto sopra circa la valenza oggi delle antologie la trova d’accordo?

Nuovi poeti italiani 6, l’antologia che ho curato per Einaudi, è il sesto volume di una serie, quella dei “Nuovi poeti italiani”, interna alla “Collezione di Poesia” (la mitica “Collana Bianca”), serie nata nella prima metà degli anni Ottanta con l’intento di segnalare autori ancora non compiutamente affermati all’attenzione dei lettori di poesia. Se, da questo punto di vista, il volume da me curato mantiene una sostanziale continuità con le uscite precedenti, vero è che ha una particolarità che lo contraddistingue, e cioè che, per una precisa scelta editoriale ancor prima che mia come curatrice, gli autori presi in considerazione sono esclusivamente donne, ovvero poetesse. Il motivo è presto detto, e nulla ha a che vedere con un’idea di valore aggiunto da applicare alla poesia femminile, né tantomeno con l’intento di creare una “riserva indiana”: semplicemente, pensavamo ci fosse una lacuna da colmare in questo senso. Forte era in noi (a partire dall’editor storico della collana, Mauro Bersani, ma anche di amici consulenti ed autori della casa editrice, come Mariangela Gualtieri) la percezione che la presenza delle autrici di poesia, nonostante la qualità e quantità del loro lavoro, non fosse adeguatamente rappresentata nelle antologie e nelle principali collane editoriali. Percezione peraltro confortata dai dati: fino agli anni Settanta le antologie poetiche sono, di fatto, esclusivamente “maschili” (e quella di Mengaldo del ‘78, che rimane il riferimento per eccellenza del canone novecentesco, riporta il solo nome di un’autrice, Amelia Rosselli). Lo scandalo e la polemica seguiti alla pubblicazione del libro, peraltro, con l’accusa del tutto fuori luogo di aver elevato il genere a categoria critica (accusa che nessun critico – uomo, naturalmente – aveva mai rivolto alle antologie di soli poeti), segnalano a mio parere che abbiamo colto nel segno.

Rispetto alle molte pubblicate negli ultimi vent’anni, un’antologia sui generis, dunque. Per quanto riguarda i criteri di valutazione e scelta delle autrici, siamo partiti dalla definizione di un numero, quello di dodici, appunto, che potesse, date le pagine a disposizione, garantire la pubblicazione di un numero di testi sufficienti per dar conto della poetica di ciascuna. Poi, ho fatto tesoro della mia esperienza pregressa di editor einaudiano, facendo mia la storica vocazione della Bianca a rappresentare l’esistente, al di fuori da steccati ideologici o di qualsivoglia consorteria. La mia è stata una ricognizione sull’oggi, molte erano le voci poetiche femminili di valore, e scegliere non è stato per niente facile. Se è vero che, troppo spesso, i curatori si fanno guidare dal proprio gusto o da una personale e predeterminata idea della poesia, per me la discriminante è stata il dato qualitativo, e, mi sono poi resa conto, quello anagrafico: le autrici antologizzate, pur avendo per lo più una feconda carriera alle spalle, erano ancora, in buona sostanza, pressoché invisibili (una per tutte Chandra Candiani, ora alla sua terza raccolta einaudiana, fino a quel momento confinata a piccolissimi e mal distribuiti piccoli editori).

Le vorrei proporre ora un legame tra geografia e poesia. Lei nasce a Genova, studia a Venezia, vive da diversi anni a Milano e, senz’altro, molti altri luoghi avranno accompagnato la sua esistenza e la sua scrittura.

In che modo il suo percorso spaziale, nei territori e in quello che per lei rappresentano, ha impattato sulle sue opere e sul suo modo di scrivere?

Genova è stata l’infanzia felice in case grandi piene di luce e l’adolescenza difficile in un contesto sociale che mi andava stretto, giudicante e asfittico, dove però l’orizzonte è sempre stato il mare aperto. Venezia è stata la culla d’acqua della mia giovinezza, il luogo dove ho costruito i legami di una vita e da cui mi sono proiettata verso il mondo. Milano la città che mi ha accolto senza riserve, dove ho cresciuto i miei figli e ho costruito ciò che sono, casa è qui, la casa da cui si parte e si ritorna. Anche se recentemente abbiamo rimesso radici liguri e marine con una piccola proprietà a Camogli…

La scrittura in effetti si è contemperata ai luoghi dove ho vissuto, che peraltro coincidono coi tempi della mia vita: l’istintività e l’immediatezza genovese, la freschezza venata di nostalgia veneziana, la quotidianità produttiva e consapevole milanese.

Esulando per un momento dalla sua produzione, vorrei soffermarmi sulla questione assai rilevante che riguarda i rapporti tra poesia ed editoria.

Sulla base della sua consolidata esperienza con Einaudi, in qualità sia di editor che di autrice, come vede mutato il panorama editoriale odierno e quali considera essere le sue criticità, se ci sono, tenendo conto del ruolo sempre più centrale della Rete?

Tutti sappiamo che la poesia è la cenerentola dell’editoria, per numeri e fatturato, però dà anche prestigio alla casa editrice, collane storiche come la “Bianca” einaudiana o “Lo Specchio” mondadoriano sono la cartina al tornasole dell’autorevolezza della casa editrice. Questo anche se in Italia la poesia non è un riferimento culturale di primo livello come in altre culture e società, ma siamo pur sempre un paese in cui chiunque aspira a scriver versi e definirsi poeta… Detto questo, ho l’impressione che troppo spesso i grandi editori si facciano condizionare da logiche commerciali, mentre i medio-piccoli si assumano l’onere dello scouting e di eventuali riproposizioni di autori dimenticati ma significativi (è il caso del recente volume dedicato a Ferruccio Benzoni di Marcos y Marcos, o di quello dedicato a Piera Oppezzo di Interno Poesia). In tutto questo la Rete ha un ruolo sempre meno di complemento e sempre più centrale, soprattutto grazie alla velocità e immediatezza che ne garantisce la fruizione.

Continuando il discorso relativo a poesia e Rete, sappiamo che il dibattito attuale si muove passando da una posizione all’altra, riassumibili in “la Rete sta rovinando la poesia” oppure “la Rete salverà la poesia”. In questa dicotomia, semplificatrice e banalizzante di un fenomeno ben più complesso, si intravede, però, una realtà indiscutibile e cioè che i nuovi linguaggi della Rete hanno avuto un impatto rilevante su quelli poetici, in termini di comunicazione, diffusione e, forse, anche su forme e contenuti. Qual è la sua posizione a riguardo? Come vede il futuro della poesia in relazione alle sue interconnessioni con il Web?

Considero la Rete una realtà ormai consolidata, e una grande opportunità, per chi la sa cogliere. Questo lo hanno capito molto bene, per esempio, i piccoli editori che hanno cominciato col crowdfounding, e che hanno costruito da tempo un alter ego virtuale in forma, per esempio, di blog e iniziative connesse (un nome per tutti, Samuele editore). La Rete è un formidabile strumento divulgativo, e personalmente credo ormai un indispensabile complemento alla pubblicazione in cartaceo. Lo dimostra molto bene il caso di Atelier, rivista trimestrale cartacea di cui faccio parte da molto tempo, che ha un corrispettivo online con Atelierpoesia, blog peraltro appena rinnovato che pubblica pressoché quotidianamente inediti, recensioni, interviste e anteprime editoriali, laddove la rivista cartacea è indirizzata a saggi, inchieste e approfondimenti. Dal punto di vista della diffusione non ci sono paragoni, con centinaia di accessi al giorno per la versione online, soprattutto da parte di un pubblico più giovane.

D’altra parte, abbiamo avuto modo di sperimentare il ruolo della Rete anche durante il lockdown dello scorso inverno: è stato uno strumento indispensabile per aggiornarsi e acquistare libri, anche se personalmente ritengo il ruolo del libraio di fiducia insostituibile, e le presentazioni virtuali, cui ho avuto modo di partecipare tramite “Scrittori a domicilio”, hanno radunato più ascoltatori di qualsiasi presentazione dal vivo (anche se trovo gli eventi in presenza molto più coinvolgenti).

Per quanto riguarda invece forme e contenuti poetici, credo sia ancora presto per fare un bilancio, pur constatando una tendenza, legata soprattutto a Twitter e Instagram, legata alla realizzazione di testi brevi e comunicativi. Parallela però a quella poematica e tendenzialmente orientata alla prosa del cartaceo… Vedremo. Intanto viva le differenze e coesistenze di forme di ricerca orientate in direzioni diverse.

La consuetudine di Alma è quella di andare a frugare nei cassetti di ogni autore per scovare un inedito.

Nei suoi ne ha uno da condividere con noi? Gliene saremmo molto grati.

Vorrei poter dire, di questo amore

nato nel segno di un presagio, memoria

ormai compiuta, promessa mantenuta,

che ha trovato una misura di luce

nell’incedere sghembo del tempo.

Ma la casa comune non ci abita più,

siamo due corpi soli e desertificati,

isole d’ombra perdute alla vita –

sentimento rastremato fino all’osso,

scheggia aguzza piantata nel cuore.



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