top of page
Facebook Cover Photo.png
Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Editoriale Poesia & Rete (appuntamento n°2)

Continua, con questo secondo incontro, l'editoriale su Poesia & Rete, a cura di Alessandra Corbetta, un progetto trasversale alle pubblicazioni del blog che proverà a monitorare, attraverso interventi di diversa natura, lo stato delle interrelazioni tra il linguaggio poetico e le dinamiche del Web.

Chi volesse segnalarci studi o ricerche su questo argomento o desiderasse contribuire ad arricchire con competenza il dibattito, può farlo scrivendo a redazione@almapoesia.it, specificando in oggetto “Editoriale Poesia & Rete”; tutto il materiale pervenuto verrà sottoposto a lettura e quello ritenuto più interessante e valevole verrà proposto all’interno del progetto.


L'ospite di oggi è Matteo Fantuzzi, che ha donato ad Alma Poesia il testo destinato al seminario organizzato dal CAER (Centro Aixiois d'Etudes Romanes) dell'Università di Aix-Marseille dal titolo I poeti critici. Creazione e impegno nella poesia italiana contemporanea.

Fantuzzi parte da uno snodo centrale, di inevitabile trattazione per chiunque voglia provare ad accostarsi alla questione: è il 2006 quando Nanni Balestrini, in un'intervista rilasciata per «Liberazione» dichiara: “Per fortuna c’è Internet, che permette di far circolare ovunque, rapidamente ed economicamente, le poesie di tutti. È un ottimo strumento, il solo inconveniente è che si fa un po’ fatica a orientarsi in mezzo a tutta questa abbondanza. Ma con un po’ di pazienza si arriva a individuare dove si trovano le cose che interessano e in più si possono avere rapporti diretti con gli autori”. Le affermazioni di Balestrini innescano un vero e proprio dibattito, a cui faranno seguito interventi di Paolo Di Stefano, Giuseppe Conte, Marco Giovenale e Umberto Eco. In relazione a quello stesso anno, le ricerche condotte da Christian Sinicco evidenziano il sorpasso delle utenze che seguono la poesia attraverso i primi blog dedicati all'argomento sugli acquirenti di riviste cartaecee relative al medesimo tema. Nasce, quindi, il caso "Poesia & Rete" in uno scenario che, da lì in avanti, sarà in perenne mutamento; basti pensare che da questa diatriba iniziale sono ancora esclusi i Social Network, poiché se è vero che Facebook nasce nel 2004, la sua esplosione in Italia avverrà solo quattro anni più tardi, nel 2008.

Fantuzzi, tra riflessioni, testi e nomi prova ad avanzare delle ipotesi per l'inquadramento del fenomeno, partendo dalla domanda che resta la spina e la radice del discorso: dov'è oggi la poesia?


I poeti critici. Creazione e impegno nella poesia italiana contemporanea

a cura di Matteo Fantuzzi


1. Gli imbecilli


Giugno 2015. Umberto Eco concede un'intervista dopo avere ricevuto la laurea honoris causa in Comunicazione e Culture dei Media all'Università di Torino, e non le manda a dire: “I social permettono alle persone di restare a contatto tra loro, ma danno anche diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano ai bar dopo un bicchiere di vino e ora hanno lo stesso diritto di parola dei Premi Nobel”. Chissà cosa direbbe adesso che siamo diventati tutti virologi, esperti di geopolitica. Nei giorni successivi, precisamente il 26 Giugno dello stesso anno, cercherà di continuare l'elaborazione del ragionamento, con parole che oggi potremmo dire profetiche, sulla rubrica curata sul settimanale «L'Espresso»: “Un utente normale della rete dovrebbe essere in grado di distinguere idee sconnesse da idee ben articolate, ma non è sempre detto, e qui sorge il problema del filtraggio, che non riguarda solo le opinioni espresse nei vari blog o twitter, ma è questione drammaticamente urgente per tutti i siti web, dove (e vorrei vedere chi protesta negandolo) si possono trovare sia cose attendibili e utilissime, sia vaneggiamenti di ogni genere, denunce di complotti inesistenti, negazionismi, razzismi, o anche solo notizie culturalmente false, imprecise, abborracciate”.

Non era la prima volta che Eco si scagliava contro i social; alcuni anni prima la polemica aveva coinvolto buona parte degli intellettuali italiani. Era il 2006 e per chi si occupa delle prime forme di comunicazione in rete, era una sorta di ingresso dalla porta principale.

La prima fase dei blog aveva permesso lo scardinamento di alcune pratiche delle riviste cartacee, volte essenzialmente a crearsi al proprio interno una sorta di luogo, una protezione che, se allontanava la percezione, parallelamente impediva perdita di status in una situazione editoriale che iniziava a mostrare crepe tangibili ed evidenti.

Dal punto di vista militante era già stato possibile assistere a una piccola rivoluzione con l'arrivo nel panorama italiano di tre riviste cartacee come «Atelier», «Clandestino» e «Versodove» che avevano prodotto importanti lavori antologici come L'opera comune (Ladolfi, Atelier) e I cercatori d'oro (Rondoni, La nuova agape) fino alla definitiva Nuovissima poesia italiana (Cucchi, Riccardi, Mondadori). Ma le e i mezzi erano ancora quelli di un tempo alla fine degli Anni Novanta: l'entrata nel campo poetico dei cosiddetti Settanta (una forbice anagrafica nata per lo più tra il 1968 e il 1977) aveva sì gettato un sasso all'interno di una situazione cristallizzata, ma non aveva fatto i conti con la apertura dei mezzi di comunicazione.

I blog nei primi anni Duemila avevano cercato di rendere diffuso un circuito chiuso, non in maniera pienamente orizzontale e liquida, ma tenendo ancora presenti le norme con le quali fino a quel momento si era costruita la nuova poesia: analisi strutturale, analisi sociale, aderenza col contemporaneo e soprattutto filtri.

L'esperienza del Censimento dei Poeti del Festival Pordenonelegge 2014 andava appunto in questa direzione: assieme all'organizzatore Roberto Cescon, a Maria Borio e molti altri abbiamo cercato di creare innanzitutto una coscienza geografica territoriale, avendo a disposizione una serie di luoghi certi e codificati (riviste, siti, blog) che in qualche modo potevano dirsi un primo filtro essenziale. La questione più volte sollevata non si rifletteva infatti sulla qualità ma sulla opportunità, il tema, a cavallo del 2010, era che opere degne di attenzione non fossero poste in ombra dal sistema in sé, che in qualche modo era ritenuto tra pesi e contrappesi valido, bensì da una serie di concause innanzitutto geografiche fattive e di geografia editoriale che in quel momento avrebbero potuto rendere meno visibile un autore e soprattutto un'opera, fermo restando che, come sottolineato nell'introduzione a La generazione entrante (Ladolfi Editore), sarebbe dovuta essere l'opera, a mio avviso, l'unico vero parametro di discussione.

Le modalità metodologiche approntante dieci o venti anni fa oggi però non valgono più completamente: è cambiato il bisogno di contenuti imposto dai social, sono cambiati i pesi dei comitati redazionali all'interno dei processi stessi dei rapporti della poesia, è stata abbattuta la problematica geografica, quello che valeva anche solo pochi anni fa oggi, inevitabilmente, sembra non pesare allo stesso modo per chi si è preso l'onere della testimonianza militante.

Da questo disallineamento dei parametri tra passato e presente dovremmo partire per un'analisi di quanto oggi sta accadendo, con meno nostalgia del passato e più concentrazione verso il presente e, soprattutto, verso il futuro.


2. La leggerezza


“Per tagliare la testa di Medusa senza lasciarsi pietrificare, Perseo si sostiene su ciò che vi è di più leggero, i venti e le nuvole; e spinge il suo sguardo su ciò che può rivelarglisi solo in una visione indiretta, in un’immagine catturata da uno specchio. Subito sento la tentazione di trovare in questo mito un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione del metodo da seguire scrivendo. Ma so che ogni interpretazione impoverisce il mito e lo soffoca: coi miti non bisogna aver fretta; è meglio lasciarli depositare nella memoria, fermarsi a meditare su ogni dettaglio, ragionarci sopra senza uscire dal loro linguaggio di immagini. La lezione che possiamo trarre da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori. Il rapporto tra Perseo e la Gorgone è complesso: non finisce con la decapitazione del mostro. Dal sangue della Medusa nasce un cavallo alato, Pegaso; la pesantezza della pietra può essere rovesciata nel suo contrario; con un colpo di zoccolo sul Monte Elicona, Pegaso fa scaturire la fonte da cui bevono le Muse.”

Con queste parole Italo Calvino nelle Lezioni americane racconta il proprio rapporto con la leggerezza e i motivi per cui, per parlare del contemporaneo, preferisca questa forma ad altre più dure e dirette. L'attività di Calvino si svolge in anni di profondi cambiamenti e contestazioni, in momenti storici difficili, conflitti, guerre: eppure la sua scelta appare coerente, sensata. Continua Calvino “Quanto alla testa mozzata, Perseo non l’abbandona ma la porta con sé, nascosta in un sacco; quando i nemici stanno per sopraffarlo, basta che egli la mostri sollevandola per la chioma di serpenti, e quella spoglia sanguinosa diventa un’arma invincibile nella mano dell’eroe: un’arma che egli usa solo in casi estremi e solo contro chi merita il castigo di diventare la statua di sé stesso. Qui certo il mito vuol dirmi qualcosa, qualcosa che è implicito nelle immagini e che non si può spiegare altrimenti. Perseo riesce a padroneggiare quel volto tremendo tenendolo nascosto, come prima l’aveva vinto guardandolo nello specchio. È sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo, ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato di vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello.”

Proviamo a immaginare che ciclicamente la nostra poesia decida in quale punto trovarsi del mito di Perseo: l'ultimissima generazione probabilmente preferisce i venti e le nuvole per non lasciarsi pietrificare; ecco: chi l'ha preceduta non dovrebbe obbligarla in metodologie non proprie, obbligarla ad una battaglia che forse dieci o venti anni fa aveva senso, ma che oggi ha perso di significato. Uno dei motivi per cui ritengo di avere doverosamente abbandonato la militanza poetica sta proprio nel fatto che le mie modalità non aderiscono a quelle delle ultimissime generazioni, perché sono mutati i parametri. Forse io appartengo a quelli che cercano di governare i serpenti, per tornare nel mito, ma sono convinto che questa ultimissima generazione vada letta e lasciata autodeterminarsi, nei nomi, nelle tematiche e inevitabilmente nel cambiamento di modalità con cui proporre la percezione della poesia, là dove il cartaceo non solo tende a scomparire (poche copie a un pubblico sempre meno interessato al mezzo e con sempre meno disponibilità economica), ma dove soprattutto il problema dell'approfondimento ha proposte a cui (parlo anche solo della mia generazione) non saremmo arrivati. Applicare i nostri parametri a chi sta lavorando oggi per i nuovi scenari è deontologicamente sbagliato e non aiuta nessuno.

Certo andrà risolto il tema dell'autorevolezza delle proposte, andrà risolto il tema della necessità degli approfondimenti, andranno riconsiderati gli spazi e molto si potrà fare con un forte apporto del mezzo video che sta cambiando la propria vocazione: non più “cinematografico” ma interattivo, poiché là dove la presenza fisica ahimè viene a mancare è necessaria una nuova modalità di fruizione che avvicini le persone in maniera “altra” ma impedisca al contempo una analisi egocratica.

Uno dei testi più convincenti degli ultimi tempi, a mio avviso, lo ha scritto Francesco Ottonello; l’autore parte dal presupposto che per quanto la società ci renda isole, cercando «un punto in cui la propria singolarità si faccia altro» (cit. Tommaso Di Dio in prefazione) sia comunque possibile ridefinirsi come arcipelaghi, in uno scenario diverso da quello di comunità e probabilmente pangeografico che potevamo ipotizzare, io in primis, vent'anni fa.

In uno scenario, quindi, come quello attuale, comunque lecito, possibile e umanamente valido, credo vi siano tanti nuovi autori importanti, in grado in futuro di lavorare in questa direzione; potrei citare, oltre allo stesso Ottonello, Dimitri Milleri, Demetrio Marra, Emanuele Franceschetti, Alessio Arena, Giorgio Ghiotti, Arianna Vartolo, Mattia Tarantino, Federica Gallotta, Gerardo Masuccio, Eleonora Rimolo, Riccardo Canaletti, Gaia Giovagnoli, Francesca Mazzotta, Vernalda Di Tanna, Alessandra Corbetta e almeno altrettanti sono certo sto dimenticando, a partire da chi oggi con me sta lavorando a UniversoPoesia nelle pagine di Strisciarossa (Tommaso Meozzi, Gerardo Iandoli, Bianca Cataldi, Monica Biasiolo): a tutte queste persone è affidato il futuro della nostra poesia, sia come studi che come opere, sia nella produzione che nella diffusione. Cerchiamo di non assomigliare troppo a Icaro per restare nel mito e ognuno faccia, nel rispetto reciproco, la propria parte.


3. Il farmacista e il vulcano


Di Carlos Drummond De Andrade, probabilmente il più influente poeta del Novecento brasiliano in Italia, si conosce poco o nulla: per il grande pubblico è la selezione scelta e tradotta da Antonio Tabucchi per la Bianca Einaudi dal titolo Sentimento del mondo mentre è del 2002, a cura di Vincenzo Arsilio, Cuore numeroso edito da Donzelli. Precedentemente una importante riflessione sull'autore era stata condotta da Luciana Stegagno Picchio in La letteratura brasiliana, uscito per Sansoni nel 1972.


Non fare versi sugli avvenimenti.

Non c'è creazione né morte dinanzi alla poesia.

Dinnanzi a lei, la vita è un sole estatico,

non riscalda né illumina.

Le affinità, gli anniversari, gli incidenti personali non contano.

Non fare poesia sul corpo,

questo eccellente, completo e confortevole corpo, così contrario all'effusione lirica.

La tua goccia di bile, la tua smorfia di piacere o di dolore nell'oscurità

sono indifferenti.

Non rivelarmi i tuoi sentimenti,

che sfruttano l'equivoco e tentano il lungo viaggio.

Quello che pensi e che senti non è ancora poesia. […]


Detta così bisognerebbe tirare tutti il freno a mano e smettere di scrivere: in fondo, se la poesia è antropologicamente dell'uomo, anche la stessa incomunicabilità, essendo caratteristica fondamentale dell'interazione umana, dovrebbe diventare parte integrante della poesia o, ancora meglio, di una ipotesi di metapoesia. Eppure Drummond è anche quello che racconta coi medesimi versi della morte di un lattaio all'alba, in una città abituata a uccidere:


Dalla bottiglia in frantumi

sull'acciottolato sereno

scorre una cosa spessa

che è latte, sangue... non so.

Di tra gli oggetti confusi,

mal redenti dalla notte

due colori si cercano,

soavemente si toccano,

amorosamente si allacciano,

formando un terzo tono

che noi chiamiamo aurora.


Tutta la scena si sviluppa tra le consistenze e i colori, il non detto in questa poesia vince su tutto. Drummond sconfessa i suoi stessi tentativi di poetica ma soprattutto pone un nodo per noi importante, non solo il “cosa” si dice in poesia diventa sostanziale ma anche e soprattutto il “come”.

Perché alla fine a rendere credibile una poesia è la percentuale di verità rispetto alla percentuale di artificio, di tecnica. E la verità può avere mille margini e sfaccettature: in fondo, quello che riteniamo valido oggi sarebbe potuto ieri o potrebbe domani finire per essere inadatto.

Pier Paolo Pasolini in una intervista ad Andrè Fieschi, Cinéastes de notretemps - Pasolinil’enragé’ (1966) la spiegava così: “Le cose vere, sincere, si dicono raramente, forse per caso in un momento d’ispirazione poetica […] Cioè io fin da ragazzo, fin dalla primissima poesia friulana di cui le dicevo fino all’ultima poesia in italiano che ho scritto, ho usato un’espressione della poesia provenzale che è ‘Ab-joy’…Cioè l’usignolo che canta ab-joy, per gioia. Ma ‘joy’ in provenzale ha un senso particolare, di raptus poetico, di esaltazione, di ebrezza poetica. Ora questa espressione ‘Ab-joy’ è l’espressione chiave di tutta la mia produzione”.

E se vogliamo, è questa stessa chiave di sincerità che porta Giorgio Caproni a inserire in Res Ammissa questa poesia:


Dopo aver rifiutato un pubblico commento sulla morte di Pier Paolo Pasolini


Caro Pier Paolo.

Il bene che ci volevamo

- lo sai – era puro.

E puro è il mio dolore.

Non voglio pubblicizzarlo.

Non voglio, per farmi bello,

fregiarmi della tua morte

come di un fiore all'occhiello.


Pensate a questo testo adesso, oggi, in epoca di social, in epoca di celebrazioni costanti: in termini giornalistici parleremmo di coccodrilli. Pensiamo alla poesia come minacciata da un complessivo coccodrillo che ci obbliga a un pietismo ben diverso dalla pietas, da un amore universale puro, per usare il termine utilizzato da Caproni due volte in rapida successione in due versi successivi. Puro il bene, puro il dolore, onesto si sarebbe detto altrove.

Cosa dobbiamo temere quindi dei cambiamenti nella proposta poetica? Forse non tanto gli assetti o gli esuberi di contenuti, forse nemmeno le nuove prospettive critiche o redazionali, quanto il rischio della perdita di innocenza; e allora sì da quella corruzione non saremmo in grado di salvarci.

Ecco il motivo per cui non è la celebrazione della cronaca a creare scandalo, ma la mancanza di purezza, la mancanza di verità: tante volte con UniversoPoesia in Strisciarossa io e la redazione ci siamo trovati a ragionare di tematiche prossime e stringenti, ma quasi mai con testi di ultimissima uscita, perché uno dei grandi valori della poesia è quello profetico. Come reagiremo, come ci sentiremo, dove andremo a finire e dove oggi stiamo finendo, questo è il monito di Drummond sugli avvenimenti.

C'è una serie di saggi molto belli di Durs Grunbein, riuniti da Einaudi sotto il titolo I bar di Atlantide, e in uno di questi Grunbein raccoglie alcune riflessioni emerse durante la visita agli scavi di Pompei ed Ercolano e credo sia davvero la giusta chiusura di questa ipotesi di riflessione: “Il vulcano aveva sigillato nella lava e nei detriti ogni singola cosa che ora veniva riportata nel presente: le immagini degli dèi e gli scarabocchi pornografici, gli affreschi misterici e le scritte insulse, la scacchiera e il rotolo di papiro, anche quel frammento del libro di un certo Filodemo di Gadara, la Poetica, summa della poetologia antica. In esso, indenne dalle catastrofi e dalla distruzione per cause naturali, c'è l'antico discorso in più paragrafi su hypothesis e lexis, su armonia e coerenza nella poesia e sull'autore come fattore al di là di contenuto e tecnica: «Il poeta perfetto, per raggiungere la perfezione, deve non solo far presa sugli ascoltatori, ma deve essere loro anche di utilità e offrire buoni insegnamenti».

Sotto la cenere di Ercolano, conservato in tutta la sua freschezza, si è ritrovato il taccuino del poeta, la versione greco-romana. Egli dev'essere non solo guida spirituale, e con i suoi versi terapeuta, taumaturgo che opera la parola e il canto: ciò che fa deve fare anche intrattenere, recare gioia, deve essere al tempo stesso pedagogico e psicacogico. In poche parole si rivela il più antico segreto del mestiere: solo chi riesce a mescolare piacere e utilità raccoglie tutti i consensi. Dulce et utile al tempo stesso: in questa formula l'aveva sintetizzato la più celebre Ars Poetica dei romani, la lettera di un autore di Satire e Odi ormai un po' avanti con gli anni. Che strada lunga e accidentata per tornare a Orazio”.


4. Le differenze


“Dalla finestra di camera vedo due bambini europei che giocano nel cortile dell'albergo. Si somigliano (sono tutt'e due biondi, per cominciare) devono essere fratello e sorella. È probabile che non abbiano un solo amichetto in tutta Pechino, dove la colonia europea è ridotta ai minimi termini.”


E ancora:


“Mia nonna mi chiamava tesoro, lipscén

diceva e mi appoggiava una mano sulla testa

e mi diceva che era stanca. Vedi lipscén le stelle

che sono sopra di noi, il cielo – l’universo che

non ha confini pensa – a tutte le cose che ci sono

dentro pensa agli anni che ci separano e pensa

a quante persone, in questo preciso momento,

ed è possibile che sia così – tesoro, lipscén – si

staranno parlando delle stesse cose […]”


E ancora:


“Di là dal ponte della ferrovia

una traversa di viale Ripamonti

c’è la casa di Carla, di sua madre, e di angelo e Nerina.


Il ponte sta lì buono e sotto passano

treni carri vagoni frenatori e mandrie dei macelli

e sopra passa il tram, la filovia di fianco, la gente che cammina

il camion della frutta di Romagna.


Chi c’è nato vicino a questi posti

non gli passa neppure per la mente

come è utile averci un’abitudine [...]”


Proviamo a trovare consonanze e differenze. Il primo e il terzo testo sono scritti quasi negli stessi anni, i Cinquanta del secolo scorso. Il secondo è scritto attorno agli anni Dieci, ma di questo secolo. Il secondo e terzo testo sono considerati versi, il primo invece -il più difficile da riconoscere per chi mastica poesia probabilmente- è un estratto del Viaggio in Cina di Carlo Cassola, uscito per Feltrinelli nel 1956. Il secondo è di un autore contemporaneo, Francesco Terzago, che con questo testo apre Caratteri, uscito per Vydia nel 2018 e il terzo è il “mitico” incipit de La ragazza Carla di Elio Pagliarani, che a sua volta riecheggia un celebre testo di Marino Moretti, A Cesena: «Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, / ospite della mia sorella sposa, sposa da sei, da sette mesi appena. / Batte la pioggia il grigio borgo, lava / la faccia della casa senza posa, / schiuma a piè delle gronde come bava. [...]”».

Probabilmente se attraversassimo l'intero secolo di produzione di questi testi non troveremmo grosse differenze: spaesamento, condizione propria che diventa collettiva, senso di inappropriatezza, peso della città come complesso urbano, ruolo della modernità, crollo delle pulsioni private, impossibilità dei sentimenti, fallimento della società: epica in buona sostanza, epica contemporanea. Ma con un viaggio lungo sostanzialmente un secolo.

Preparando questi testi mi sono confrontato con alcuni giovani e giovanissimi autori; uno è Mattia Tarantino con cui ho avuto una lunga telefonata: tra i vari argomenti di cui abbiamo parlato sicuramente sono rimasto colpito da quello sulla pluralità, l'idea in buona sostanza che il ruolo delle riviste sia quello di creare una sintesi da cui fare emergere le pluralità.

L'approccio è decisamente opposto rispetto a quello che anche solo vent'anni fa muoveva le riviste militanti; l'ottica rimaneva garantista, ma in qualche modo ognuno dava una idea con contorni molto netti, molto definiti. Se volessimo utilizzare nuovamente l'immagine molto riuscita di Ottonello dell'isola, potremmo dire che oltre a cercare l'obiettivo primario in poesia di costruire arcipelaghi come già precedentemente individuato, al tempo stesso diventa doverosa la presenza di infrastrutture e connessioni all'interno di queste rappresentazioni, perché l'alternativa finisce per essere una sorta di arrendevole cedevolezza all'ipotesi (per altro non scartata all'interno delle nuove generazioni) di una identità comunque minoritaria della nostra poesia.

Il verso «Aver per nulla la vita», cito ancora Ottonello, come rileva Gerardo Iandoli, fa emergere quel senso autodistruttivo che si nasconde dietro a una vita che si lascia guidare dalle “interdizioni” come se fossero leggi naturali.

Per andare contro a questa predisposizione “catacombale” la necessità è quella di aprirsi alla vita.

Paolo Giovannetti in La poesia italiana degli anni Duemila, edita da Carocci, ci ricorda che «è come se il sistema poesia presidiasse una zona di confine, sottolineandone la precarietà: la fragilità ma anche il pregio, l'utilità. Da una parte c'è il sistema delle arti, dall'altra parte c'è la “vita”. E per “vita” intendiamo quello che i formalisti russi chiamavano byt: le attività quotidiane, gli scambi comunicativi normali, le abitudini di tutti i giorni, il lavoro ecc.».

Cosa distingue quindi una ottima poesia di Patrizia Cavalli da un buon testo di Luca Gamberini sui social? Probabilmente con questi parametri nulla proprio perché va a toccare fruitori, va a rendere un io scrivente reale o semireale un noi collettivo, per questo Patrizia Cavalli (Vita Meravigliosa, Einaudi) o Umberto Fiori (Il conoscente, Marcos y Marcos), per questo autori prematuramente scomparsi come Mario Benedetti o Simone Cattaneo fino a Gabriele Galloni ricevono attenzione anche fuori dai luoghi soliti della poesia, perché rispecchiano quel già accennato ideale pasoliniano di sincerità. Allora ancora una volta i termini del ragionamento non devono essere quelli di un sostanziale allontanamento della poesia dai luoghi comuni, collettivi finanche popolari, ma deve essere l'approdo della poesia in questi spazi consolidato attraverso le modalità e attraverso gli strumenti. E così vale per il meticciato che si andrà collettivamente a ritenere valido e che, in primis le nuove generazioni, riterranno valido andando anche a confutare le regole fino ad oggi date per certe. Se la ricerca della pluralità viene fatta per una reale esigenza di allargamento della visione e dell'azione e non in un’ottica di abbassamento del livello della proposta autorale, allora tutto questo processo va lasciato sviluppare senza alcuna opposizione, in una naturale successione delle priorità. Siano queste generazioni a decidere le proprie pulsioni, nessuno venga loro ad imporle.

Per farlo però, a mio avviso, i mezzi di diffusione così come la lingua non devono essere la sostanza della questione ma, ancora una volta, uno strumento per effettuare questa piccola e grande rivoluzione. Mi scrive Alessio Arena, altro autore talentuoso, nella fitta rete di dialoghi intercorsi per scrivere questo piccolo percorso: “Ritengo che i più consapevoli (e ambiziosi) tra i poeti di questa mia generazione abbiamo riscoperto il ruolo della poesia come servizio. Cerchiamo effettivamente un dialogo con un pubblico di lettori trasversale, non elitario, composto solo da addetti ai lavori”. È a questa prospettiva che la poesia deve lavorare, al servizio e al rispetto. Per poterlo realizzare, un poeta deve fare qualcosa di difficilissimo: abbattere l’io, perché più l'io si conterrà più emergerà il noi. Più ponti riusciremo a creare nelle nostre isole più diventeremo un effettivo arcipelago e più capiremo i confini del nostro territorio, e più faremo comprendere a chiunque i confini del territorio che più amiamo, cioè la poesia.


5. Cosa mi appartiene


L'architetto svizzero Mario Botta è solito parlare di “architettura territoriale”; l'architetto è in definitiva «un progettista che sa frequentare il sedimentato e i territori della memoria e sa leggerli nel paesaggio. Questa consapevolezza di sé e del proprio contesto consente di affrontare altri luoghi, altri mondi, e i temi del mondo globale appunto».

Ecco: io non trovo una definizione migliore di questa per esprimere quello che sto cercando di fare in poesia, sebbene la citazione provenga da un altro ambito. Eppure credo che in qualche modo la sovrapposizione di bellezza e tecnica, teoria e pratica che accompagna l'architettura sia parte integrante anche della poesia. Come un palazzo senza regole strutturali è destinato a crollare, come una abitazione senza i corretti spazi è destinata a non essere fruita, come un complesso residenziale senza un minimo afflato è destinato a rimanere freddo, vuoto, inumano, così vale anche per la poesia.

Con un particolare ulteriore: per quanto mi riguarda, la sostanza del detto vale ben oltre la forma e la forma è strumentale, funzionale al tema sostanziale.

Se utilizzassimo cerchi concentrici o insiemi per definire questi rapporti, certamente l'insieme sostanziale fagociterebbe, o quasi, quello formale: è una caratteristica che da sempre sento mia, non escludendo comunque altre ipotesi. Penso ancora una volta a Grunbein, che ha fatto della precisione strutturale una propria caratteristica; penso altresì a molta poesia di inizio Novecento. Ma certamente per me è valsa sempre di più l'esigenza del dire, e alcune prove ultime con ampia presenza ad esempio di doppi senari, strutture per eccellenza popolari, strutture da testi di operette, vanno ancora una volta alla ricerca di un parlato prosastico, di un racconto, di un’epica non solo mia, ma in cui quante più persone possibili possano riconoscersi.


Il portiere di riserva non esulta come gli altri

rimane fermo abbarbicato alla speranza

che quell’altro in calzamaglia se lo stracci un legamento

per entrare tra gli applausi, conquistare il proprio posto,

avere donne, case al lago, delle macchine potenti.

.

Avere gloria finalmente. Il portiere di riserva

se ne gira col cappotto anche di luglio per non prendere un malanno,

perché una volta era il suo turno, ma lui era a letto

con la febbre, ed entrato il ragazzetto degli under 18

strappò un 9 alla Gazzetta, e oggi gioca in Premier

nel Newcastle, ed ha fatto anche la Champions.


E due réclames per gli shampoo.


Questo testo inizia Kobarid, la mia opera prima uscita per Raffaelli nel 2008. Kobarid è la città di Caporetto, Caporetto è il simbolo per eccellenza della disfatta, non solo in termini evocativi: a Caporetto l'esercito italiano era inesperto, fatto per lo più di giovanissimi mandati sostanzialmente al massacro da generali esperti e senza scrupoli. Quella era l'immagine con cui ho raccontato non solo il precariato economico, che da lì a poco sarebbe esploso, ma soprattutto il precariato sociale, la crisi degli affetti, la crisi dei sentimenti. Il disvalore di tutto quello che covava sotto la cenere in quegli anni a cavallo del Duemila di grosso sviluppo economico e che presto si sarebbe presentato in tutta la sua brutalità. Capivo in qualche modo che noi (ed è un noi esteso, non appartiene solo ai miei coetanei) saremmo stati quei portieri di riserva che per molti anni siedono in panchina aspettando la propria occasione e che per un niente la perdono in favore di altri.

Quanto c'è in questo libro (e nella poesia) di mio pienamente e quanto invece c'è invece di collettivo, generazionale, territoriale per tornare a Botta, non è possibile dirlo. L'artificio letterario prevede verosimiglianza nella vita reale e nel racconto collettivo, l'io si mescola e quasi mai è l'io scrivente, più spesso è un io narrante, come in Giudici, e in parte anche in Sereni, anche se in quest'ultimo la spinta autobiografica è certamente più forte: ma pensiamo a Tema dell'Addio di Milo De Angelis che all'interno di vicende estremamente private, come il racconto degli ultimi mesi di vita della moglie Giovanna Sicari, riesce contemporaneamente a raccontare la fine del Novecento e di quel mondo a cui io stesso accennavo con pochi perfetti versi: «Affogano le nazioni, crollano le torri, un caos / di lingue e colori, traumi e nuovi amori, / entra alla Bovisasca, spazza via il novecento / della solitudine maestra, del nostro verso / sospeso nel vuoto. Altre donne si aggirano / tra gli scarti del mercato, nella nuova miseria / di questo istante. Io siedo al caffè sottocasa, / guardo il paesaggio che fu di Sironi, in un solitario /12 agosto, inizio a convocare le ombre.».

Poi, l'11 settembre: io avevo ventidue anni, stavo preparando l'esame di chimica fisica: tutti noi coetanei ci ricordiamo cosa stavamo facendo quell'11 settembre, così come i nostri genitori si ricordano cosa stessero facendo il 2 agosto 1980, giorno della strage alla stazione di Bologna o il 23 novembre dello stesso anno, giorno del terremoto dell'Irpinia.

Forse oggi manca un evento simile, paragonabile a un conflitto bellico. I successivi accadimenti, gli atti terroristici internazionali, la situazione pandemica, hanno dei contorni più sfumati, mancano di quel senso di rottura che io in prima persona ho vissuto.

E questo non è né giusto, né sbagliato ma semplicemente diverso rispetto a chi mi ha succeduto e che magari ha una idea di nemico meno visiva e più astratta. Nelle macerie, infatti, che si sono create, la poesia se vuole può avere una funzione di ricostruzione, ricostruzione di coscienze, ricostruzione di priorità intellettuali che esulano ancora una volta da una protezione dei propri confini umani ma vanno a intrecciarsi con gli altri, creano moti di sensibilità popolari.

Raccontare i falliti non per lavarsi la coscienza, ma perché in qualche modo si è un fallimento rispetto a equilibri pregressi e imposti a cui non si appartiene o, al contrario, perché si è cercato di esaudire sogni non propri. Tutto questo fa parte di una rottura che la società nella quale sono vissuto ha sviluppato e che continuo a cercare di raccontare, pensando che questo possa muovere coscienze, possa portare a piccoli umani gesti di semplicità, di umanità, che sempre meno sembrano abitarci.

Per questo mi interesso tanto del cinismo, dell'uomo con la testa di cane, come si diceva nella classicità, non per fare difetto a uno splendido animale tenero, premuroso, ma perché il cane nella rappresentazione classica era l'animale disumanizzato, l'animale che dormiva in strada e rispondeva solo ai propri istinti primari.

C'è un passaggio di un articolo di Giorgio Celli apparso in «Uomini e idee», nel numero di maggio-agosto 1966, si intitola Antonio Porta e la “coscienza cattiva” ed è riportato anche in «Gruppo 63, critica e teoria», edito da Feltrinelli. Celli ragiona su Vegetali e animali di Porta, richiamando anche una poesia molto nota di Robert Frost, Design. Ma è un passaggio all'interno della analisi che mi interessa riportare. Scrive Celli: «Un meccanismo più raffinato e apparentemente più “razionale” di eludere la propria “coscienza cattiva”, consiste nel trasformarla in ideologia, facendo della propria condizione coatta la sola condizione possibile e necessaria nell'ambito della natura. La “teoria gladatoria” dell'evoluzione potrebbe essere, in tal senso, interpretata come un tentativo di giustificazione trasferito a livello scientifico-ideologico».

Poniamo il caso che qualcuno mi consideri una cattiva persona, per futili motivi. In questo modello di società, quel qualcuno farà di tutto per portare quante più persone a credere la stessa cosa. E poniamo anche che questo derivi da frustrazioni personali di quella persona. Ecco che la soluzione giustificatoria prenderebbe forma, ecco che il cinismo con la finalità di portare avanti i propri interessi personali renderebbe meccanica questa operazione.

Eccoci ritrovati in uno dei nodi de La stazione di Bologna, edito da Feltrinelli nel 2017.

Il 2 agosto 1980 alle ore 10.25 un ordigno ad alto potenziale viene lasciato nella sala d'attesa della seconda classe della sala d'attesa della stazione dei treni di Bologna, provocando 85 morti e 200 feriti. Dopo oltre quarant’anni si sta concludendo il processo sui mandanti della strage, di chiara matrice fascista, la più grande strage di civili del Dopoguerra italiano.


scoppia una bomba nel cuore di Bologna. due agosto ottanta.

Se dalla Piazza ti incammini e prendi i portici del centro e riesci a superare in un sol colpo quella folla, i saldi, le vetrine, i tavolini delle firme, se riesci a non fermarti davanti a quel barbone inginocchiato a mo’ di Cristo che chiede le monete e prega tutti per i soldi, se a un tratto ti fai forza e inizi a correre smettendo di vedere altrove ti troverai d’un tratto alla sinistra il luogo steso a gambe aperte e in mezzo la ferita che ancora accenna, che ricorda il giorno in cui la gente è stata tutta uguale per una volta, e solo quella. Tutti comunisti, preti. Tutti bolognesi.


Pensare questo libro come il semplice racconto di quella giornata è ovviamente sbagliato, così come considerarla attenzione cronachistica. In realtà, nella reazione dei bolognesi a quella esplosione, nell'adoperarsi ognuno per come poteva per perfetti sconosciuti sta il farmaco a una malattia che ci sta sempre più pervadendo, fatta di nichilismo, cinismo, isolamento.

Entrare nell'ottica di adoperarsi, di aiutare senza tornaconti, anche perfetti sconosciuti è parte di quella idea di necessità sostanziale che da sempre muove la mia scrittura in un panorama che vive ideologicamente, riprendendo le parole di Celli, i propri conflitti come conflitti assoluti, le proprie paure come paure assolute e le proprie vicende come vicende assolute.

Credo, in buona sostanza, che si debba ancora cercare un dialogo collettivo non solo interno alla comunità dei poeti ma anche e soprattutto al proprio esterno per la grande necessità di ascolto e conforto che la parola poetica sa dare. Credo fermamente che l'università e ogni altro livello scolastico possano avere un ruolo fondamentale nel rendere la poesia materia umana e antropologica; per questo credo che chi, come Isabella Leardini, (si veda in questo senso Domare il drago, edito per Mondadori) sta portando avanti una sfida difficile, quale quella di utilizzare i laboratori poetici per fare emergere attraverso la scrittura e la lettura consapevolezze negli adolescenti innanzitutto, ma in generale in chiunque decida in qualsiasi momento della propria vita di potere trovare umanità, conforto, pace, distensione, calore, tempo per l'introspezione attraverso la poesia, debba essere sostenuta. Spero che anche all'interno delle università aumenti una fase di attenzione alla sostanza dell'apparato poetico, con rispetto e interesse per la forma, ma senza che questa schiacci le priorità tematiche, le questioni nodali, le doverose riflessioni che chiunque si pone ogni giorno.

Leggere un paesaggio, costruire all'interno di un paesaggio, anche quando questo si presenta arido, infecondo. Negli ultimi anni il mio lavoro si è portato essenzialmente sul disamore, un disamore che riecheggia Pavese e che non dipende da una o un'altra vicenda sentimentale: è una visione complessiva e collettiva di disinnamoramento, di rottura degli affetti e delle certezze, un cadere nel baratro dei possedimenti e del consumo. È una società di consumo che non è più capace di aggiustare qualcosa che si sta rompendo ma che decide di buttare via quando ancora si può salvare, quando ancora può essere utile. È una società poetica che consuma, consuma storie, vite, che dura il tempo di un post, di un ricordo collettivo, una società senza memoria, sola.

Ecco: se devo concludere questo lungo incontro voglio farlo con un testo de La stazione di Bologna, un testo che mi chiede conto di tutti i nomi che compaiono all'interno di questo ultimo libro su Bologna, di tutta la memoria che ho cercato di inserire. Non solo qui ma in ogni mio testo.


“Perché tutti quei nomi?” mi domanda un amico critico dopo avere letto la prima stesura del lavoro.


Se scendi lungo la dorsale del Paese

troverai senz'altro qualche luogo dov'è successo

quello che neanche più si riesce a raccontare:

Sant'Anna di Stazzema, Monte Sole

e ancora Ustica, San Benedetto Val di Sambro, Brescia,

nelle città assopite, magari tra le mura

oppure nelle viti, tra i frutteti, a settemila metri

in volo, sulle rotaie sopra qualche treno.


E anche quando cambiano le storie, cambiano gli attori

rimane inalterato il suo finale, le urla nelle case vuote simili

a latrati, i nomi urlati che non possono parlare.



Per la registrazione del video si ringrazia Daniele Ferroni


Matteo Fantuzzi (Ph. Daniele Ferroni)

Matteo Fantuzzi, ha esordito nel 2008 con Kobarid per l'editore Raffaelli e nel 2017 ha pubblicato La stazione di Bologna per Feltrinelli. Nel 2011 ha curato La generazione entrante sui poeti nati negli anni Ottanta a cui è seguito, assieme a Isabella Leardini, Lirici e narrativi.

Cura per Strisciarossa, assieme a Monica Biasolo, Bianca Cataldi, Gerardo Iandoli e Tommaso Meozzi, «Universopoesia» sulla poesia contemporanea.


532 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

Comentários


bottom of page