Alma & Turoldo (III Appuntamento)
Il “canto” turoldiano come «parola di resistenza»
Come già anticipato nell’articolo precedente, i Canti ultimi, raccolta finale di David Maria Turoldo, raggiungono probabilmente l’esito più alto della produzione poetica del religioso friulano, non solo per i contenuti stilistici e letterari, ma soprattutto per la straordinaria sintesi che nell’opera si fa tra poesia, filosofia e teologia. Una sintesi che approda ad esplorare un filone poco frequentato dall’intera letteratura italiana se si escludono poche e nobili eccezioni: la mistica, intesa come branca della teologia che ha per oggetto il ritorno dell’uomo a Dio, ma anche come riflessione attorno alla dicibilità di Dio e dei suoi attributi.
Giunto al confine ultimo della vita, appesantito dal male che lo stava lentamente divorando, il “canto” turoldiano diviene «parola di resistenza», unica via possibile a esprimere l’interiorità del soggetto che tende, senza mai giungere, all’Oltre. La mondanità, intesa come predicazione e appassionata partecipazione alla vita intellettuale italiana, viene qui messa da parte, in favore di rovelli più universali. L’estrema tensione e la vis creativa del Turoldo pensatore, in questi testi scorre magmatica, priva ormai della velata letterarietà che correva nelle opere precedenti.
L’unità di misura di queste liriche non è però il verso, ma la parola, capace di «colmare l’abisso» della solitudine umana e di quella divina. Componimenti che si aprono costantemente al dia-logo serrato con la Parola della scrittura in una fusione contenutistica e formale che risulta evidente nella ripresa in diverse liriche del modello del Salterio. Il libro dei salmi dove, come diceva il teologo luterano Bonhoffer, la preghiera dell’individuo diventa Parola di Dio, costituisce il principale punto di riferimento con cui Turoldo si confronta per esprimere un’esperienza di fede “totale” che includa lancinanti dubbi e dolcissimi abbandoni. È nella sofferenza che Dio si rivela all’uomo, identificandosi non con tutta l’umanità, ma con l’ultimo tra gli ultimi, immerso e annientato dalla paura e dal dolore.
Mario Luzi, ammiratore come Zanzotto dell’ultimo Turoldo, ha scritto a proposito dei Canti ultimi come di «un implacabile caccia cristiana, una ricerca tormentosa ma anche luminosa[1]». Una «caccia» che assumerà ora contorni amorosi nelle sezioni dei Canti Ultimi ispirate dal Cantico dei cantici, ora discese in «abissi inesplorabili» come in Mie notti con Qoelet. Il filo che lega mistica e teologia, filosofia e letteratura, potrà però essere solo la poesia, il “canto” che nel suo atto stesso di darsi, vuole tendere un ponte tra il divino e l’umano:

…solamente so che per questi
pertugi, quasi ferite
al costato – ho potuto
esprimere pensieri come fiori
dire segreti negati a me stesso
seminare speranze fino
a rimanere tu
- passata la tempesta –
Albero spoglio…
E toccare con mano l’utopia
e sentire battere
il cuore degli eventi
E ora che il tempo è breve
Godere anche dell’inverno…
Ed è qui che si svela il nocciolo delle poesie di David Maria Turoldo: il tentativo immane e ossimorico di dire quello che, per definizione, è ineffabile e indicibile.
[1] MARIO LUZI, XXXIII, in Nel lucido buio- ultimi versi e prose liriche, a cura di G. Luzzi, pp.76-77
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