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  • Immagine del redattoreMartina Toppi

Le Antichità di Alma (appuntamento n°10)

LA POESIA NEL MARE DELLA STORIA: DA KOSTANTINOS KAVAFIS A DAMIANO SINFONICO

 

Kostantinos Kavafis scriveva i suoi versi su foglietti volanti. Poi li affidava a conoscenti, talvolta assemblando le poesie in un fascicolo ma non sempre e non per forza. Sceglieva di rendere pubblici i suoi componimenti su supporti temporanei e di affidarli alla cura di chi ne era destinatario, fosse anche per il puro gusto di fare della scrittura strumento di condivisione. Quella trasposizione materiale fatta di pezzi da comporre era un sintomo, forse inconsapevole, del lavorio mentale che presiedeva alla stesura di versi destinati a rimanere iconici di un modo poetico di addentrarsi nella storia. Infatti, sebbene Kavafis fosse nato ad Alessandria d’Egitto nel 1863, da madre di origine fanariota, condusse diversi anni cruciali della propria vita in Inghilterra, tanto che la sua parlata greca si sarebbe portata dietro, fino alla morte, un leggero accento inglese. Un distacco momentaneo da una lingua il cui passato avrebbe impregnato poi completamente i versi di Kavafis. Appassionato cultore della storia dell’ellenismo in declino e del mondo bizantino, il poeta di Alessandria trovò nelle radici della sua terra e della sua lingua fonte costante di ispirazione; in chiave, però, di lucida critica alla società contemporanea. Lo spiega bene Mario Vitti in “Storia della letteratura neogreca”: «Kavafis non ricorre ai temi della storia passata per evadere dalla realtà dell’ambiente contemporaneo; li utilizza in un rapporto di omologia: colloca i personaggi nel periodo di transizione, dominato dalla confusione morale e politica, nel quale spesso il culto pagano convive con quello cristiano, e nel quale è opportuno addivenire ad abili compromessi».

 

La scelta di quel periodo storico specifico non è casuale: ad Alessandria come in Inghilterra, Kavafis aveva visto cosa accade a una società quando si apre allo straniero e gli era sembrato che la civiltà ellenica di cui era erede, che era riuscita a sintetizzare varie nazionalità, potesse non solo reggere il confronto con quella del XX secolo, ma anzi fornirne delle chiavi di lettura. Dall’assenza di una patria precisa alla facilità di comunicazione, passando per la libertà dei costumi e per una nuova morale del sesso. Insomma, la storia non era carta morta per Kavafis, ma terra viva in cui la poesia poteva trovare linfa per crescere e diffondersi. Nacquero così alcuni di quei componimenti che ancora oggi sono erti a simbolo del poeta che riutilizza la storia per alimentare la poesia.

 

E la storia nel verso può farsi strada più o meno sfacciatamente. Accade in maniera esplicita, ad esempio, in Re Demetrio: «Quando fu abbandonato dai Macedoni, / che davano segno di preferirgli Pirro, / re Demetrio (era di animo grande) / non si comportò – così fu detto - / in modo regale. Andò a togliersi / la veste ricamata d’oro e gettò le calzature / di porpora. In fretta indossò / abiti ordinari e si mise in salvo / come fa un attore che, finito lo spettacolo, / cambia il costume ed esce dalla scena». Oppure può capitare che la storia non sia che un foglio volante consegnato nelle mani di un lettore cui Kavafis chiede fiducia, come in Se non puoi la vita che desideri: «E se non puoi la vita che desideri / cerca almeno questo per quanto sta a te: / non sciuparla nel troppo commercio con la gente / con troppe parole e in un viavai frenetico. / Non sciuparla portandola in giro / in balìa del quotidiano gioco balordo / degli incontri e degli inviti / fino a farne una stucchevole estranea». Impossibile non scorgere in questi versi gli insegnamenti di Seneca a Lucilio: «Dunque, Lucilio caro, metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro».

 

Non solo nei versi di Kavafis le opere letterarie della classicità greca e latina ritrovano respiro, ma anche la lingua in cui esse sono state scritte viene raccolta e rimodellata, fino a che ogni suo movimento non sia nuovamente vivo e palpitante. Parlare di lingue morte è facile, ma superficiale: una lingua non muore, semmai si spegne, se vogliamo provare a usare più precisamente la metafora. Kavafis non ha bisogno, in Itaca, di rianimare l’ormai defunto greco di Omero, bensì cerca di puntare la luce lì dove esso è ancora freneticamente vivo per il lettore di oggi: lo riesce a fare impostando i propri versi su uno stile linguistico dinamico che mescola la dhimotikì (lingua neogreca effettivamente parlata in Grecia a cavallo tra il XIX e il XX secolo) alla katharèvusa (forma di neogreco purificata che cerca di riprodurre il greco antico). La poesia diventa così non solo spazio di apprendimento della Storia, ma anche restituzione di un processo inarrestabile entro cui la lingua, persino quella poetica, lotta per rimodellarsi ed emergere con un volto sempre nuovo.

 

Se «l’uomo è ciò che legge e tanto più un poeta», come diceva Brodskij proprio a proposito di Kavafis, occorre ringraziare che il poeta di Alessandria abbia letto tanto le biografie di Plutarco quanto i versi Baudelaire. Senza la dinamica di costante tensione tra lingua di ieri e lingua di oggi, tra passato e presente che nel passato si colloca, non avremmo mai potuto leggere versi capaci di trasformare gli aneddoti della storia in poesia. Una poesia che era poi anche attenta a cogliere i particolari, le novità che dal passato riemergono come conchiglie preziose dai fondali marini. Era un poeta cupo, Kavafis, che scriveva di viaggi così spesso da far pensare che non stesse comodo in nessun luogo. O meglio, che fosse irrequieto e disilluso al tempo stesso: come se l'aver bevuto dal gran bacino della storia gli avesse aperto gli occhi sull’impossibilità di trovare una soluzione al viaggio, una meta.

 

La Storia e le storie che la compongono: verso questa frontiera dei percorsi poetici si indirizzeranno i futuri articoli delle Antichità di Alma, che da questo prendono il via. Lo faranno sempre tenendo al centro i poeti classici greci e latini, principali interlocutori, ma a questo giro di boa anche cercando interpreti contemporanei che aiutino a rileggere le poesie dell’antichità alla luce dell’oggi. E oggi Kavafis non è solo.

 

Se si dovesse scomodare un autore del passato, per quanto recente, per avvicinare i lettori a un autore contemporaneo come Damiano Sinfonico, che di questa puntata delle Antichità di Alma è il secondo protagonista, la scelta non potrebbe che ricadere su Kavafis. Con le dovute differenze, è chiaro, ma il gioco delle tangenze sta proprio lì dove le linee maggiormente si allontanano per tornare poi a incontrarsi. Vale anche per il poeta di Alessandria quanto scritto da Antonio Lanza nella prefazione a Le spente lingue (Vydia editore, 2024), l’ultima opera di Sinfonico: «L’antichità classica, lo si sarà intuito, non è un rifugio né tantomeno un luogo che offre occasione di ingenua adesione, ma rappresenta invece, uno spazio ulteriore di incontro con una alterità che rimane irriducibile, ma che pure è necessario accostare e tentare di erodere». Proprio a partire da questa citata necessità è possibile scorgere una differenza fondamentale che si incunea tra Sinfonico e Kavafis. La necessità, da un lato, che spinge il poeta di Alessandria a cercare nel declino dell’ellenismo una chiave di interpretazione della propria epoca; dall’altro quella che porta Sinfonico a scavare nell’età di mezzo che dalla Repubblica romana si sbilancia verso il Principato. Sono opere storiografiche quelle cui entrambi i poeti sembrano rifarsi maggiormente, pescando la propria ispirazione poetica nella cultura classica, sebbene in entrambi il passo letterario richiamato non sia sempre reso esplicito, anzi il più delle volte taciuto. Due epoche di cambiamento, dunque, ma due epoche decisamente diverse. Della scelta di Kavafis si è già detto sopra.

 

Di quella di Sinfonino cosa si può ipotizzare invece? «La crisi delle istituzioni tradizionali nell’ultimo secolo della repubblica romana, dall’età dei Gracchi in poi, è caratterizzata dalla coscienza molto presente, ai più vari livelli sociali, della necessità di interventi riformatori […] Dobbiamo tenere conto, credo, che siamo di fronte a realtà in evoluzione lungo i primi tre secoli dell’impero: se si vuole, in formazione, trainate dalle esigenze dell’amministrazione, in una società non uniforme, a fronte di mutamenti di mentalità più lenti e a scontri di ideologie contrastanti che cercano anch’essi una loro unità». Sono le parole che segnano l’epilogo di un libro intitolato “Augusto e il Principato” in cui Mario Pani, studioso e docente di Storia Romana, prova a dare risposte nette alle principali domande su uno dei periodi storici più ferventi di cambiamenti della storia romana: il passaggio dalla Repubblica al Principato, che è appunto uno degli sfondi storici percepiti da chi scrive con maggiore insistenza nella poesia di Sinfonico. L’età che vede il fiorire di autori come Virgilio, Orazio e Livio è l’età di chi spera che la pace promessa da Augusto sia reale e duratura.

 

Ed è un’età che parla da vicino alla nostra, perlomeno per quanto riguarda noi europei che siamo poi quelli maggiormente immersi nel ricordo dei classici greci e latini. Quest’età di transizione ci fa pensare all’idea profondamente europea e profondamente radicata che, dopo la fine della Guerra fredda, il mondo potesse davvero conoscere la pace. Un’idea che gli ultimi anni hanno saputo prendere e mettere sottosopra. La raccolta di Damiano Sinfonico alla guerra però pensa solo in ultima battuta. È solo nella terza e ultima sezione, infatti, che il poeta si occupa di testi in cui, per usare le parole di Lanza, «si susseguono sanguinose campagne militari». Ed è curiosamente però questa l’unica sezione in cui figura l’unico componimento di tutta la raccolta che con il mondo classico non ha nulla a che fare: «Indaffarati, operosi, montano il mercato / di primo mattino. Sollevano verande automatiche, / caricano tavoli, spostano scatole / e qualcuno manovrando un furgone / lascia una scia d’olio sull’asfalto, / una terrestre e umida stella cometa».

 

Questo è il componimento in cui la lingua di Sinfonico si fa più armonica: l’antico c’è, ma è indistinguibile dal contemporaneo. I due elementi si intrecciano nei versi, fusi in qualcosa che non è più né solo l’uno né solo l’altro, giocando al gioco della lingua di oggi che si cela dietro quella di ieri per poi tornare a fare capolino all’improvviso, nel bel mezzo del verso. Capitava, lo si è visto, spesso anche nelle poesie di Kavafis. E non sorprende che accada in Sinfonico, anche perché il tema della lingua è subito evocato dal titolo della sua opera: Le spente lingue. Lingue che sono naturalmente il greco ed il latino, ovvero quelle evocate da Giacomo Leopardi in Ad Angelo Mai e interpretate come strumenti capaci di incitare l’uomo ad “atti illustri”. Riescono a farlo perché portano con sé un mondo: lo si scorge con limpida chiarezza nella prima sezione della raccolta di Sinfonico, in cui il poeta gioca con le parole per trascinare chi legge in un passato vivido, dove ogni nome significa molto più di sé stesso, creando arabeschi di colori, facendo risuonare miti antichi, proiettando storie di singoli divenute oggi universali. «L’aria è piena di piume / ovvero di neve / annota Erodoto / parlando del clima degli Sciti. / Miopi per fitta leggerezza / non avevano un termine / per designare la neve / e nella privazione / giunsero a un’immagine / che dalle Storie si deposita / sull’atlante delle lingue».

 

E c’è infine una seconda sezione di Le spente lingue, posizionata anche tematicamente in mezzo, tra gioco linguistico e guerra. Lì dove i versi di Sinfonico si avvicinano maggiormente alla vita degli antichi greci e latini, ai loro riti di passaggio, alle loro credenze religiose, al modo in cui provavano a tradurre in gestualità umana il trascendente, lì l’afflato storicizzante del poeta si ribalta. È nei testi contenuti in questa sezione, infatti, più che nel resto dell’opera, che Sinfonico cerca nel passato uno specchio dei tempi incerti di oggi. È qui che la crisi delle democrazie contemporanee, evocata dal passaggio dalla Repubblica romana al Principato, trova consolazione in quei gesti rituali che, anche se per pochi istanti, concedono all’uomo, identico a sé stesso attraverso il mare dei secoli, di sentirsi ancorato a un qui e a un ora. «Appena un paragrafo per il fico Ruminale / negli Annali di Tacito, il fico che seccò e rifiorì. / Anche Machado scrisse di un olmo secco / e poi ringemmato». Ed è sempre qui, e non a caso, come crede chi scrive, che il riferimento alla cultura contemporanea non trova alcun ostacolo a mescolarsi con quella classica: Tacito con Machado, la storia di Rufo con quella di Lolita, la lettera di un senatore resa intelligibile al lettore di oggi con un tuffo in un racconto di Bolano. «Dalla lettera di un senatore / (o da un racconto di Bolaño): / “Arriveremo impolverati e stanchi, / preparate ogni alloggio. / Questa sera il mondo scricchiola, / riempite le vasche da bagno”.

 

Proprio qui viene da domandarsi se quanto ipotizzato finora non sia altro che un lungo e intricato viaggio intellettuale consumatosi invece nella mente del poeta nell’arco di pochi secondi. Tra i cassetti della memoria, in cui i versi classici letti sui banchi di scuola sono stampati come tatuaggi indelebili sugli ingranaggi del pensiero, il critico non può che accartocciare la mappa e arrendersi all’evidenza di una poesia che attraversa la Storia senza paura e lungo una direttiva che diviene chiara solo nel corso del viaggio. E lo fa percorrendo le tappe quasi come in un racconto di fantascienza, a una velocità impossibile da ricostruire con la prosa, la filologia, lo studio dei testi. Lo fa con la semplice immediatezza di chi sente che «il mondo scricchiola», ieri come oggi. E sente che oggi, come ieri, solo la poesia sa tradurre in parole quel suono premonitore.



Damiano Sinfonico (Genova, 1987) insegna in un liceo. Ha pubblicato due libri di poesia: Storie (prefazione di M. Gezzi, L’arcolaio, 2015) e Lingualuce (L’arcolaio, 2017). È incluso nell’antologia Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90 (Interno Poesia, 2019). Ha tradotto dallo spagnolo Se volessi potresti alzarti e volare di J.C. Rosales (prefazione di V. Nardoni, Interno Poesia, 2021). Nel 2021 è risultato finalista al premio Italian Poetry Today.

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