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Immagine del redattoreAlessia Bronico

Intervista a Paolo Talanca

Aggiornamento: 15 giu

Alessia Bronico intervista Paolo Talanca e indaga con lui il rapporto tra poesia e canzone.



Paolo Talanca nasce a Pescara nel 1979, è insegnante, critico musicale e divulgatore culturale. Come si conciliano tutti questi aspetti nel suo metodo di insegnamento?

 

Io ho avuto la fortuna di aver capito praticamente subito, a diciott’anni più o meno, cosa mi appassionava davvero: un tipo di canzone autentica, fatta da chi artisticamente ti sa sorprendere con musica e parole. Da allora mi sono sempre prefigurato l’idea di voler insegnare per poter trasmettere ai ragazzi il modo in cui a me quelle cose facevano emozionare. Quindi sin dagli anni dell’università studiavo in funzione della canzone d’autore. Ho cercato di curare l’aspetto performativo con un Master alla Silvio d’Amico; il resto è venuto da sé. Oggi, dopo aver insegnato da oramai oltre dieci anni dalle medie all’università o in conservatorio, ho capito che un docente non deve trasmettere, ma far sbocciare le passioni dei ragazzi: deve far fiorire. Ci sono arrivato per un’altra strada, ma mi sono accorto che, rileggendo il mio percorso, non ho fatto altro. O, almeno, ci ho provato. 

 

«La mia ricerca punta soprattutto a evidenziare come la canzone d’autore sia un’espressione artistica autonomamente letteraria.»: può condividere con noi una riflessione più articolata

rispetto a questa sua affermazione?

 

Spesso si pensa che la canzone sia la sorella minore della poesia. Come si pensa che il fumetto lo sia delle arti visive. Niente di più sbagliato. Le parole di una canzone possono arrivare a essere altissima letteratura, ma lo sono in musica, non bisogna mai togliere la musica dal testo. I testi delle canzoni nelle antologie scolastiche, con esercizi di metrica sull’endecasillabo e sul settenario, rischiano di rappresentare una strada sbagliata. La canzone è cellula ritmica, ripetizione accentuativa ma anche quantitativa, a volte più vicina alla metrica classica latina e greca che alle misure italiane. Insomma: la canzone è un’altissima forma di letteratura ma diversa dalla prosa e dalla poesia. A volte a metà strada.

 

Canzone è poesia o poesia è canzone?

 

Nessuna delle due. Oramai sono diventati linguaggi completamente differenti. Ci possono essere figure retoriche comuni, perché entrambe hanno a che fare con la parola misurata, ma sono scritte con intenzioni oggi troppo distanti.

 

Scrive: «Si avrà a che fare con un “segno terzo”, nato dall’unione della parola e della musica ma differente da entrambe». Sembra una magia, lo è?

 

Può esserlo. La sintesi concettuale che si raggiunge con una canzone spesso può esserlo. Faccio un esempio. Il passo di “Giudizi universali” di Bersani, in cui canta “liberi com’eravamo ieri dai centimetri di libri sotto i piedi per tirare la maniglia della porta e andare fuori” racconta un mondo di sensazione e evocazione in pochi versi. Accade perché la musica cambia scenario, introduce due accordi in minore su immagini comfortevoli, un po’ nostalgiche ma certamente “gustose” che danno senso di libertà. Musica e parole creano un cortocircuito che poi ha l’accento forte nel ritorno all’accordo tonico. È un mondo che si schiude in quel momento della canzone e serve per altre situazioni all’interno del pezzo. Come fai a togliere quelle parole da quella musica. Musica e parole non esistono più, esiste il terzo segno che è l’unione delle due cose.

 

Musica e parole. Breve storia della canzone d’autore in Italia, edito per i tipi di Carocci Editore, è la sua recente pubblicazione che prevede l’ampliamento del canone uscito nel 2017 e propone una strutturazione e gerarchizzazione della canzone d’autore secondo criteri prestabiliti. Con questa nuova pubblicazione cosa viene ad aggiungersi?

 

Dopo il canone in cui parlavo della struttura della disciplina e della forma d’arte, ora ne racconto la storia, con la sua era arcaica, aurea, matura e con la stagione in cui “canzone d’autore” è diventata un’altra cosa. Io credo si debba sempre fare così: prima viene la semiotica, si descrive l’oggetto di cui parli e ci si mette d’accordo; poi si racconta la storia. È come se a un bambino dicessi: il lupo è cattivo e la nonnina è buona, questi sono i personaggi; ora ti racconto la storia. Poi puoi capovolgere tutto, ma tu e il bambino sapete di cosa si sta parlando.

 

Perché i cantautori nelle scuole: lo dica come farebbe rivolgendosi a degli studenti e poi a degli insegnati, insomma, le chiedo di adottare entrambi i punti di vista.

 

Agli studenti direi che i cantautori in Italia ci hanno fatto capire che esprimere il proprio modo di vedere le cose è possibile, senza farsi condizionare dagli altri o voler essere qualcosa che il mondo ti chiede di essere; ai colleghi dico che l’uso della canzone è una metodologia didattica innovativa, che funziona sull’apprendimento significativo del ragazzo, tramite un linguaggio molto più vicino di tanti manuali.

 

Come pensa che l’utilizzo dei social, e della rete più in generale, abbia modificato la fruizione della canzone d’autore?


L’ha cambiata di tanto. Ma sono fiducioso perché penso che l’intelligenza artificiale sostituirà definitivamente solo per un certo tipo di canzone commerciale, scritta da chi va incontro a quello che il pubblico vuole o si aspetta: questo l’AI lo sa fare molto meglio dell’essere umano. I social sono divisi per fasce di età e interessi, e la canzone d’autore nel prossimo futuro, fuori dal disco sarà sempre fatta nel "qui e ora" e dal graffio sorprendente di una canzone. Tutte cose che l’AI non sa fare.

 

Una poesia, una canzone, una passione.

 

Forse un mattino andando in un’aria di vetro, di Montale; Il regno delle fate, di Max Manfredi; tutto ciò di cui ho parlato in questa intervista.

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