Alessandra Corbetta
23 mag 20204 min
Ne La filosofia delle piccole cose (Interlinea 2004), Francesca Rigotti riporta l’attenzione sugli oggetti del quotidiano, quelli che, come il sapone, le forbici o il ferro da stiro accompagnano, nel loro esistere inanimato, le nostre irrinunciabili abitudini. Ho subito pensato a questo testo quando mi sono ritrovata a leggere gli inediti di Antonio Vittorio Guarino il quale, per provare a tracciare una linea che unisca i punti dell’esistenza, sceglie di avvalersi delle piccole cose. È una poesia del tatto e dello sguardo quella di Guarino che trasforma la crepa nel muro, una lampadina o delle sedie in trigger capaci di rivelare l’infinitudine della condizione umana, seppur ancorata a un sostrato fatto di limite e di finitezze. Non è un caso se, infatti, Guarino insiste sul concetto di spazio, inteso come mondo esterno a disposizione ma non necessariamente occupato e occupabile, e quello di casa, in cui si annida il gioco abitazione/abitudine. I versi di Guarino, ed è questa la loro maggiore forza, tentano lo slancio partendo da un sentire autentico di costrizione a cui si oppone, però, la consapevolezza di un altro vivere che, magari proprio attraverso il suono della lavatrice, ci chiama a qualcosa di migliore.
*
Tutto è uguale e meno certo del solito.
Al sole lo si vede bene, lo si intende senza
sforzi, questo scorcio di palazzi e alberi
sempreverdi che restano, mentre sotto
e dentro passano abitacoli e abitanti,
inventando e perdendo, continuamente,
l'invenuto da una strada all'altra, dal balcone
alla cucina.
*
Un dettaglio, il disordine è un dettaglio
macrocosmico: il nomadismo
continuo degli oggetti nello spazio,
la deriva dei sentimenti infranti
sui continenti disegnati a penna,
lo scontro tra gli astri (s)fatti carne –
enormi supernove nella stanza
che piangono fino alla morte,
nascosta negli eccessi di luce
delle lampadine a risparmio energetico
*
Si narra, in elenchi di frammenti,
della vita componibile, a pezzi
mancanti. Restano i pomeriggi
nell’ombra delle case, dove si convive
con l’allocuzione infinita ad un altro
che attende d’esser presente, alle lavatrici
bianche, ai morti, che vivono lividi
sottopelle, vermigli – compagni
ironici o copie di noi stessi in posa
perfetta –, a darci l’assenso nella
parvenza, ridotti in forma di oggetto.
Così si aggiunge, per noia, la compagnia
degli scaffali, delle poltrone, delle sedie
in serie uguali, cloni da contemplare nelle
riunioni segrete, dove non accade alcuna
cosa, perché le cose cadono ma non accadono,
e hanno un nome estraneo che le dice – le dico,
le chiamo, ma non si voltano, le percuoto
ma non si lamentano. Tutta la loro presenza
non è che uno stare fuori, davanti, alla portata
della presa, dell'urto, del contatto casuale
per il quale ci appaiono e sorprendono
con il loro esser niente – e questo è un miracolo
più grande della resurrezione dei morti.
*
Una crepa d'umido sul soffitto fa scorgere
il possibile inizio di romanzi e poesie, o
la vita degli altri, sotto la coltre di intonaci
stanchi e ferri che cederanno, prima o poi,
e mai l’immagine di Dio, che abbiamo
creduto abitasse sopra di noi, come
l'inquilino silente di cui non siamo
riusciti a percepire il passo, il tic, il tocco
delle scarpe sul pavimento, in testa, di notte.
Adesso, non sappiamo niente, e l'aria
malata intorno è così invitante che vorremmo
starcene al sole come lenzuola che non
si arrendono alla presa delle mollette,
ma il cortile interno raccoglie solo luce di rimando,
obliqua, è uno stagno che moltiplica la larva
per dieci; i feti abbozzati ai vetri di finestre
appena schiuse, dove all'angolo il ragno
attende di colpire col suo siero venefico
la preda dall'occhio umido, assonnato
e cisposo, contemplano, attraverso
il riflesso, la virtù della stasi, la voluttà di un moto
ripetuto fino all'immobilità, con malinconico
ossequio alla possibilità fantasticata di una
fuga all'inglese, coraggiosa, una diserzione
dalla posa dell'osservatore, del testimone
della storia, profeta minore, martire senza nome
proprio; oppure tornano indietro e si danno
al gioco delle riparazioni che non ci sono
state, che non ci saranno – ahimé,
quante! Quanto godimento trova
il coniglio nella tagliola!
*
In ultima istanza, abbiamo fatto della piaga
una casa, e viceversa, ché è impossibile abitarsi
senza un certo disgusto, una forma di amore,
di renitenza alla presenza ridondante di sé stessi
negli spazi, che ci somigliano e ai quali per osmosi
somigliamo. È un assedio rassicurante, questa carne
su carne di coperte sulle nostre gambe, di pareti attorno,
di celle che sono stanze, dove soggiorniamo replicati
nella distanza degli arti, degli organi, dei pianti
dagli occhi. A coppie di corpi, si può vivere solo
se si ha un frigorifero abbastanza grande
da contenere scorte di assenze, dimenticanze,
come pretesti per uscire a prendersi; ma da soli
i vuoti non esistono.
Antonio Vittorio Guarino (Napoli, 1985) vive ad Avellino. Laureato in Filosofia presso l’Università degli studi di Napoli “Federico II”. Ha pubblicato: La Vita Beota (Ed. Il Foglio Letterario, 2009), La caduta dalla giovinezza (Onirica edizioni, 2011) e La costellazione dell’assenza (Fara 2016), opera vincitrice del VI concorso nazionale Faraexcelsior. Alcune sue poesie sono presenti su antologie, riviste e siti web.