«Un amico da risanare»: recensione a "Damnatio memoriae di Samir Galal Mohamed
Non credo e non ho mai creduto alle etichette, soprattutto in poesia, non ho mai pensato che un’opera o un autore potessero essere incasellati sommariamente, perché la poesia è una faccenda complessa e nasce dall’accordo e dal disaccordo fra troppe componenti, perché la sintesi che realizza la parola poetica è il prodotto di un conflitto che spesso si trascina fin dentro la pagina. Eppure, se mi si dovesse chiedere che cosa è oggi la “poesia civile”, senz’altro citerei questo libro di Samir Galal Mohamed, un poeta giovanissimo, che con Damnatio memoriae, volume dal titolo di per sé piuttosto eloquente edito per Interlinea, conferma una statura poetica che già era avvertibile nei testi apparsi in volume nel lontano 2015.
È vero l’espressione “poesia civile” si presta a una serie interminabile di equivoci e il poeta in questione è dichiaratamente riluttante a qualsiasi forma di catalogazione («non scrivo […] versi d’occasione e, ancora meno, di devozione» avverte, quasi a rivendicare uno spazio privato e non contrattabile per la sua poesia), ma credo sia necessario rispolverare questa definizione e restituirle la dignità che merita, disincrostandola da quegli stereotipi e da quei falsi miti che da troppo tempo la abitano. Anzitutto dall’idea che scrivere poesia civile significhi banalmente registrare ciò che accade fuori di noi, annotare le sozzure e il marciume del mondo divenendone testimoni immobili; e poi la concezione, già a lungo e sterilmente dibattuta nei decenni passati, secondo cui un certo tipo di poesia implichi una qualche rinuncia allo stile, alla scrittura, come se l’importanza e il peso di ciò che diciamo e raccontiamo esiga un arretramento del poeta che deve simbolicamente farsi da parte rispetto al contenuto che sta rivelando.
Questo libro ci dimostra invece che vale l’esatto contrario: il linguaggio poetico nella sua vastità, nell’ampiezza di toni e modulazioni che possiede, può e deve essere usato tutto e senza compromessi così come scrivere poesia civile – e scrivere poesia in assoluto – non significa abolire l’ “io” ma fare di quell’io un perno, un luogo privilegiato attraverso cui guardare, registrare e infine decodificare le cose che avvengono intorno a noi, quelle cose che ci riguardano tutti, in quanto uomini.
Credo infatti che proprio la riflessione sull’umanità, sull’essere “umani”, che inevitabilmente porta con sé l’idea di disumanità e di disumanizzazione sia la vera chiave di volta del libro: guardare in faccia il male, affondare nel pantano della realtà significa fare i conti con quella dimensione “umana” e significa anzitutto fare i conti con se stessi e il poeta quei conti deve farli doppiamente, in quanto “individuo” che abita il mondo e in quanto portavoce del dolore e del male che alberga fuori di lui. Ecco superato e smentito il pregiudizio secondo cui l’io dovrebbe annientarsi e ribadita invece la necessità secondo cui il dualismo tra l’io e il mondo sia imprescindibile in ogni forma di poesia.
Di questa dialettica, presente in tanti modi nel libro, ne è una conferma l’accostamento all’inizio della seconda sezione tra le “case”, protagoniste di due liriche consecutive: la casa di famiglia, la sola in cui trova pace e riesce a riposare «appartata com’è dai fatti del mondo» e la “casa di reclusione di Fossombrone” che gli provoca quasi una fitta all’addome, un senso di angoscia persistente. Il poeta allora trascina su di sé il dolore del mondo, il suo travaglio, lo porta fin dentro le ossa e mentre fuori, migliaia di chilometri oltre il nostro recinto, il nostro piccolo mondo, due studenti sparano e ammazzano altri studenti e i loro insegnanti, lui si chiede se un gesto di gentilezza verso una madre sul tram possa in qualche modo ristabilire o, almeno, iniziare a pareggiare «l’ordine del mondo».
Il somatizzare è forse un atto preliminare alla poesia stessa o qualcosa di parallelo, quasi il poeta e l’uomo prima di incontrarsi e di fondersi in un’entità sola dovessero simbolicamente riappacificarsi per evitare che chi scrive diventi un semplice cronista, assuefatto alla violenza e al sangue: l’uomo deve prima sporcarsi e poi pretendere che gli «ultimi versi» di ogni oppresso, e di ogni oppressore, gli vengano scritti addosso.
C’è di fondo a questo processo un interrogativo pressante che solo chi è veramente poeta ed è davvero consapevole del gesto della scrittura si pone: se la poesia non può salvare e non può «ricucire», allora dove sta il suo valore; se è vero che il poeta non ha partecipato alla lotta, se la sua fatica è «ìmpari» rispetto a chi porta sulla pelle i segni di quello scontro (e penso a «Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò», condannati per aver difeso la loro terra dall’abominio della TAV), come potrà farsi perdonare e perdonarsi per la sua «medietà», per l’aver contribuito solo con la sua parola? La risposta è implicita nel titolo del libro stesso: la poesia, con la sua facoltà di eternizzare, di far durare e procrastinare quel grido di dolore, svolge una missione altrettanto preziosa, dando voce a chi non ha più voce, salvando tutto ciò da una inevitabile e impietosa “damnatio memoriae”. «Scrivere / salvare» afferma Mohamed in un testo, sottrarre all’oblio, nella speranza che quel “salvare” significhi ritornare a discutere, guadagnare qualcosa (accogliere «il tragico per tornare a parlare di deontologia»).
Mi pare di sentire riecheggiare il dialogo di Luzi, poeta distantissimo dal nostro e per questo ancor più interessante da citare, “presso il Bisenzio” quando al “compagno” che lo accusava di non essersi bruciato «al fuoco della lotta» come gli altri, rispondeva «è difficile spiegarti. Ma sappi che il cammino /per me era più lungo che per voi /e passava da altre parti». Questo il destino della poesia: seguire altre strade, altri sentieri, non sentirsi colpevoli per non aver vissuto le sofferenze degli altri, ma sentirsi colpevoli, prima di tutto come uomini, se non le si condivide, se non le si fa proprie.
Di questo libro, di cui si è cercato anzitutto di esplorare la radice, la logica sotterranea, si potrebbe dire molto e molto altro, a iniziare dalla struttura: tre sezioni che diventano quattro se si contano gli “omissis” finali – che non sono semplici chiose, ma posseggono una loro personalissima forza – precedute da una scelta ragionata dalla silloge d’esordio, Finché sangue non ci separi, ripresa in mano e almeno in parte ripensata per l’occasione. Una premessa questa che non risponde a una necessità di autocitazione, o autopromozione, che pure potrebbe essere legittima, ma alla volontà di riagganciare quel sostrato già densissimo degli esordi e di amplificarlo e moltiplicarlo nei nuovi testi. Una premessa che si apre sotto il segno dell’omaggio a Dario Bellezza, poeta grandissimo e altrettanto dimenticato, poeta non allineato e dalla forza espressiva incredibile di cui certo Mohamed si sente in qualche modo debitore. E proprio questo retaggio culturale, che non è solo poetico, ma anche filosofico e artistico in senso assoluto, alimenta la poesia del nostro autore e solo talvolta esce allo scoperto in un quadro di Courbet – nel funerale cupo di un paesino di campagna – o nella citazione, all’apparenza quasi involontaria, di un Leibniz.
Si dovrebbe dire molto anche della scrittura stessa di Mohamed che si snoda lungo questo libro, senza mai seguire una regola stabilita, una scrittura molto spesso fatta di versi lunghi o lunghissimi, che si contraggono poi, quasi si coagulano in immagini nitide, taglienti; una poesia che diventa alla fine quasi prosa lirica, senza mai perdere il tono e l’inclinazione della poesia, una scrittura che non teme di giocare sullo scontro tra registri linguistici, tra codici diversi senza che il poeta cada mai nel compiacimento o nel perseguimento del “bello stile” fine a se stesso (e come non pensare a distanza di un paio di versi a quel «Madre, lontana come ti hanno scopata male», riferito a quella terra violentata di cui si diceva prima, e all’espressione: « In fila come tanti devoti nel giorno della scepsi /saremo», a far cozzare, come avrebbe detto Montale, il sacro e il profano).
Un libro che proprio in quegli omissis, che qualcuno frettolosamente potrebbe interpretare come una chiusa in minore rispetto alla forza trascinante della poesia di Mohamed, c’è l’ultimo lascito della scrittura di questo poeta, il materiale con cui continuare a costruire il proprio edificio ben oltre i confini di questo libro. «Scrivere poesia» dice, in estrema chiusura, «impone una coniugazione sfasata del / presente: un presente imperativo, eppure impraticabile. / Un amico da risanare.» E in quell’imperativo, in quella necessità, c’è tutto il senso “civile” di questa poesia.
Samir Galal Mohamed (Sassocorvaro, 1989) è un poeta italiano di origini egiziane. La sua silloge Fino a che sangue non separi compare in Poesia contemporanea. XII Quaderno Italiano (Marcos y Marcos, Milano 2015). Suoi testi e interventi appaiono regolarmente in riviste cartacee e on line. Attualmente vive a Milano, dove insegna filosofia e storia nelle scuole superiori. Il suo primo libro, Damnatio memoriae, è stato pubblicato – febbraio 2020 – per Interlinea Edizioni (Novara) nella collana “Lyra Giovani”, a cura di Franco Buffoni.
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