«Tra miliardi di simili incompresi e vacui»: recensione a "Coleoptera" di Enea Roversi
Se non fosse per la serietà dell’autore, si potrebbe dire che Enea Roversi abbia avuto una visione di futuro, attendendo poi due anni prima di renderla pubblica con questa nuova raccolta. Profetico e poetico.
Ma la nota dell’autore ci riporta sulla via di lettura corretta, ponendo un accento significativo rispetto all’onnipresente tema dell’attualità della poesia e dei poeti.
Coleoptera (Puntoacapo Editrice, 2020) è un chiaro esempio di come il verso sia una lente privilegiata attraverso la quale non tanto guardare, quanto piuttosto far riverberare il reale: «Si diramano stelle in ambo i sensi sull’asfalto / sembra latte ghiacciato, forse brina dicembrina rappresa / cerco di evitarla, non mi chiedo il perché di questa mia azione».
La forza di Enea Roversi si manifesta in questo denudare la vita, decidendo di aprire la prima sezione della raccolta – Presenze\Presente – con visione onirica e surrale: «sul marciapiede una macchia, con bianche striature». Una scelta beat, direi piuttosto cool – «latte ghiacciato» – ma ancor più una scelta sensuale e pittorica. Una scelta di tonale per metterci davanti ai nostri marciapiedi quotidiani, delle nostre città, insozzate da bibite, purificate da una «brina dicembrina» e da un «raggio di sole che infine / scioglierà la macchia con scontata dolce efferatezza».
Inizia così questo viaggio metropolitano, che sostanzia la prima sezione, dove – come evidenzia Alessandra Paganardi nell’accurata prefazione – si susseguono «corse ospedialiere, cani trascinati come oggetti di pezza, miasmi, pozzanghere e crepe sui marciapiedi». Non è allora fuori luogo ritrovarsi trascinati nella metafisica di un Giorgio De Chirico, «una stanza spoglia una sedia un altro uomo», se non quasi in un’atmosfera favolistica da Mago di Oz, «[...] smarrite / le generalità e sconosciute le sembianze / sono di latta e madreperla / i sogni che faccio / di legno e muschio / di fumo e schiuma marina / di vetro infranto e cuore duro».
La percettività del poeta è accerchiata: «eppure ce ne dovremmo accorgere / è reale e per nulla travisato questo tanfo», «quella luce smaccatamente bianca», «l’acqua è specchio metafisico», «un pulviscolo di pallore». Il poeta manifesta la tipica stanchezza da alienazione urbana, confondendo le dimensioni, ormai rassegnato alla sua «quotidiana fatica», che tradisce come una inutilità, una finitezza minimale, come uno «stanco tedoforo» con «il fiato corto senza neppure aver corso».
Di tutt’altra tempra è invece la seconda sezione – Addizioni e sottrazioni – con l’interrogativo retorico che prende forma fin dal primo componimento: «sopra l’arcata sopraccigliare destra / un puntino rossastro prude per / giustificare la propria presenza».
Questo essere al mondo, o se preferiamo, seguendo la prefazione e la citazione di Czeslaw Milosz, questo chiedersi perché scrivere versi che è eco dell’indagine poetica che accomuna ogni poeta, prende le redini del ritmo. Il paesaggio si incupisce, «i treni arrivano in ritardo da sempre / sfiancati da piogge intermittenti», l’aria resta di cattivo odore, «c’è odore di ferro e di sudore», la città si fa quasi decadente, «dopo la vittoria hanno brindato / con vino tristo e rancide patatine».
Crepuscolare anche in termini lessicali. Si abbandona la poetica della metafisica per entrare nel suburbano, nella globalizzazione mancata, e nel suo declino dagli effetti disumani: «il gioco può causare dipendenza, dice l’avviso», «così suburbano il paesaggio».
Lo straniamento si stende iperbolicamente sempre di più: «ho dubbi profondi come calanchi», le persone in carne ed ossa lasciano spazio a esseri «senza midollo e spina dorsale», «prima / eravamo personale ora siamo / risorse umane». Anche a livello fisico il corpo cede a un «corteo di ombre». E in questo paesaggio possiamo solo distinguere «la luce rossa del semaforo / confusa con l’insegna luminosa / compro oro: pago in contanti».
La contaminazione dilaga sempre più: «questo che si propaga e contamina / con prepotenza ogni panorama / è l’odore cattivo dei soldi». Il metafisico si è fatto disumano, e ora siamo costretti a rifugiarci nella distopia per immaginare il futuro. È da questo oblò minuscolo che si prospetta il domani, raccontato dalla terza ed ultima sezione: Il futuro del mondo. Una sezione corta. Volutamente minuta, stringata. E Roversi ce lo dice subito il perché di questa impossibilità comunicativa: « m’importasse qualcosa del futuro del mondo / di questa stupida Apocalisse più volte annunciata / sempre rinviata, come un treno in perenne ritardo.» [...] «il mondo può farsi fottere, insieme alla specie umana / non ho il tempo per pensarci e neppure la voglia».
Non c’è voglia. Abbiamo perso anche e soprattutto il desiderio di futuro.
Eppure Roversi la propone un’ipotesi: «forse la soluzione potrebbe stare nel / vivere come un coleottero qualunque». Ecco la verità. Nuda e nullificante. La simbiosi coprofaga col mondo. Vivere «tra miliardi di simili incompresi e vacui / con la disinvoltura del saprofago».
L’umano ha sempre meno spazio: «che cosa sarà / se diverremo noi stessi una catastrofe / che cosa di noi ma siamo ancora umani?». Il tempo onirico è finite, le «stelle si spengono», la morte viene evocata con innaturale modernità: «l’antenna sul tetto su cui sbatteranno le ali dell’angelo sterminatore».
È rimasta sola la presenza solitaria: «sto in un angolo a toccarmi», «gioco a scacchi da solo». La poesia è compressa nelle forme secche ed essenziali di una distopia devastante. Viene da augurarsi di non superare questo tempo: «beati infine colore che / dimenticheranno», il ritmo si spezza, «si frantuma la vertebra del mare». Non resta che la resa: «disperato l’ultimo uomo esala solo».
Roversi si congeda così dal lettore. Con una dolcezza mortuaria che non lascia intravedere speranze. L’attraverso della realtà ha contaminato l’occhio del poeta. Non resta che metamorfizzarsi in un coleottero e nel suo volo, affiancandoci allo scarto biologico così tanto temuto ma del quale siamo naturalmente parte integrante.
Enea Roversi vive a Bologna, dove è nato nel 1960. Si occupa di poesia da molti anni, collaborando con diverse realtà. E’ stato premiato e segnalato in numerosi premi letterari e pubblicato su riviste, antologie e siti web.
Nel 1988 partecipa alla rassegna Made in Bo ed è tra i fondatori del Gruppo Versodove. Alcuni suoi versi appaiono sulle riviste Opposizioni e Campi Magnetici.
All’inizio degli anni Novanta è tra gli ideatori e promotori della rivista letteraria sperimentale Uh! interamente dedicata alla letteratura umoristica.
Nel 2011 pubblica la silloge Eclissi di luna (Poesie 1981-1986), in versione e-book nella collana Nuovi Echi per la casa editrice La Scuola di Pitagora e la silloge Asfissia nell’antologia Contatti per la casa editrice Edizioni Smasher.
È presente nell’antologia I Quaderni del Drago, uscita per la casa editrice Bevivino.
Nel 2018 la raccolta inedita Coleoptera ottiene riconoscimenti a diversi concorsi letterari.
Nel 2019 pubblica la raccolta Incroci obbligati con l’editore Arcipelago Itaca, con postfazione di Enzo Campi.
Nel 2020 pubblica la raccolta Coleoptera con puntoacapo Editrice, con prefazione di Alessandra Paganardi.
Ha fatto parte della redazione della rivista online Versante Ripido, del Consiglio Direttivo dell’omonima Associazione Culturale e dello staff organizzativo della rassegna I Giovedì DiVersi.
Figura nello staff organizzativo del festival letterario Bologna in Lettere fin dalla prima edizione.
Si occupa anche di arti figurative, cimentandosi con tecniche miste e collage.
Cura il blog Tragico Alverman – Scrittura e altro.
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