«Su teste di donne»: recensione a "Gèlita" di Mariagiorgia Ulbar
Può accadere, talvolta, quando la scrittura poetica non è una semplice emanazione di chi scrive e il gesto non è spinto dalla sola contingenza del dire, ma dalla necessità di portare a galla qualcosa, di imbattersi in un libro come Gélita di Mariagiorgia Ulbar, pubblicato all’inizio di quest’anno per BS edizioni. Eppure la nota dell’autrice, splendida nel raccontare uno scavo dentro la memoria capace di far riaffiorare figure femminili dimenticate e anonime, lasciava intravedere la possibilità di una narrazione, di un’affannosa ricostruzione biografica che dalle carte di qualche archivio polveroso di una vallata si faceva scrittura, l’idea insomma di una raccolta piegata all’esigenza di testimoniare, di farsi documento.
Nulla di tutto ciò: Gèlita, figura d’invenzione, “mostro” ircocervino abitato da una presenza demoniaca che in sé fonde le fattezze della intellettuale, femminista ante litteram – nel senso più alto del termine – Angelica Ianesi e della sconosciuta Margherita, la prima ammalata dell’enigma Verzegnis, posseduta da un diavolo che ne annebbiava la psiche, e il corpo, prende forma e voce attraverso l’io della poetessa che si stacca da sé e si incarna in una presenza oscura che anima la parola. Lo fa dentro quel paesaggio asserragliato dalla neve della Carnia, tramutando i suoi antri, le sue caverne e i suoi corsi d’acqua in un alfabeto simbolico che riflette e rifrange l’epidemia collettiva che attraversa i suoi abitanti, contagiati da una nevrosi che vede nella donna, nella sua carne e nella sua mente, nel suo desiderio di essere libera di vivere e pensare i segni del demonio.
L’uso del lessico e del linguaggio come strumento cangiante per rivelare l’interiorità dolente di questa creatura è certo l’aspetto più notevole di questo libro che non indugia sulle circostanze biografiche, non cede alla tentazione facile dell’agiografia laica, non scivola in sofismi ideologici, ma tira fuori dal dentro della protagonista, come se stesse piazzando una luce a illuminare l’interno oscuro di una caverna, una catena ininterrotta di vocalizzi che si snodano lungo assi lessicali tanto chiari, quanto sempre scivolosamente ambigui.
Il sasso che compare come oggetto, come pietra da raccogliere, quasi fosse un amuleto, è la stessa pietra che si scaglia, quella che richiama un «cielo» che «lapida se non è ancora pronto», che evoca, neppure troppo sotterraneamente, le cacce alle streghe, le persecuzioni, i roghi; il letto, che tante volte appare dentro questo libro, è quello abitato dalla serpe, quello che richiama la tentazione che la donna esercita, che scatena e che ne fa una creatura demoniaca, una rappresentazione viva e terrificante del peccato.
Allo stesso modo l’inchiostro, quello che animava Angelica Ianesi, pare quasi una pozione magica, un intruglio di cui si riproduce meticolosamente la ricetta e il caffè, che è pure il titolo del saggio della Ianesi, ritorna alla sua essenza primordiale quasi a negare la portata innovativa, l’eversione culturale rappresentata dai suoi scritti.
Il ritmo delle “coblas capfinidas” della poetessa, spezzate solo dalla prosa che racconta il sogno, poetico e allusivo esso stesso, della protagonista – che non a caso prende le mosse da una caverna – crea una litania che nella replicazione degli elementi trova la sua forza, una replicazione che non si fa mai ossessiva e che fa roteare le parole sulla pagina lasciando che mostrino la loro valenza polisemica, il loro valore intrinseco e che i disegni, pochi e semplici sparsi lungo le pagine del libro, illuminano con la loro forza visiva. Tutto in questo libro e sotteso ed evocato per lacerti e sprazzi, eppure tutto tramortisce il lettore, trascinandolo nel cuore di quelle caverne, sotto la neve, a soppesare il senso e la consistenza di quel morbo sconosciuto di cui non si comprende il significato e la portata.
E alla fine pare anche a noi di essere parte di quella tavola, di quella mensa in cui quelle presenze prendono vita e si rianimano, in cui il mostro si crea per poi iniziare il suo monologo, il suo canto.
Mariagiorgia Ulbar ha pubblicato I fiori dolci e le foglie velenose (2012), la silloge “Su pietre tagliate e smosse” all’interno dell’Undicesimo quaderno italiano di poesia contemporanea a cura di Franco Buffoni, le plaquette illustrate Osnabrück e Transcontinentale (2013), la raccolta Gli eroi sono gli eroi (2015), Un bestiario (2015), Lighea (2018), Hotel Aster (2022). Insegna, traduce, modella la ceramica per progetti di “poetryandpottery”. Fa ricerca sui concetti di frammento e lacuna nella ricezione letteraria. Dal 2012 è editrice e curatrice di La Collana Isola, che pubblica piccoli libri sperimentali di poesia e illustrazione.
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