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  • Immagine del redattoreAlessandra Corbetta

Nota di lettura a "Sibilla" di Zahira Ziello

La figura della sibilla, codificata sia storicamente che mitologicamente, rimanda a quella di una vergine che, ispirata da un dio, era in grado di vaticinare su cose e persone, sebbene in una forma oscura e non comprensibile in maniera univoca e, normalmente, durante uno stato di trance.

Scegliere di evocare questo personaggio significa volere creare da subito un legame con ciò che ci trascende e, allo stesso tempo, negare la possibilità di una verità unica e definitiva; anche per questo, Zahira Ziello intitola Sibilla (Terra d’ulivi 2021) la sua raccolta, oltre che per potere avvolgere il focus di osservazione di un’aura prettamente femminile, come già ci suggerisce il testo di apertura dell’opera:


Non so di essere nata

mi hanno fatta nascere

eppure ho il ventre caldo

di chi sta per partorire,

come se dovesse ancora essere.


Eppure, e in questo risiede uno degli aspetti più interessanti dello scrivere di Ziello, i versi procedono allo smantellamento di qualsiasi forma di sacralità e l’atto stesso del generare, spesso menzionato, assume tinte cupe e sacrileghe; non è solo la difficoltà di interpretare ciò che ci viene annunciato a essere oggetto di riflessione ma, soprattutto, la messa in discussione di chi è chiamato a dirci qualcosa, poiché tutto quello che ha in sé il seme della nascita, ventre o parola che sia, contiene simultaneamente il germe dello sfacelo, della distruzione. C’è nero, sangue, umidità; ci sono corpi visti nelle parti che li costituiscono a fare da sfondo alle figura-ombra che si muovono dentro le pagine di questa raccolta, nella quale Ziello tutto scarnifica attraverso un processo antropofagico che, tra gli altri, già Lévi-Strauss aveva individuato come via di conoscenza del sé e dell’Altro. «Ma questa fune punta in basso» perché ogni atto, quanto più intriso di valore culturale o simbolico, è destinato a mostrarsi in tutta la sua inutilità, nella sua incapacità di forgiare davvero il reale del quotidiano. A questo serve l’atmosfera del mito che Sibilla crea e, contestualmente, distrugge, rendendo, anche attraverso le scelte foniche e lessicali opzionate, la morte uno dei più soffocati rantoli a cui siamo destinati, il dondolio inevitabile che tutti ci cullerà.

Ziello non lascia fessure né feritoie e a dominare è il buio: la voce non riesce a cantare, la nascita è dannazione, l’amore non è sufficiente a cambiare il corso delle cose. E la Sibilla fatica a riportare il messaggio divino.


Matrigna


Come posso io

essere nata

da un ventre umidiccio,

io che ho la pelle

che puzza di vino

e le viscere che cantano

guerra.


Sibilla


È sibilla

i satiri che le marciano in testa,

ha la violenza dei padri:

un bastone fra le mani

È blasfema

nonostante faccia l’amore al dio

tutti i giorni

ha l’odore di orchidee morte secoli fa.



Gioventù


Vi auguro di non nascere

Di ignorare viscere e cordoni

Di seppellire i padri

E di rendere serve le madri

Vi auguro di allontanare le inibizioni del sangue

Il bastone degli antenati

Le catene dei morti

E le tombe di chi crede

Slanciatevi giù

Dove le vene scorrono

E le voci cessano.


L.


Grida come se fossi dentro

ascolta quel che

l’umido ti risponde

Se hai male

strappale le costole

dal petto

Leccale via la vita,

non ha altro da offrirti.



Miglioria


Spirare nella loro gola sarebbe apoteosi

ma la morte non è che dei vivi


Zahira Ziello è nata in provincia di Caserta, ha frequentato il liceo classico, studia all’accademia di recitazione, si occupa di teatro e drammaturgia. Questa è la sua prima raccolta di poesie.

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